MELOTTI, Fausto
MELOTTI, Fausto. – Nacque a Rovereto l’8 giugno 1901 da Gaspare e da Albina Fait. Primogenito, il M. ebbe due sorelle, Lidia e Renata; crebbe in un ambiente familiare sereno e contraddistinto da sincero amore per l’arte e la musica, disciplina cui i fratelli furono presto indirizzati e in cui il M., al pari delle sorelle, raggiunse ottimi risultati.
La formazione del M. avvenne in un clima di grande apertura, quale quello che caratterizzava la Rovereto asburgica, percorsa da fermenti irredentisti e centro culturale vivace, grazie a figure quali gli archeologi P. Orsi e F. Halbherr o il musicista R. Zandonai, e grazie all’eredità di pensiero di A. Rosmini. Dal 1907 al 1914 frequentò la scuola reale elisabettina, dove ricevette i rudimenti di disegno da L. Comel. Nel marzo 1915, in fuga dal conflitto mondiale, la famiglia Melotti si trasferì a Firenze; qui il M. frequentò l’istituto tecnico G. Galilei, diplomandosi nel 1918. Affiancato dal cugino Carlo Belli (in seguito storico e teorico dell’arte astratta italiana) il giovane M. trasse grande profitto dagli anni fiorentini, studiando dal vivo il Rinascimento e la statuaria quattrocentesca, e ricordò sempre quel periodo come un tempo felice.
Iscrittosi dapprima alla facoltà di fisica e matematica dell’ateneo pisano (autunno 1918), dal 1919 il M. proseguì gli studi al Politecnico di Milano, dove si laureò nel 1924 in ingegneria elettrotecnica. Studente fuori sede, in occasione dei rientri a Rovereto, dove la famiglia frattanto era tornata, il M. frequentava, insieme con Belli, le giovani élites culturali, delle quali facevano parte, tra gli altri, gli architetti G. Pollini, A. Libera e L. Baldessari, che con il M. percorsero molta strada, nonché il pittore F. Depero, più maturo e all’apice della creatività con la sua casa d’arte. Con l’inseparabile Belli, il M. partecipò nel 1923 alla decorazione della sala per la «veglia» futurista organizzata da Depero, animata serata danzante che segnò il momento di maggiore contatto con il celebre concittadino.
L’incontro con la scultura risale al 1925: giunto a Torino per gli obblighi militari, il M. prese a frequentare lo studio di P. Canonica, del quale lo zio materno C. Fait era assistente; contemporaneamente il M. frequentava l’Accademia Albertina.
L’osservazione della nitida abilità scultorea di Canonica e di Fait, tesa a ottenere dalla materia marmorea effetti di luce alabastrina, impressionò intimamente il M., che decise di dedicarsi alla plastica.
Nel 1928, infatti, si iscrisse all’Accademia di Brera, al terzo anno, nella classe di A. Wildt. Fu qui che conobbe L. Fontana, cui lo legarono un’amicizia e un’intesa intellettuale rare.
Entrambi riconobbero sempre il debito contratto con Wildt per l’educazione al più severo controllo dell’esecuzione dell’opera, all’alleggerimento della materia, allo svuotamento delle masse, alla tensione verso volumi definiti e puri.
Diplomatosi nel 1929, il M. si stabilì a Milano, dove si inserì negli ambienti culturali più all’avanguardia: conobbe nel 1930 Giò Ponti, che lo introdusse come disegnatore-progettista alla manifattura ceramica Richard-Ginori, da lui stesso diretta. Alcune ceramiche e porcellane disegnate dal M. furono esposte quell’anno alla IV Triennale di arti decorative; nella stessa rassegna il M. era presente con un bassorilievo in bronzo, inserito nel progetto della Casa elettrica disegnata da L. Figini e Pollini con altri architetti del Gruppo 7.
La collaborazione con gli architetti divenne prassi corrente per il M.: Baldessari con Figini e Pollini, oltre a M. Nizzoli, lo coinvolsero nella decorazione del bar Craja in piazza Ferrari, ambiente ritenuto dalla critica il manifesto del razionalismo italiano. Il M. ideò una fontana di ferro nichelato su un fondo a specchio, raffigurante tre figure di bagnanti dal modellato sintetico (Celant, 1994, nn. 1930 e 1931. 1). Il bar Craja divenne il ritrovo degli intellettuali più aggiornati: dai poeti A. Gatto e S. Quasimodo, ai critici come E. Persico, agli artisti quali C. Carrà e A. Martini.
Alla Triennale milanese del 1933 il M. espose, accanto ai disegni per trine e merletti o tessuti, una scultura equestre dai modi stilizzati, prevista per la «villa-studio per un artista» ideata da Figini e Pollini, confermando il suo duplice interesse per la relazione tra scultura e architettura e per la progettazione di oggetti.
Dal 1932, intanto, il M. teneva un corso di scultura moderna presso la Scuola del mobile di Cantù, istituto professionale per mobilieri che intendeva rinnovare i propri insegnamenti.
Il M. fece del proprio corso un’occasione di riflessione di metodo e di un nuovo approccio alla scultura, cercando di stimolare gli allievi a sviluppare in piena libertà un discorso creativo personale e fornendo loro alcuni concetti di base, quali il ritmo, l’ordine compositivo, la geometria di piani e volumi. Nel 1934 gli elaborati degli allievi di Cantù furono esposti con successo a Milano alla galleria del Milione, aperta nel 1930 in via Brera dai fratelli Giuseppe e Gino Ghiringhelli, galleria che si distingueva per un programma di avanguardia. La mostra fu visitata, e lodata, anche da Le Corbusier (C.-E. Jeanneret-Gris) in viaggio in Italia; nel testo di presentazione della mostra il M. sintetizzò così la propria maieutica: «il piccolo eroismo di pensare con il proprio cervello» (M.: 1901-1986, p. 160).
Fu questa per il M. un’epoca di grande concentrazione e approfondimento, documentata da un buon numero di disegni dalle atmosfere metafisiche e vagamente surreali, che sfociò, dopo una significativa partecipazione alla I Mostra italiana d’arte astratta, tenutasi a Torino negli studi di E. Paulucci e di F. Casorati, nella sua prima personale, nel maggio del 1935 presso la galleria del Milione.
Il M. selezionò diciotto sculture, del tutto astratte, di vario materiale e semplicemente numerate: la prorompente, rivoluzionaria novità di opere frutto di pensiero matematico, tese ma senza pathos, espressione di pura forma, ne decretò l’insuccesso critico: Carrà negò perfino che si trattasse di scultura. Oggi queste sculture sono considerate tra i momenti più alti della civiltà figurativa italiana del Novecento. L’indagine del M. verteva sull’ipotesi di trasferire alla scultura le leggi della musica: i canoni, le variazioni, gli intervalli, le misure, equiparando il pieno al vuoto, creando momenti di sospensione (come il levare in musica) e di silenzio. Esemplare, per nitore, la Scultura n. 11 (gesso, 1934: Celant, 1994, n. 1934.4) che presenta una struttura di linee ortogonali che si concludono con due volute di compostezza classica. Il tema della voluta, che figurava già nei disegni degli anni Venti, fu ripreso (a riprova della costanza dell’opera del M.) nel 1969 nella Scultura C. L’infinito (ibid., n. 1969.35: Roma, Galleria nazionale d’arte moderna).
Incompreso in patria, il M. trovò al tempo qualche maggior riscontro all’estero: nel 1936 aderì al movimento francese Abstraction-Création; in seguito la sua opera comparve nel volume Moderne Plastik di Carola Giedion-Welker (Zürich 1937); nel 1938, infine, dopo un soggiorno parigino in compagnia di Belli e di Gino Ghiringhelli (durante il quale incontrarono anche V.V. Kandinskij), il M. si aggiudicò il premio La Sarraz consistente in un soggiorno nell’omonimo castello in Svizzera, assegnato negli anni precedenti ad artisti quali P. Picasso o H. Arp.
In Italia data al 1936 il suo intervento nella sala della Coerenza, allestita dallo studio BBPR (Banfi, Belgioioso, Peressutti, Rogers) alla VI Triennale di Milano: il M. produsse una serie di dodici sculture antropomorfe, seppure astratte, denominate Coerenza Uomo che riprese più volte nei decenni successivi, considerandole una tappa importante del proprio percorso. Ignorato dai critici, il M. godeva invece della stima dei colleghi, quali M. Marini, che nel 1937 gli dedicò un intenso ritratto (Firenze, Museo Marino Marini) che ne metteva in luce il carattere introspettivo e l’intelligenza razionale.
Sfiduciato, negli anni seguenti il M. operò come decoratore in commissioni pubbliche: tra il 1937 e il 1939 realizzò alcuni bassorilievi per il piacentiniano palazzo di Giustizia di Milano; nel 1940 decorò il vestibolo del palazzo dell’Arte (Milano, VII Triennale) con quattro statue allegoriche ispirate alle arti plastiche (Scultura, Decorazione, Architettura e Pittura) dove il M. con echi martiniane, nell’intento di rinnovare l’iconografia tradizionale, pervenne a un risultato alquanto retorico e magniloquente (Celant, 1994, nn. 1939 e 1940.5-8). I concorsi nazionali per le strutture romane dell’E 42 segnarono un passaggio delicato nella vita del M.: coinvolto da Figini e Pollini (dal 1931 suo cognato, avendo sposato la sorella Renata) nel progetto per il palazzo delle Forze armate, il M. ricevette l’incarico da C.E. Oppo di eseguire la decorazione statuaria della piazza antistante.
Dapprima si pensò a statue equestri, ma, dopo complesse traversie, si decise per dei gruppi monumentali di figure ispirati ai dettati mussoliniani: «Si redimono i campi», «Si fondano le città». Per portare a conclusione il lavoro il M. si trasferì a Roma, dove risiedette, piuttosto disincantato sul piano professionale, dalla fine del 1941 al 1943. Incompiuta, la decorazione dell’Eur vide posta in sito la sola figura maschile di «Si redimono i campi»; mentre i fatti bellici trattennero per sempre a Carrara la corrispondente figura muliebre.
Risale a questo periodo la conoscenza con Lina Marcolongo, in seguito sua moglie, dalla quale ebbe due figlie: nel 1945 Cristina e, nel 1946, Marta. Nell’estate del 1943 i bombardamenti distrussero quasi il suo studio milanese di via Leopardi, cancellando le tracce di tanta parte della produzione giovanile. Lo sgomento per la rovina arrecata dalla guerra si tradusse nel 1944 nel volumetto di poesie Il triste Minotauro, pubblicato a Milano da G. Scheiwiller (ripubblicato nel 1974), che rivelò un M. lirico, venato di malinconia. Le necessità quotidiane, ma forse anche l’esigenza di una tranquillità appartata, indussero il M. a intraprendere un’attività di ceramista e scultore in terracotta che negli anni gli diede molto lavoro e molto onore.
Dalle stoviglie agli apparati decorativi, ai monili, alle piccole sculture, l’artista percorre un mondo colorato, d’atmosfera lieve e poetica, intimo e delicato. Riprende, esplorandone nuove possibilità, alcune idee plastiche già intuite negli anni Trenta: sono i Teatrini, composizioni evocative e ironiche, dove entro una cornice a scatola di gusto metafisico, il teatrino appunto, vengono ambientate figurine che suggeriscono racconti, stati d’animo, metafore. Emblematico, Solo con i cerchi (ibid., n. 1944.4), in cui una figuretta stilizzata siede pensosa e silente in un ambiente spoglio, affiancata da cerchi, come pensieri che prendono corpo. Di queste opere, debitrici dell’Arturo Martini più segreto, il M. disse «i miei Lieder», indicando, con il titolo musicale, delle opere vocate al canto. Dello stesso periodo anche la Lettera a Fontana, rilievo in ceramica smaltata, missiva ideale all’amico lontano per la guerra, dove un volto trasfigurato affiora da un modellato pulsante e tendente all’informale (l’opera fu esposta alla XXV Biennale di Venezia nel 1950: ibid., n.1944.2).
Il dopoguerra fu carico di opportunità per il M., che a lungo fu impegnato principalmente come ceramista: le riviste Stile e Domus a più riprese pubblicarono le sue maioliche (complementi d’arredo e oggettistica), con le quali, avendole esposte alla VIII Triennale di Milano (1947), ottenne il diploma d’onore. Ancora, con tre pezzi ceramici partecipò alla Biennale di Venezia e alla mostra collettiva Handicraft as a fine art in Italy, presentata da C.L. Ragghianti (1948: New York), che riunì i migliori artisti italiani del tempo. Contemporaneamente il M. operava come decoratore d’ambienti e scultore funerario: si ricorda L’angelo della sera per la tomba Manusardi progettata da Figini e Pollini (1948-49: Milano, Cimitero monumentale), figura meditativa inserita nel rigido partito architettonico della cappella (M.: 1901-1986, p. 168).
In quel tempo riprese, intensificandosi e dando ottimi frutti, il rapporto con Giò Ponti, il quale tra gli anni Cinquanta e i Sessanta lo coinvolse in alcuni dei suoi più importanti progetti: nel 1950, infatti, gli commissionò le grandi Cariatidi per lo scalone del «Conte Grande», la nave di cui Ponti curava gli allestimenti; quindi le statue di Marte e Venere per il camino della casa Cremaschi a Como, arredata da Ponti; ancora la decorazione del patio della villa Planchart a Caracas (1957), villa Nemazee a Teheran e, a seguire, i lavori per il terminal dell’Alitalia di Milano (1960) e per i grand hotel Parco dei Principi di Sorrento e di Roma.
Nella maturità il M. ha spesso ridimensionato il valore artistico del suo lavoro di ceramista, riconducendo questo ambito a bisogni di sopravvivenza e a sollecitazioni esterne: la critica coeva, invece, considerò l’opera ceramica di primario interesse, selezionandola per molte rassegne prestigiose e tributandole onorificenze (1951, gran premio della Triennale; 1958, «grande medaglia d’oro ad artefice italiano» del Comune di Milano; 1962, medaglia d’oro all’Esposizione internazionale di Praga; 1964, medaglia d’oro all’Esposizione di Monaco di Baviera). Tale riconosciuta maestria artigianale procurò al M., oltre alle commesse pontiane, altri incarichi di collaborazione con architetti celebri come M. Bega, O. Borsani, Pollini, A. Rosselli. Tra le varie realizzazioni giova ricordare, a conferma della notorietà internazionale dell’artista, la villa sul mar Caspio dello scià di Persia Riẓā Pahlavī e il palazzo presidenziale di Bucarest, oltre alla villa reale di Hailè Selassiè.
Culmine della produzione ceramica è da ritenere la partecipazione del M. a «Italia 61. Esposizione internazionale del lavoro» organizzata a Torino per il centenario dell’Unità nazionale. All’interno del palazzo del Lavoro, ideato da P.L. Nervi, il M. eseguì (su invito di Ponti, ordinatore degli interni) un’imponente parete di lastre tutte differenti (altezza complessiva di 12 m, ottocento pezzi unici) ispirate al tema «Evoluzione della forma nell’artigianato»: dopo tale titanica impresa «l’artigiano se ne va in pensione» (Pirovano, 1996, p. 29).
Nel 2003 il Museo d’arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto ha dedicato alla ceramica melottiana una grande retrospettiva che ne ha rimesso in luce, grazie anche a un allestimento affascinante, l’alta qualità formale e inventiva e ha permesso di valutare la piena coerenza di tale produzione del M. con quella scultorea. Di più, la mostra ha chiarito come alcune forme e temi ricorrenti della ceramica, quali le esili Korai, abbiano costituito un esercizio di stile per il ritorno alla statuaria negli anni Sessanta. Una buona documentazione della maiolica melottiana è custodita presso il Museo internazionale delle ceramiche di Faenza.
Accanto a questa attività il M. coltivava, per proprio diletto, la pittura: nel 1956 A. Gatto lo introdusse in una mostra alla galleria L’Annunciata di Milano presentando tale aspetto inedito dello scultore come un diario privato, cui il M. avrebbe affidato rinnovate speranze di significato, dopo le delusioni della scultura.
In realtà, il M. andava meditando autonomamente sulla forza della sua arte giovanile e sui difficili presupposti, storici e teorici, su cui l’astrazione italiana degli anni Trenta aveva poggiato. Questo ripensamento, denso di incertezza e carico di aspettative, proruppe in una nuova stagione creativa, nella quale la scultura (ma anche la grafica e la poesia) trovò espressioni impreviste: il M. ne parlò in un articolo del 1962 su Domus dal titolo Sculture astratte del ’35 e del ’62 (cfr. Celant, 1994, p. 727), nel quale egli esortava il lettore a diffidare degli artisti che replicano se stessi, così come dei temperamenti eccessivamente tormentati, invitandolo a fuggire le facili classificazioni e ad amare «i vagabondi dei sentieri incerti», come Picasso, J. Dubuffet, Fontana. Il M., per parte sua, dichiarava di tornare «all’orfico mediterraneo imeneo della geometria con la poesia»: illustrava dunque il testo accostando opere del 1935 alle recenti composizioni metalliche, indicando con ciò la continuità ideale del suo lavoro. Autoritratto (1962: ibid., 1994, n. 1962.1) è, in questo senso, opera rappresentativa, costituita da una struttura metallica filiforme, sulla quale poggia un parallelepipedo scandito da celle cubiche, in ottone, animate da sferette (forse note musicali, forse elettroni) di varia dimensione. Svuotata di ogni peso materico, radiante di luce morbida, armonicamente ripartita, la scultura induce al sorriso mentre allude in chiave ironica al vissuto atipico dell’effigiato, l’autore. La critica ha parlato di dematerializzazione della scultura, ne ha colto i rapporti con le sperimentazioni spaziali di Fontana; ma ciò che tuttora colpisce nella seconda produzione scultorea del M. è lo spirito gioioso e di favola, di racconto leggiadro che informa queste opere anche laddove trattino di argomenti dolorosi, come nel Monumento ai perseguitati politici, elegia impalpabile e dinamica sulla morte per la libertà di pensiero (ibid., n. 1962.7).
Nell’estate del 1963 E. Crispolti invitò il M. a esporre alla mostra «Aspetti dell’arte contemporanea», a L’Aquila: l’artista scelse alcune sculture del 1935, confermandone l’attualità. Ugualmente, quando il Comune di Milano gli commissionò un gruppo in pietra per il nuovo liceo G. Carducci, il M. riprodusse i manichini di Coerenza Uomo e ne dispose sette liberamente nello spazio, intitolandoli I sette savi (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna). L’insieme fu notato dalla critica, ma, sfregiato dagli studenti, venne rimosso.
Fu però la partecipazione alla XXXIII Biennale veneziana (1966), nella sezione «Aspetti del primo astrattismo italiano. Milano-Como 1930-1940», curata da N. Ponente, a richiamare l’attenzione della critica più avveduta sul suo lavoro; e le sue presenze espositive andarono allora moltiplicandosi. Nella primavera del 1967 partecipò con alcune sculture giovanili alla mostra «Arte moderna in Italia 1915-1935» al palazzo Strozzi di Firenze: in tale occasione la città di Firenze gli conferì il Fiorino d’oro; nel marzo dello stesso anno tenne una personale alla galleria Toninelli di Milano, la seconda dopo quella del 1935, e vi presentò, riscuotendo un grande successo di critica, la produzione scultorea recente. Accanto alla mostra fu pubblicato, a cura di V. Scheiwiller, il libro Sculture recenti di F. M. 1934-1935 e 1962 (inserito nella collana «Arte moderna italiana», n. 53) con un testo dell’artista, Un gioco che, quando riesce, è poesia, nel quale l’autore esprime la volontà di ritrovare in arte le regole del contrappunto, che «modula» e non «modella» le parti compositive: «Nel divertimento delle parti, non “piani” correttamente giustapposti e palesi (modellazione), ma piani che, giocando fra loro, danno vita a piani immaginari» (ripr. in Celant, 1994, p. 729). Un’arte, dunque, che muovendo dal dato della realtà della materia, si libra verso luoghi della mente (secondo le leggi della geometria e della musica) alla ricerca di un soffio poetico.
L’attenzione dedicata al M. dalla critica negli anni successivi fu duplice: da un lato la sua figura e la sua opera giovanile si inserirono nella prospettiva di rivisitazione storica dell’arte e dell’architettura tra le due guerre; dall’altro, egli, come artista contemporaneo, divenne oggetto di sincera ammirazione. L’attività espositiva, da allora sempre più serrata, sia presso gallerie private sia, in modo crescente, in luoghi istituzionali, è riportata nel dettagliato apparato biobibliografico contenuto nel catalogo generale dell’artista (Celant, 1994). Per quanto concerne le collettive meritano comunque di essere segnalate: «Esperienze dell’astrattismo italiano 1930-1940» (1968: Torino, galleria Notizie); «Aspetti del primo astrattismo italiano 1930-1940» (1969: Monza, Galleria civica d’arte moderna); «Letteratura-Arte. Miti del ’900» (1979: Milano, PAC). E ancora tra le mostre personali più importanti, oltre a quelle citate in bibliografia, si ricordano: nel 1971, una grande antologica al Museum am Ostwall di Dortmund, dove fu presentato da G. Dorfles; nel 1972, una rassegna completa del suo lavoro presso la Galleria civica di Torino; nell’estate del 1976, l’esposizione allestita a Parma presso le Scuderie della Pilotta, a cura di M. Calvesi. Nel 1979 Milano lo onorò a palazzo reale, con la cura di C. Pirovano. Magistrale, infine, la retrospettiva tenutasi a Firenze nel 1981, al forte Belvedere, allestita dallo stesso M.: nei terrapieni di fronte alla città che aveva molto amato l’artista poté dare compimento al desiderio di spazio armonico. Le opere, alcune delle quali in scala monumentale, messe in relazione con gli agenti atmosferici e con l’architettura rinascimentale sullo sfondo, dispiegarono una capacità immaginifica rara: è il caso di Tema e variazioni II, composizione di strutture lineari connotate da segni formali di base (il quadrato, il pendolo, l’ellisse) alternati e variati da un ritmo melodico. È un’idea musicale che si staglia contro il cielo di Firenze (oggi Santomato, collezione Gori: Celant, 1994, n. 1969.58).
La vitale maturità del M., trascorsa in parte a Roma, si concretizzò in interventi lucidi e coerenti anche in campi collaterali alla scultura, quali la poesia, la prosa, l’incisione originale, che trovarono ampio consenso critico e di pubblico.
Nel 1971 P. Fossati curò Lo spazio inquieto (Torino), una raccolta di aforismi del M. accompagnata da un testo di I. Calvino; nel 1975 Adelphi (Milano) pubblicò Linee, libro di poesie e aforismi, che ebbe un seguito nel 1978 in Linee. Secondo quaderno; infine, nel 1984, vide la luce la raccolta di poesie Insonnia (Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro). La raccolta I viaggi, invece, fu pubblicata postuma nel 2002 (Parma, Università degli studi, facoltà di architettura). Per quanto attiene all’incisione, si segnalano Alfabeto per Cristina e Alfabeto per Lina (1974), cartelle di acqueforti ispirate al tema della scrittura che rispecchiano le contemporanee ricerche in ambito plastico.
Molte e prestigiose le onorificenze assegnate all’artista: nel 1974 il M. conseguì il premio Rembrandt della Fondazione Goethe di Basilea, in concorso con F. Wotruba, E. Chillida e Barbara Heptworth; nel 1977 ricevette il premio europeo Umberto Biancamano, assegnato quell’anno anche ad A. Burri; nel 1978 l’Accademia dei Lincei gli conferì il premio Feltrinelli per l’arte; infine, dal 1982 fu accademico di S. Luca a Roma.
Il M. morì a Milano il 22 giugno 1986 e fu sepolto nel cimitero di San Felice a Ema, presso Firenze. La Biennale di Venezia gli assegnò, quello stesso anno, il Leone d’oro alla memoria.
Fonti e Bibl.: L. Ponti, Il mago M., in Domus, XX (1948), 230, pp. 24 s.; Progetti di M.: 1932-1936, a cura di M. Fagiolo dell’Arco, Torino 1970; A.M. Hammacher, M., Milano 1975; F. M.: opere 1935-1977 (catal.), a cura di B. Passamani, Trento 1977 (in particolare il testo di C. Belli, Raccontare il futuro, pp. 9-13); M. (catal., Roma), a cura di B. Mantura, Milano 1983; M.: 1901-1986 (catal., Matera), a cura di G. Appella - P.G. Castagnoli, Milano 1987; F. M.: l’acrobata invisibile (catal.), a cura di M. Garberi - L. Matino - G. Carandente, Milano 1987; F. M. (catal., Venezia), a cura di G. Celant, Milano 1990; C. Pirovano, F. M., la dematerializzazione della pittura, in Scultura italiana del Novecento. Opere tendenze protagonisti, Milano 1993, pp. 276-293; G. Celant, M. Catalogo generale, Milano 1994 (con biografia e bibl.); F. M.: teatrini 1931-1985 (catal., Verona, galleria dello Scudo), a cura di C. Pirovano, Milano 1996; G.C. Bojani, F. M. La maestrina del «Leonardo da Vinci» e la maiolica, in Faenza, LXXXVII (2001), 1-3, pp. 41-62; D. Filardo, F. M., in Scultura lingua morta (catal., Leeds-Rovereto), a cura di P. Curtis, s.l. 2003, pp. 75-90; F. M.: l’opera in ceramica (catal., Rovereto), a cura di A. Commellato - M. Melotti, Milano 2003; L. Modena, «Mi veniva da scrivere città sottili come le sue sculture»: la scultura di F. M. nelle «città invisibili» di Italo Calvino , in Letteratura e arte, II (2004), pp. 217-242; E. Pontiggia, La scultura degli anni Trenta, in La scultura italiana del XX secolo (catal.), a cura di M. Meneguzzo, Milano 2005, pp. 230-232, 256, 285 s.; S. Risaliti, M. Catalogo generale della grafica, Milano 2008.
M. Picciau