FAVOLA (dal lat. fabŭla)
Questo tipo di racconto fantasticodidascalico, rispondente al bisogno umano di racchiudere entro una cornice narrativa, ove esseri razionali e irrazionali si muovono su un medesimo piano, una verità morale o un consiglio di pratica saviezza, è riscontrabile nelle più disparate letterature, a cominciare da quelle dell'Oriente. Tra le genti dell'Oriente ario, nell'India, come è noto, il genere è fiorito maggiormente, raggiungendo un alto grado di elaborazione letteraria, di cui restano documento famose raccolte come il Pañcatantra e lo Hitopadeśa. Per la trattazione dello sviluppo del genere in quella civiltà, dove esso si colora anche delle varie concezioni e confessioni religiose ivi svoltesi, v. india: Letteratura. Si tratterà qui della favola nel mondo occidentale a partire dalla favola greco-romana.
Favola greco-romana. - Le forme schiettamente popolari della favola greco-romana appaiono perdute senza rimedio; con enormi lacune e dubbî, è possibile ricostruire le linee della favola letteraria. Sia pur sempre e intimamente connesso alla favola un certo spirito moralistico: converrà tuttavia distinguere senz'altro la fiaba - la quale ha uno svolgimento ampio e carattere più spiccatamente e disinteressatamente fantastico - dalla favola propriamente detta (λόος oppure μῦϑος), la quale ha carattere dichiaratamente morale. Fu questa che costituì un genere a sé: quando si dice favola greco-romana si pensa comunemente a essa sola.
Se pure la fiaba (v.) esisté come genere autonomo, non fu ritenuta degna di considerazione dai dotti, i quali apprezzarono invece la favola. Che funzioni le attribuissero appare dal contegno di Socrate prima di morire, il quale, osservata la mirabile relazione esistente tra dolore e piacere, soggiunge: "Credo che se ci avesse pensato Esopo, ne avrebbe fatto una favola: cioè che, volendo il dio rappaciare questi due che si fanno guerra, poiché non poteva, legò insieme i loro capi, e però dove va l'uno vien dopo anche l'altro" (Fedone, 3). Taluni ammettono che Esopo (v.) sia stato preceduto da un'epopea animalistica d'origine incerta e di caratteri fantastici. Ciò nulla toglie però all'originalità d'Esopo, il quale fece servire direttamente i caratteri stilizzati degli animali a un chiaro ammaestramento morale. Il genere era secondario, ma perfetto, se pure di scarse possibilità, e i seguaci si limitarono quasi sempre a rifare o a tradurre Esopo. Gli animali, perduto ogni carattere peculiare, divennero quasi semplici pretesti alla conclusione morale. Esclusivamente alla favola esopica si riferisce Aristotele che nella Retorica (II, 20) annovera la favola tra le forme di esempî, cioè tra i mezzi di dimostrazione oratoria. Esopo fu dunque, secondo la tradizione, il creatore di questo genere letterario. Babrio (v.) ne fu il maggior continuatore. Lunga favola animalistica di soli intenti comici è La battaglia delle rane e dei topi che porta il nome di Omero. Elementi favolistici appaiono qua e là per tutte le storie d'Erodoto: ad es., l'anello di Policrate (III, 40-43), il tesoro di Rampsinito (II, 121). In Esiodo (Le opere e i giorni v. 202-212) troviamo la favola dell'usignolo e del nibbio; in Archiloco (fr. 81 Diehl) quella dell'aquila e della volpe; in Stesicoro quella del cavallo e del cervo. Massimo di Tiro, retore greco del sec. II d. C., dissemina di favole le sue conversazioni. Ad Aftonio (retore greco del sec. IV d. C.) è attribuita ma scelta di favole esopiche in prosa.
Anche presso i Romani fiorirono certo le favole popolari, quelle che Orazio chiama aniles fabellae (Sat., II, 6,77) e Quintiliano (I, 9) fabulae nutricularum (lo stesso Apuleio fa raccontare la favola d'Amore e Psiche da una vecchia). Già il vecchio Ennio (in Aulo Gellio, II, 21) aveva raccontato una favola graziosa e istruttiva, ma molto tempo prima, all'inizio della repubblica, l'apologo famoso delle membra e dello stomaco era uscito dalla bocca di Menenio Agrippa. Il quale, dice Livio (II, 32), parlò prisco illo dicendi et horrido modo, iniziando così: tempore quo in homine, non ut nunc, omnia in unum consentientia... Orazio (Ep., I, 1, 73) accenna argutamente alla favola della volpe e del leone malato; in Sat., II, 6, 77 fa raccontare dal vicino Cervio la celeberrima favola del topo cittadino e di quello di campagna. Fedro (v.) è il grande favolista romano. Fiorito all'inizio dell'era volgare, conserva nella tradizione fama ancor maggiore di Esopo, che egli per gran parte tradusse e imitò. Pare sia vissuto nel sec. IV d. C. Aviano (v.), che ci ha lasciato 42 favole in mediocri versi elegiaci latini. Innumerevoli sono i rifacimenti di Fedro per tutto il Medioevo.
Resta infine da trattare la questione delle relazioni tra la favola grecoromana e quella dell'Egitto e dell'India: questione amplissima connessa a infiniti altri problemi storici e folkloristici. Innegabili analogie esistono tra argomenti di favole egiziane e indiane e favole greco-romane. Tra l'altro, la favola apuleiana d'Amore e Psiche (v.) è, secondo il Reitzenstein, un mito orientale ellenizzato. Ciò può essere attribuito all'unità primordiale della razza indoeuropea, o a influenze storiche più recenti. Gli studiosi del secolo passato furono in genere molto propensi alla prima ipotesi, che trova oggi sempre maggior incredulità e scetticismo. Invece non possono esser negate relazioni, influenze e scambî storici quando ritroviamo in un papiro egiziano dell'epoca saitica il racconto erodoteo sopraricordato di Rampsinito. Il Wilamowitz pensa che l'esistenza nei Viaogi di Sindbād di tanti elementi affini a Omero e a Esiodo si spieghi così: quando l'Oriente ellenizzato cessò d'usar il greco, non rinunciò a tutta la materia favolistica di questo, sicché più tardi parecchie favole tornarono in veste orientale al mondo occidentale donde erano partite. Secondo il Brugsch la favola del leone e del topo appare anche presso gli Egiziani. Tra i molti generi di racconti greci erano gli Αἰγύπτιοι (Egiziani). Così forse il latino ha fatto due volte da veicolo alla favola indiana nel mondo: la prima diffondendovi per mezzo di Fedro la favola esopica, la seconda quando Giovanni da Capua (sec. XIII) diede con il Directorium humanae vitae la traduzione indiretta, attraverso l'ebraico, della raccolta araba di Kalīlah e Dimnah (v.), risalente a sua volta a fonti indiane.
Medioevo ed età moderna. - Oltre quella in latino, c'è nel tardo Medioevo una tradizione favolistica nelle lingue volgari, discendente anch'essa, più o meno direttamente, dall'Esopo moralizzato del "ben costumato Fedro" Fonti principali: Aviano e le raccolte note sotto il nome di Romulus; ma poi motivi nuovi, nati dalle nuove condizioni di cultura e, anche, elementi provenienti dall'antichità e dall'Oriente si aggiunsero a quelli della materia più strettamente fedriana, e gli uni e gli altri si trasformarono in vario modo presso i diversi favolisti, sotto l'influenza di una tradizione orale che certamente dovette esistere, col cambiare dei tempi, delle circostanze, dei luoghi. Principali depositarî di questa sapienza della favola i chierici; centro principale di diffusione la Francia del nord, ma insieme l'Inghilterra e la Germania; epoca: i secoli VII-XIV. Una ricca raccolta di favole fatta in Inghilterra in inglese, derivata in parte dal Romulus Nilanti nella quale echeggiavano anche motivi nordici, Maria di Francia tradusse, col titolo di Esope (Ysopets si chiamarono i minori libri di favole francesi, il Novus Aesopus di Alessandro Neckam, e l'Alter Aesopus di Baldo), intorno al 1170 o 1180, in versi francesi semplici e chiari, che furono molto letti e anche tradotti in italiano. Lo Stricker, vissuto a lungo in Austria, fiorì tra il 1220 e il 1250; le favole, in medio-basso-tedesco, di Gerhard von Minden sono dal Leitzmann datate al 1270; il centofavole Edelstein del bernese Boner (che liberamente attinge a fonti latine) precede di poco la metà del Trecento. In Spagna, l'Arcipreste de Hita intercalò apologhi imitati dagli antichi al suo Libro de buen amor. L'elemento morale, già preponderante in Fedio, lontanissimo dalle origini primitive della favola animalesca, determina il tipo e la costruzione della favola.
Accanto al patrimonio di favole ereditato dall'antichità classica e, in qualche misura, dall'Oriente ario, il Medioevo presenta un tipo nuovo, sebbene variamente intessuto di elementi esopiani e forse orientali: l'epopea animalesca, che si aggira, con diversa varietà e ricchezza d'invenzione - attingendo a un ciclo di storie animalesche, vivo in una traduzione orale, ignoto al mondo greco-romano - intorno ai due classici animali la volpe (ted. Reinhart, basso tedesco Reineke; fr. renard: da raginohart "forte nel consiglio") e il lupo (Isengrim "feroce come il ferro": il nome Isengrim - al pari di Reinhart, nome proprio di persona - è testimoniato già nel 1112 nella regione di Laon e attestato fin dal sec. VIII per la Germania settentrionale). La patria e il luogo di diffusione di questa epopea è la Lorena: più tardi il territorio basso-francone e basso-sassone. Le redazioni più antiche sono probabilmente andate perdute. I più antichi monumenti di questa epopea animalesca sono in latino: si può già annoverarvi per qualche rispetto l'Ecbasis captivi (sec. X): abbiamo quindi l'Ysengrimus (1150 circa) di un ecclesiastico fiammingo, Nivardo di Gand. Opera di varî autori - tutti però della Francia settentrionale - e di varî tempi è il Roman de Renard (v.). Dalle sue diverse branche derivano il Reinhart pluchs (1182) di Enrico il Glichezare (= l'ipocrita), il Reinaert, medio-olandese (la parte più antica è del sec. XIII), e le continuazioni e i riadattamenti attraverso i secoli XIII e XIV. Del rimaneggiamento di Hinrek von Alkmar è una traduzione il Reinke de Vos basso-tedesco (Lubecca 1498), importante perché da esso derivò in gran parte la posteriore letteratura animalesca, popolare, letteraria e satirica, di cui tardi esempî sono Gli annali parlanti del Casti (1802), "grande apologo" in 26 canti allusivo alle condizioni sociali e politiche relative all'antico regime e alla Rivoluzione, scherzoso satirico e licenzioso; e, infinitamente più in alto, il Reineke Fuchs del Goethe, il quale attinse la materia (e il titolo, nella forma eclettica alto e basso-tedesca di Reineke Fuchs) dalla traduzione in prosa che il Gottsched aveva fatto (1752) dei Reinke de Vos basso-tedesco.
Il Quattrocento amò poco la favola moralizzante, ma la rinnovò invece il Cinquecento. Noël du Fail, Gilles Corrozet (1548), Guillaume Haudent (1547) e altri Francesi continuarono la linea esopico-fedriana, e ad essi vanno aggiunti alcuni Spagnoli. In Germania, Lutero pregiò altamente Esopo e la favola, destinata a vestire la verità "sotto un piacevole colore di menzogna", mentre Melantone, con altri del suo circolo, la raccomandava alle scuole come quella che unisce l'utile al dilettevole. Favole composero Hans Sachs e soprattutto Erasmus Alberus (una prima edizione 1534, l'edizione completa della redazione definitiva è del 1550), amico di Melantone, con punte polemiche anticattoliche, ma anche con poetica grazia e vivezza, e poi Burkard Waldis (le cui favole, pubblicate in una prima edizione nel 1548, furono cominciate a comporre molti anni prima), scrittore pieno di evidenza, realistico e popolaresco, ma nello stesso tempo nutrito di cultura latina (moltissime delle sue favole rientrano nella tradizione esopiana), pieno di un humour incisivo e crudo, burlesco e satirico. La preoccupazione didattica e la tendenza satirico-polemica sono così le due anime della favola cresciuta sul terreno della Riforma.
Fra gl'Italiani un posto a parte merita il Firenzuola con La prima veste dei discorsi degli animali (1541), un'opera polemica contro le male arti dei cortigiani, in cui spesso la novella s'intreccia alla favola (il Firenzuola attinse alla traduzione spagnola, 1493 del Directorium humanae vitae di Giovanni da Capua, del quale si servì anche A.F. Doni per la sua colorita Morale filosofia, 1552) e l'ammaestramento morale è dissolto nella narrazione, sicché più che dinnanzi a un lavoro didascalico ci troviamo in presenza di un'opera nella quale una chiara immaginazione si compiace d'indugiare nella rappresentazione del mondo animalesco.
Poco s'interessò alla favola l'epoca barocca nei paesi dove il barocco fiorì, in Italia, in Spagna, in Germania. Il Vossio la riteneva adatta solo ai ragazzi, alle animae vulgares e agli ingenia rudia. Ma, di nuovo in Francia, nel 1668, il La Fontaine cominciò a pubblicare le sue Fables. La materia era in gran parte quella della vecchia tradizione favolistica, ma nessuno l'aveva mai ripresa con tanta grazia, con tanta leggerezza di mano, con tanta sorridente saggezza, con una così viva intuizione psicologica, con un senso così personale e lirico. Di fronte a questa finezza ironica, a questa sensibilità discreta, a questa sapienza di honnête homme in cui s'avverte l'eco della corrente libertina, l'ammaestramento morale passa in seconda linea per cui se il Rousseau e il Lamartine l'accuseranno di egoismo, di durezza, di duplicità, il poeta potrà non sentirsi ferito. Il La Fontaine fece scuola: per oltre un secolo favole seguirono a favole, in Francia e in Germania soprattutto, ma anche in Inghilterra, in Italia e in Russia; i trattatisti - dal Le Bossu al Batteux, dal de la Motte al Gottsched, dal Lessing al Sulzer, dal Muratori al Bertola - se ne occuparono con interesse, tutti insistendo sul lato ammaestrativo e morale. Il razionalismo illuministico s'impadroniva di un genere letterario nato in epoche di corpulenta fantasia, ma poi divenuto semplice veicolo di ammaestramento morale, e col Gottsched lo metteva al centro della poetica: e la favola - diceva - è veramente l'origine e l'anima di tutta la poesia". Le idee che l'epoca razionalista ebbe intorno alla favola, e che ritroviamo con varianti non sostanziali presso tutti i critici e i trattatisti precedenti lo Sturm und Drang, ricevettero la formulazione più criticamente profonda nelle Abhandlungen del Lessing (1759), fondate sopra un esame storico-critico delle dottrine dei trattatisti e delle forme della favola. Analizzate le dottrine correnti, il Lessing così definiva la favola: "Se riconduciamo una massima generale a un caso particolare, e diamo realtà a questo caso particolare traendone una storia nella quale intuitivamente riconosciamo la massima generale, questa invenzione è una favola". Esaminati l'uso degli animali e, sempre in relazione alle dottrine, la divisione delle favole, il Lessing, venendo a parlare delle esopiane, ne elogia la precisione e brevità, a cui Fedro cercò di accostarsi, dalle quali invece si discostò il La Fontaine "cui riuscì fare della favola un amabile gioco poetico". L'ideale lessinghiano è espresso in queste parole: "Se io devo pervenire a conoscere una verità morale attraverso la favola, devo potere abbracciare con un sol colpo d'occhio la favola, e per questo essa deve essere quanto è possibile breve. Ora, tutti gli ornamenti si oppongono a questa brevità... e per conseguenza essi, in quanto siano vuoti allungamenti, ostacolano l'intenzione della favola". A questa semplicità schiva di ornamenti e a questa intenzione morale il Lessing si mantenne fedele nelle sue favole (i cui primi tre libri apparvero nel 1759), "modelli quasi tutte di prosa tedesca, semplici ma senza avarizia, brevi ma senza aridità, precisissime" (E. Schmidt, Lessing, 3ª ed., I, p. 406): brevità e concisione che dispiacquero al romantico J. Grimm, il quale vi avvertiva la mancanza dell'ingenuo.
La grazia leggiera del Settecento, e un po' dello spirito del La Fontaine e degli anacreontici, si ritrovano nelle favole (1746-48), che ebbero tanto successo, di C. F. Gellert (e già prima - cominciò a pubblicarle nel 1738 - in quelle di F. Nagedorn, anch'egli sotto l'influenza - sia pure non esclusiva - del favolista francese), più novellette e storie che favole nel senso stretto e tradizionale (di rado vi intervengono gli animali), amabili nella "morale"; e, verso il finire del secolo, nei modi arcadici di A. Bertola (Favole, 1785), autore anche di un Saggio sopra la favola (1788). Il Settecento (e s'intenda con una certa latitudine cronologica) è stato veramente l'età d'oro della favolistica in Europa. Oltre alla Germania e alla Francia, che ne restano il centro, l'Inghilterra ebbe favolisti, di cui il maggiore è J. Gay, le cui Fables (1727,1738), scritte con cura infinita, furono assai diffuse anche in Italia; in Spagna, T. de Yriarte pubblicò nel 1782 le sue Fábulas Literarias; nella Svezia il noto letterato G. F. Gyllenborg scrisse (1795) quattro libri di favole in vario metro, fra esopiane e lafontainiane; in Russia i favolisti furono una folla, sulla quale emergono A. P. Sumarokov (Paragoni, 1763-69), J. J. Chemnitzer (1744-84), con influenze del La Fontaine e del Gellert, A. E. Izmajlov (1779-1831) e J. J. Dmitriev (1760-1837), "il La Fontaine russo" come fu detto. Ma le più belle fra le russe restano le favole, circa 200, di I. A. Krylov, apparse fra il 1805 e il 1835, le quali si ricollegano al generale fondo europeo, pur mostrando naturalmente segni dell'ambiente nel quale furono create e della particolare disposizione del loro autore, partigiano del sano intelletto. In Italia la favola in versi, didascalica e satirica, eco un po' in ritardo dell'illuminismo, trovò largo favore fra il 1780 e il 1810 circa. L. Pignotti scrisse favole e novelle (1782) con intento didascalico e con punte satiriche contro i preti, in uno spigliato linguaggio toscano; T. Crudeli fu libero traduttore del La Fontaine; favole esopiane pubblicò il gesuita G. B. Roberti (1782); L. Fiacchi, detto il Clasio, compose a fine didattico (era un prete) fiacche ingenue favole (edizione definitiva, 1807), assai divulgate, un tempo, nelle scuole elementari. Possono inoltre essere ricordati i nomi di G. C. Passeroni, G. Mattaini, G. G. de' Rossi, L. Cerretti, C. Perego, M. Giro, B. Chiappa, Fortunata Fantastici Sulgher, A. Vandone, P. dal Verme (Favolette, 1812).
Il tramonto del gusto illuministico portò con sé anche la fine del gusto per la favola, morta - si può dire - nel mondo moderno, confinata nei libri di lettura per le scuole elementari, nel proverbio, o, tutt'al più, volta a un fine satirico (per esempio, fra i contemporanei, presso Trilussa). Al Hamann e al Herder non piacquero le favole del Lessing, a cui il primo preferiva il La Fontaine perché più narratore, e se essi s'interessarono alla favola fu perché, riconducendola alle origini, vi ravvisarono un genere dell'umanità primitiva, affine all'epica; mentre coloro che, come il Novalis o il Nietzsche, tennero d'occhio la tradizione esopiana, ne rilevarono (come già il Vico) l'intellettualismo e l'artificiosità.
Lessing fu l'ultimo grande favolista della tradizione esopiana, Goethe l'ultimo dei poeti che abbia ripreso l'epopea animalesca poi, il gusto e l'estetica romantici gettarono il discredito sulle forme della letteratura didascalica, mentre il Medioevo, nonostante la buona volontà dei tardi romantici, era morto irrimediabilmente. Il Heine, nell'Atta Troll (1847), perseguitando il filisteo tedesco e la poesia politico-tendenziosa d'intorno al 1840, fece rivivere l'orso della favola e della foresta patria con animo sensibile, con plastica immaginazione, con tenera buffoneria: pure - nonostante i pregi poetici, la vivezza, l'ironia e l'humour - l'Atta Troll resta "un paragone scherzoso" (Croce).
Fuori da ogni tradizione, con senso largamente e profondamente epico, R. Kipling ha creato una grandiosa moderna epopea animalesca nel The Jungle Book (1894) e nel Second Jungle Book (1895). Storie di animali non mancano nelle letterature moderne, soprattutto nelle germaniche, ma raramente si sollevano alla stilizzazione artistica. In Italia, di recente, Trilussa ha ripreso con fine satirico il vecchio schema della favola, nutrendolo, nella saporosa parlata romanesca, di scettica saggezza.
Bibl.: Opere generali: E. du Méril, Histoire de la fable Ésopique (Poésies inédites du moyen âge), Parigi 1840; O. Keller, Untersuchungen über die Geschichte der griechischen Fabel, in Jahrb. f. Philol., Suppl. IV, Lipsia 1862, pp. 307-418; J. Jacobs, History of the Aesopic fable, Londra 1889; W. G. Rutherford, The history of Greek fable, Londra 1883. Sulla favola romana: L. Hervieux, Les fabulistes latins depuis le siècle d'Auguste jusqu'à la fin du moyen âge, voll. 5, Parigi 1884-1889 (amplissima opera che studia criticamente tutte le raccolte, e ne dà il testo critico); W. Wienert, Die Typen der griechisch-römischen Fabel, mit einer Einleitung über das Wesen der Fabel, Helsinki 1925. Sulla favola greca: W. Schmid, Geschichte d. griechisch. Literatur, I, Monaco 1929, p. 663 segg. Per le relazioni della favola greca con l'egiziana: G. Maspero, Contes populaires de l'Égypte ancienne, Parigi 1889; A. Wiedemann, Unterhaltungsliteratur der alten Ägypter, 1902. Per le relazioni della favola greca con l'indiana: A. Loiseleur Deslongchamps, Essais sur les fables indiennes et sur leur introduction en Europe, Parigi 1838; M. Marchianò, L'origine della favola greca e i suoi rapporti con le favole orientali, Trani 1900; A. Hausrath, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VI, coll. 1794-1736; F. Ribezzo, Nuovi studi sull'origine e la propagazione delle favole indo-elleniche comunemente dette esopiche, Napoli 1901; E. Rohde, Über griech. Novellendichtung und ihren Zusammenhang mit dem Orient, in Verhandl. d. 30. Vers. d. Philol., pp. 55-70.
Per l'età medievale e moderna: anzitutto J. G. Sulzer, Allgemeine Theorie der schönen Künste, 2ª ed., II, Lipsia 1792, pp. 164-200, con ricchissime indicazioni bibliogr.; poi: P. Vincent, Nos Fabulistes par ordre chronologique, Parigi 1883; H. Badstüber, Die deutsche Fabel von ihren ersten Anfängen bis auf die Gegenwart, Vienna 1924; composizione mal fatta; accurato, M. Staege, Die Geschichte der deutschen Fabeltheorie, Berna 1929.
Recueil général des Isopets, ed. Bastin, I, Parigi 1929. Un'importante introduzione ha l'edizione Warnke delle favole di Maria di Francia, Halle 1898. La raccolta Riccardiana della versione italiana delle favole di Maria di Francia è edita in L. Rigoli, Volgarizzamento delle favole di Esopo, Firenze 1918, quella Palatina in Favole di Esopo in volgare, Lucca 1864. Maria di Francia è in gran parte anche la fonte delle favole dell'ebreo Berachja. Di una versione ebraica di favole composta fra il sec. XIV e il XV, e intitolata anch'essa Jesopeto, dà notizia M. Steinschneider, Ysopet hebräisch, nel Jahrbuch f. romanische und englische Sprache und Literatur, n. s. I (1874), pp. 351-67. Le favole di Gerhard von Minden sono state per la prima volta edite da A. Leitzmann, Halle 1898. L'Esopo di Magdeburgo, d'intorno al 1400, è stato pubblicato da W. Seelmann, Brema 1878. Nel Quattrocento è anche notevole l'Esopo (1474 circa) dell'umanista Steinhöwel, raccolta diffusa anche fuori di Germania, e stilisticamente notevole, di favole e facezie, nella quale al testo latino si accompagna la traduzione tedesca: ed. H. Österley, Tubinga 1873. Al Romulus attinse indirettamente - attraverso una raccolta del 1520 e Guglielmo Herrmann da Gouda - anche E. Alberus: cfr. l'ed. delle favole del 1550, con le varianti della redazione primitiva, fatta da W. Braune, Halle 1892. B. Waldis, Esopus, ed. H. Kurz, Lipsia 1862 e K. Tittmann, Lipsia 1882.
Punto di partenza per lo studio dell'epopea animalesca è il Reinhart Fuchs di J. Grimm, Berlino 1834. B. per la bibliogr., renard, Roman de. Opere essenziali: l'ediz. a cura di D.-M. Méon, Parigi 1826 (voll. 4), con un supplemento di M. Chabaille, 1835; di E. Martin, Strasburgo 1882-87 (voll. 3); R. le Contrefait, a cura di G. Raynaud e H. Lemaître, Parigi 1914 (voll. 2); Le couronnement de R., a cura di A. Foulet, Princeton-Parigi 1929. Cfr. L. Sudre, Les sources du R. de R., Parigi 1893; G. Paris, in Journal des Savants, 1894-95; L. Foulet, Le R. de R., Parigi 1914; G. Tilander, Remarques sur le R. de R., Göteborg 1923; Ch.-V. Langlois, Anonime de Troye, auteur du Contrefait de R., in Histoire Littér. de la France, XXXVI (1924), pp. 115-159.