favella
Se per il Buti al non con questa moderna favella con cui Cacciaguida si rivolge a D. (Pd XVI 33) è sufficiente la chiosa " non al modo che parlo ora io Dante ", altri commentatori si fermano più a lungo sul passo, ancor oggi discusso.
L'Ottimo pone un'alternativa: " o a dare ad intendere, che gli antichi nostri ebbero non del tutto il nostro idiomate; o vero a dimostrare, che nell'altro regno è una sola lingua partita dalla nostra ": la seconda ipotesi, in certo modo ripresa dal Vellutello - " con divina e angelica favella " -, è oggi più o meno recisamente respinta. La prima aveva trovato più ampia eco in Benvenuto: " quasi dicat, sed antiqua; quia... tempore illius florentini non discurrebant per mundum, nec per consequens dimittebant proprium idioma patriae, sicut nunc multi faciunt... fiorentini qui hodie peregrinantur loquuntur multo pulcrius et ornatius, quam illi qui numquam recesserunt a limine patriae ". Cacciaguida parla dunque il fiorentino del suo tempo, che D. contrappone alla moderna favella dell'epoca propria; e così intendono oggi molti commentatori (Scartazzini-Vandelli, Casini-Barbi, Torraca, Del Lungo, Grabher, Sapegno, Mattalia, Chimenz), ricordando il passo del Convivio (I V 9) in cui D. stesso parla delle trasformazioni che il linguaggio subisce con l'andar del tempo (e cfr. anche VE I IX 6 omnis nostra loquela... non durabilis nec continua esse potest). Ma il Daniello chiosa: " con l'antico latino, percioché in quei tempi, volendo o scrivere o parlare di alcuna cosa di qualche momento, scrivevano o parlavano latino... e che così parlasse Cacciaguida, dalle sue stesse parole ci si fa manifesto, quando disse: ‛ O sanguis meus ', ec. "; " in latino " intende anche il Tommaseo, e poi il Rossi (" per Dante ‛ l'uso moderno ' è l'uso volgare; cfr. Purg., XXVI 113... Nessuno poi si chiederà... perché Dante non riproduca in latino tutto il discorso di Cacciaguida, che, svolgendosi in quattro canti, avrebbe così generato una vera inopportunità poetica "). Anche il Porena sostiene questa tesi, osservando che altrimenti " risulterebbe che Cacciaguida parlò in tre idiomi: prima in latino, poi nel volgare stesso di Dante, e poi, quando Dante ci avverte che non parlò più in moderna favella, nel volgare del suo tempo " (per ulteriori considerazioni lo studioso rimanda al suo scritto La lingua di Cacciaguida, in Questioni e questioncelle dantesche, Roma 1942).
Comunque sia, f. qui vale " lingua ", " idioma ", come in If V 54, dove Semiramide è definita imperadrice di molte favelle, perché - si noti il forte traslato - " fu donna di molte nazioni, nelle quali erano molti e diversi modi di parlare " (Boccaccio). Così anche in If II 57: Beatrice si rivolge a Virgilio con angelica voce, in sua favella, " cioè in fiorentino volgare, non ostante che Virgilio fosse mantovano " (Boccaccio, poi Tommaseo). Ma forse a questa interpretazione così specifica del termine è preferibile quella, più generica, di " modo di parlare... diverso dal nostro, imperò che il nostro è con errore e difetto, questo è sempre vero e perfetto " (Buti; analogamente Benvenuto, Landino, Andreoli); " con angelica voce nel suo favellare " (Parodi, che riporta altri esempi del vocabolo [cfr. Lingua 338]; Scartazzini-Vandelli); se non si vuol condividere il parere del Sapegno, che vede nell'espressione " un modo ridondante, che riprende il dir del v. precedente (come al v. 97: ‛ chiese... in suo dimando ' ) "; così anche il Chimenz.
Con questo valore di " linguaggio ", " modo di parlare " - è la chiara favella con cui D. si rivolge a Venedico Caccianemico, di cui ha pronunciato il nome per esteso (If XVIII 53, 50: ma cfr. il Buti: " questo dice o perché Dante l'avea nominato, o perché Dante parlava latino, ch'è parlare chiaro più che l'altro ") - la parola ritorna, in senso figurato, in Rime XC 21 e in Pd XIV 88 Con tutto 'l core e con quella favella / ch'è una in tutti [ " cum oratione mentis quae est eadem apud omnes, quamvis habeant diversa idiomata ", Benvenuto; " cogli interni sentimenti dell'animo ", Lombardi], a Dio feci olocausto.
Le orribili favelle, che, insieme con le diverse lingue (e ancora: parole di dolore, accenti d'ira, / voci alte e fioche, e suon di man con elle, If III 25) producono il tumulto infernale, sono " parole ", o modi di parlare che il Boccaccio definisce " spaventevoli, come son qui tra noi quelle de' Tedeschi, li quali sempre pare che garrino e gridino, quando più amichevolmente favellano "; " parlari da far paura altrui " (Buti), " quasi orrendi ragionamenti " (Landino), che per alcuni si precisano in " bestemmie " (Castelvetro, Casini-Barbi). Per converso, la divina favella (Pd XXIV 99) è la " parola " di Dio, cioè tutta la Rivelazione compendiata nell'Antico e nel Nuovo Testamento, l'antica e la novella / proposizion (vv. 97-98); analogamente, la favella di D., che - essendo egli giunto alle soglie dell'ineffabile - sarà più corta... che d'un fante / che bagni ancor la lingua a la mammella (XXXIII 106), è " tutto ciò che egli riuscirà a dire ", ogni suo " discorso ". A questo significato si avvicina quello di Pg X 43: la Vergine imaginata, " rappresentata ", nei bassorilievi della cornice dei superbi, avea in atto impressa esta favella [queste " parole "] / ‛ Ecce ancilla Dëi ', propriamente / come figura in cera si suggella: cioè, dice il Venturi, " era in tale umile atteggiamento che, come figura in cera per suggello apparisce, così chiaramente apparivano dirsi da lei quelle parole ": l'uso del termine f. sembra quasi voler ribadire il concetto " sembrava proprio che parlasse ", tanto la rappresentazione era efficace. Con un valore per così dire concreto, f. si registra ancora in Pd XVIII 72 Io vidi in quella giovïal facella [il cielo di Giove] / lo sfavillar de l'amor che li era / segnare a li occhi miei nostra favella, disporsi, cioè, in modo da formare le singole lettere del nostro alfabeto, che comporranno le parole Diligite iustitiam (v. 91). È poi variante di novella in If XXV 38 (cfr. Petrocchi, ad l.) e di favilla in Pg XXIII 46 (veduta dal Cesari in un codice e da lui rifiutata).
Infine, in Fiore XX 4 di gioia perde' quasi la favella, il termine significa " possibilità di parlare ", con ovvio valore figurato.