FAVISSA
Parola latina d'incerta etimologia, che indica il luogo di deposito di oggetti votivi in prossimità di un santuario. Nell'antichità infatti v'era l'uso di deporre nell'interno dei santuarî oggetti votivi sia di materia preziosa, sia di materia di poco costo, come bronzo, piombo, stagno, e specialmente terracotta. Quando la quantità di questi oggetti era divenuta eccessiva e ingombrante, i sacerdoti e custodi del santuario avevano cura di raccoglierli insieme, intenzionalmente spezzando quelli ancora in buono stato, e di riporli in luogo appartato nel recinto del santuario (τέμενος), provvedendo in tal modo anche alla loro conservazione; giacché infatti più che lo stato di conservazione importava che gli ex-voto non fossero mai toccati da mani profane. La principale caratteristica delle favisse era perciò quella di essere in luogo appartato e non facilmente reperibile. Subordinatamente a tale condizione essenziale, doveva essere libera la forma architettonica: ma tenuto conto della particolare destinazione, la forma più comune era la più semplice: quella cioè di un pozzo cilindrico scavato nella terra, di profondità varia, proporzionata alla mole del materiale da contenere. Con ciò si spiega perché il nome di favissae appartenesse anche a cisterne e conserve d'acqua. Le favissae capitolinae erano camere sotterranee, grotte e gallerie, in parte naturali, in parte scavate artificialmente, destinate a contenere il sovrappiù del materiale votivo appartenente al tempio sovrastante di Giove.
Simili depositi e ripostigli sacri, che in greco erano detti ϑησαυροί, dovevano essere comuni a tutti i templi e luoghi di culto di qualche importanza. Ne conosciamo specialmente nell'Italia meridionale (Magna Grecia) dove si sono trovati colmi di terrecotte figurate, in rilievo e a pieno tondo. La favissa più artistica ed elaborata è forse quella rinvenuta da P. Orsi nel territorio di Locri Epizefiri (Reggio Calabria), sul colle detto della Mannella: essa, rinvenuta vuota, risale con ogni probabilità al sec. V a. C. Successivamente l'uso della favissae dovette farsi sempre più raro, tanto che in età imperiale s'era perduta perfino la nozione del preciso significato della parola.
Bibl.: H. Thédenat, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire d. antiq. gr. et rom., II, 2, p. 1024, seg., s. v. favissae; G. Wissowa, in Pauly-Wissowa, Real-Rncycl., VI, col. 2054, s. v. favissae Capitolinae; P. Orsi, in Bollettino d'arte, III (1909), p. 406 segg.