Favola
Titolo dato da M. all’unica sua opera narrativa in prosa, più nota come Novella di Belfagor, dal nome del diavolo che ne è protagonista. Lo scrittore la vergò in quello che è oggi il ms. Banco Rari 240 della BNCF. Il racconto occupa le cc. 12v-56r; a esso seguono la seconda redazione del volgarizzamento dell’Andria e il poemetto in ottava rima di argomento amoroso intitolato Serenata. Sul testo della novella si riconosce saltuariamente anche una mano secentesca, attribuita all’erudito fiorentino Simone Berti (1589-1659), a cui il manoscritto appartenne. Da segnalare anche la cancellazione con più tratti di penna trasversali, non dovuta all’autore, di circa cinque righe sulla prima carta, spiegabile forse con l’intenzione di eliminare in epoca controriformista il riferimento alla visione spirituale che sarebbe stata all’origine della storia. Si colgono comunque sul manoscritto anche interventi d’autore a correzione di piccoli errori di stesura e in un caso a cancellazione di due righe di testo.
La vicenda raccontata è la seguente. Poiché i dannati attribuiscono sempre alle mogli la causa della loro perdizione, Plutone indice un concilio infernale, nel quale, dopo una sua solenne orazione, si decide di inviare sulla terra un diavolo per fare esperienza del matrimonio. Belfagor arcidiavolo, munito di ben centomila ducati, avrà l’obbligo di restare sulla Terra dieci anni, adeguandosi in tutto e per tutto alla condizione umana. Belfagor si stabilisce a Firenze, prendendo il nome di Roderigo. Qui sposa la bellissima Onesta di Amerigo Donati, di famiglia nobile, ma economicamente decaduta. Innamoratosi della donna, finisce con il rovinarsi per compiacerne i capricci. Costretto a lasciare Firenze, inseguito dai creditori, Roderigo s’imbatte in un contadino di nome Gianmatteo, dipendente di Giovanni del Bene, e lo implora di nasconderlo, con la promessa di un compenso adeguato. Gianmatteo accetta, riuscendo anche a depistare gli inseguitori. Roderigo rivela allora a Gianmatteo la sua vera identità; per ricambiarne il favore, promette, si impossesserà di una donna e non ne uscirà fino a quando Gianmatteo, pattuito un adeguato compenso con i familiari dell’indemoniata, non reciterà uno scongiuro. Il gioco funziona, prima con una donna degli Amidei, poi con la figlia del re di Napoli. Belfagor avverte Gianmatteo che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe ubbidito ai suoi esorcismi. Quando Belfagor entra nella figlia del re di Francia, questi richiede alla Signoria fiorentina i servigi di Gianmatteo. Il contadino vorrebbe sottrarsi, ma il re minaccia di impiccarlo se non riuscirà a liberare la figlia. Nella situazione disperata in cui è stato cacciato, Gianmatteo chiede al re di realizzare un enorme apparato sulla piazza di Notre-Dame per la domenica successiva, con grande concorso di popolo e un gruppo di almeno venti suonatori che, a un cenno convenuto, dovranno fare un grande frastuono con i loro strumenti. Così avviene, con sbigottimento del diavolo. Gianmatteo sussurra all’orecchio dell’indemoniata che il fragore annuncia l’arrivo di monna Onesta. Il diavolo spaventatissimo, temendo di dover far ritorno alla vita coniugale, si precipita all’inferno, consentendo a Gianmatteo di tornarsene ricco a Firenze.
Il tema narrativo del genio (poi del diavolo) che sperimenta la cattiva natura delle donne è molto probabilmente di origine orientale. Nella tradizione occidentale la più antica attestazione conosciuta è un exemplum di Jacques de Vitry (1170 circa - 1240). Un uomo ha una moglie terribile, per giunta adultera. Per liberarsene almeno temporaneamente decide di andare in pellegrinaggio a S. Giacomo di Compostela. Affida perciò la donna al diavolo, l’unico che possa in qualche modo fronteggiarla. Quando il marito fa ritorno, il diavolo si affretta a restituirgliela: avrebbe più volentieri custodito una torma di cavalle selvatiche. Nell’exemplum successivo della stessa raccolta si narra di un patto sciagurato tra il diavolo e un ladro. Il ladro ruba e ammazza: se viene imprigionato, interviene il diavolo a liberarlo. Ma un giorno il diavolo decide di abbandonare l’uomo al suo destino, che conclude così i suoi giorni sulla forca. Il motivo misogino del diavolo terrorizzato da una donna e quello dell’uomo che stabilisce un patto col diavolo (patto a un certo punto da quest’ultimo tradito), trattati contiguamente da de Vitry, vengono fusi in un unico racconto da Pietro di Limoges (13° sec.). Un diavolo ha preso moglie, ma disgustato dalla malizia di lei se ne allontana. Incontra un tale che ha fatto esperienza addirittura di tre mogli, una peggiore dell’altra. I due decidono di far società insieme. Il diavolo si impossesserà delle persone e il suo compagno, fingendosi medico, andrà a liberarle, riscuotendo il compenso della guarigione. Ma quando a essere posseduto è un principe, il diavolo rifiuta di uscire, mettendo a repentaglio la vita del complice.
Allora l’uomo ha una trovata: fa dar luogo a suoni e canti. Il diavolo chiede cosa sia tutto ciò e l’uomo gli dice che è la moglie che viene a rivederlo. Il diavolo, temendo di dover reincontrare la donna, abbandona precipitosamente il corpo del principe.
La storia venne raccontata nuovamente nella seconda metà del 14° sec. da Jehan Le Fèvre nelle Lamentations de Matheolus, poema in antico francese che volgarizza le Lamentationes Matheoli, poema latino di un chierico originario di Boulogne vissuto una cinquantina d’anni prima, da non confondere, come alcuni fanno, con Matteolo perugino autore di un trattato De memoria. Il volgarizzamento di Le Fèvre talora segue con fedeltà il testo originale, talora lo amplifica. L’episodio che a noi interessa non è tuttavia presente nell’unico manoscritto delle Lamentationes conservato e potrebbe essere stato introdotto nel volgarizzamento dallo stesso Le Fèvre. La storia ripropone, con qualche cambiamento non sostanziale (a fare il patto con il diavolo è davvero un medico) e con particolari ampliati, la versione di Pietro di Limoges. Al testo in antico francese si apparenta la F. di M.; ma l’ambientazione fiorentina, la storicità o la verosimiglianza dei personaggi, seppure intrecciate con elementi favolistici, ne fanno un testo di natura ben altrimenti realistica.
A trasferire in ambito fiorentino il racconto del diavolo che prende moglie non sembra tuttavia essere stato M.: entra in gioco un’altra versione della storia di Belfagor. Nel 1545, infatti, il veneziano Giovanni Brevio (→) pubblicò, all’interno di un’edizione di sue opere (Rime e prose volgari di mons. Giovanni Brevio), la stessa novella in una forma che coincide alla lettera per circa il 40% con quella di Machiavelli.
A Firenze si era convinti del plagio da parte di Brevio, tanto che per ristabilire la verità ci si preoccupò di mettere a stampa presso i Giunta di lì a qualche anno il testo di M. insieme ad altri suoi scritti minori, quasi tutti ancora inediti (L’asino d’oro di Niccolò Machiavelli, con alcuni altri capitoli et novelle del medesimo, 1549). Fonte della giuntina non fu comunque l’autografo, oggi Banco Rari 240 della BNCF, ma una sua copia, forse allestita appositamente per la tipografia. Senonché dal raffronto della novella di Brevio con quella di M. risulta l’indipendenza dei due testi. Vale a dire che entrambi gli autori avevano in parte ripreso alla lettera, in parte riscritto il testo di una novella preesistente, oggi perduta, che costituirebbe dunque il precedente comune alle due versioni. Che nei decenni a cavallo tra Quattro e Cinquecento vi fosse a Firenze interesse per le storie di impossessamento è del resto attestato anche da un’operetta anonima e anepigrafa di carattere narrativo, tuttora inedita, contenuta in un bel manoscritto membranaceo di piccolo formato datato 1489, l’Antinori 130 della BMLF.
A volere, dunque, esprimere un giudizio filologicamente fondato sulla F. è necessario partire proprio dalla supposta fonte perduta. Il suo estensore avrebbe adattato il racconto di Le Fèvre (Les lamentations furono messe a stampa ben quattro volte a Lione tra il 1497 e il 1502) all’ambiente fiorentino, attribuendo a una vicenda favolistica un’identità cittadina fatta di luoghi precisi, personaggi storici, usi e abitudini congruenti con quelli propri fiorentini. Giovanni del Bene e Amerigo Donati sono nomi di persone storicamente identificabili. Di un Amerigo Donati si parla nelle Croniche di Giovanni e Matteo Villani, nel Trecentonovelle di Franco Sacchetti oltre che nelle stesse Istorie fiorentine di Machiavelli. Anche un Giovanni del Bene è nelle Istorie machiavelliane, dove si ricorda pure la famiglia degli Amidei. L’anonimo sembra insomma aver frequentato davvero le storie cittadine, come suggerisce M. nella sua versione con il riferimento alle «antiche memorie delle fiorentine cose». Ma dal punto di vista narrativo la trovata più originale resterebbe quella di aver saldato il tema antifemminile e antiuxorio del diavolo che prende moglie con quello della satira del villano. L’ipotizzata novella spicciolata contaminerebbe, insomma, motivi esemplari di origine medievale (le nozze del diavolo con la cattiva moglie), un luogo comune della sacra rappresentazione (il diavolo beffato) e più attuali temi novellistici (il contadino astuto).
Per quanto riguarda M., non meraviglia certo che egli abbia potuto avere interesse per una storia che satireggiava i costumi della sua città (la mania del lusso e delle spese eccessive, l’aggressività degli usurai, la credulità religiosa) e l’abbia riscritta impegnandovi la sua fantasia. L’abitudine di M. di farsi copia di testi che attiravano la sua attenzione è anche documentata dalla cosiddetta Commedia in versi di Lorenzo di Filippo Strozzi, trascritta di sua mano in uno dei fascicoli che compongono l’attuale Banco Rari 29 della BNCF, la quale, proprio per questa ragione, tra il 18° e il 19° sec. fu annoverata da qualcuno fra le sue commedie. La riscrittura della novella, con numerosi passaggi della fonte conservati intatti, non può comunque in alcun modo essere considerata un plagio (se si vuole liberare l’autore da un’accusa di questo tipo), trattandosi tutto sommato di un divertimento destinato a rimanere fra le sue carte.
Nel racconto di M. sono di fatto quattro i nuclei narrativi, non tutti ben saldati: 1) il prologo infernale con il concilio dei diavoli e l’orazione di Plutone; 2) il diavolo che prende moglie sperimentando le disgrazie del matrimonio; 3) la fuga del diavolo e il patto tra lui e il contadino; 4) la serie degli esorcismi e lo scacco finale. Nel passaggio dall’una all’altra cambiano le funzioni protagonista-antagonista. Nel primo tempo protagonista è Plutone; nel secondo lo è Belfagor/Roderigo, con antagonista (solo evocata) la moglie; nel terzo la coppia protagonista-antagonista è Roderigo-Gianmatteo; nel quarto ancora gli stessi, ma a ruoli invertiti. Il contributo più significativo di M. consiste nella drammatizzazione del concilio infernale e nella descrizione dell’inferno come una repubblica ben ordinata retta da un principe saggio. Ne consegue un’idea rovesciata della Terra e dell’inferno: l’inferno vero è sulla Terra e anche il diavolo appena può preferisce fuggirne. Un storia misogina diventava insomma, nella redazione di M., l’occasione per una rappresentazione capovolta della condizione degli uomini sulla Terra e dei dannati nell’inferno. È qui il centro ideologico del racconto. Che l’inferno non fosse così brutto come lo si dipingeva M. lo aveva già sostenuto in una battuta della Mandragola (IV 1); e anche tra i ‘detti’ che chiudono la biografia di Castruccio Castracani ve n’è uno (175) che sfiora lo stesso argomento. Per non dire del sogno attribuito a M. morente, di cui raccontano Giovan Battista Busini e Paolo Giovio, durante il quale egli avrebbe espresso il desiderio di andare in inferno a ragionare di politica con gli spiriti dei grandi piuttosto che in paradiso a far compagnia a una turba di poveri cenciosi.
Ma quando la F. sarebbe stata composta da Machiavelli? La sua stesura viene collocata tradizionalmente, su indicazione di Adolf Gerber, nel 1519-1520, dunque prima della Vita di Castruccio e delle Istorie fiorentine, compilate tra il 1520 e il 1525. Ma ampliando il materiale autografo di riscontro e il numero dei fenomeni grafici e fonomorfologici sulla cui analisi si era basata la proposta di Gerber, sembra più calzante una datazione del manoscritto alcuni anni più tardi, intorno al 1526. Oltre a questo, non si può non osservare che sul piano più generale della lingua e dello stile, per coincidenza di stilemi, sintagmi, moduli sintattici, la F. mostra affinità con le Istorie fiorentine più che con qualsiasi altro testo di Machiavelli. Inoltre la F. si accomuna alle Istorie, e anche al Castruccio, per il fatto che queste opere originano tutte da un’attività di riscrittura. È attraverso il filtro di testi preesistenti che M. funzionalizza in questa fase i suoi intenti ideologici e letterari. Il rifacimento, insomma, assimilerebbe tecnicamente la F. alle esperienze di M. storiografo. La novella diventerebbe una variazione nel registro del comico dell’arte machiavelliana di scrivere la storia.
Sul fatto che all’interno della F. l’orazione di Plutone costituisca il momento più autenticamente machiavelliano del testo, i critici sono comunque quasi tutti d’accordo. Il re degli Inferi comincia con una premessa sulla natura assoluta del suo potere; quindi, limitando volontariamente l’esercizio della sua autorità, esprime il desiderio di ascoltare l’opinione dei diavoli suoi dignitari. Dopo di che viene posta la questione per cui il consesso è stato convocato: accertare la verità di quello che i dannati lamentano, e cioè che siano state le mogli la causa della loro dannazione. Gli ascoltanti, alla fine delle parole di Plutone, concordano nel riconoscere l’importanza del caso. Guardando indietro nella letteratura toscana, come ha fatto Mario Martelli (introduzione a N. Machiavelli, Novella di Belfagor. L’Asino, 1990, pp. 30 e segg.), si trova che Minos parla ai diavoli nella Rappresentazione del dì del giudizio di Feo Belcari e Antonio Araldo. Lo stesso fa Lucifero nel Sermo XLII del quaresimale De christiana religione di san Bernardino, peraltro apostrofando i diavoli con l’appellativo di «Dilectissimi superbiae filii, inferni principes» («dilettissimi miei», scrive M.). Le radici remote del tema sono nel teatro religioso medievale. Ma il precedente più calzante, anche in ragione dei suoi risvolti parodistici, è probabilmente il discorso di Satana nel Filocolo di Giovanni Boccaccio (I ix), che peraltro si conclude proprio con un trasferimento del principe delle tenebre sulla Terra sotto l’aspetto di ‘nobilissimo cavaliere’.
L’accertamento a ritroso non può tuttavia far trascurare che nelle Istorie fiorentine le orazioni fittizie sono una componente essenziale della maniera di M. storiografo. Questa tecnica, che è ripresa dalla storiografia classica e umanistica, grazie all’ambivalenza con cui M. costruisce i discorsi, rendendo difficile distinguere l’opinione dell’oratore dalla sua, vivacizza il racconto dando l’impressione dell’accaduto. Le orazioni sono introdotte per la prima volta nel secondo libro delle Istorie, mentre sono assenti dal Castruccio. E la formula che introduce il discorso nella F.: «parlò […] in questa sentenza» è quella che introduce ben dieci volte le orazioni nelle Istorie fiorentine. Non sembra dubbio, insomma, che l’orazione di Plutone e quelle numerose delle Istorie, malgrado la differenza di genere dei due testi, siano da apparentare a una stessa tipologia discorsiva. Il che fa ritenere almeno improbabile una sequenza cronologica che metta la F. davanti alle Istorie fiorentine. In conclusione, piuttosto che riconoscere che un testo di misura così limitata abbia fatto da esperimento per un’opera dell’impegno delle Istorie, come discenderebbe dalla datazione di Gerber, è più verosimile che le modalità compositive e di stile di quest’opera si siano prolungate in un esercizio tutto sommato secondario, anche se non proprio disimpegnato, come la Favola.
Tornando alla storia del diavolo male ammogliato, essa, fra riscritture e falsificazioni, non esaurisce con M. e Brevio la sua fortuna. La racconterà ancora Giovanni Francesco Straparola nel 1550 nelle Piacevoli notti (II 4), la riprenderà nel 1561 Francesco Sansovino nelle fortunatissime Cento novelle (VII 4), attribuendola a M., ma stampando la versione di Straparola; travalicherà poi i confini geografici dell’Italia e cronologici del 16° sec. per ritornare in Ben Johnson in Inghilterra e Jean de La Fontaine in Francia. Ancora nel Settecento conosce un sussulto di vitalità in Italia in una redazione in versi di Giovan Battista Fagiuoli. Poi si disperderà nei rivoli della tradizione folclorica.
Bibliografia: Per il testo della F., a cura di A. Corsaro e con commento di F. Grazzini, si rimanda a Edizione nazionale delle opere, III, 2. Scritti in poesia e in prosa, a cura di A. Corsaro, P. Cosentino, E. Cutinelli-Rendina et al., Roma 2012, pp. 291-317. In precedenza, oltre alla presenza del testo della novella in tutte le edizioni complessive di opere machiavelliane (Operette satiriche, Belfagor-L’Asino d’Oro-I Capitoli, a cura di L.F. Benedetto, Torino 1920, pp. 33-56; Tutte le opere storiche e letterarie, a cura di G. Mazzoni, M. Casella, Firenze 1929, pp. 765-70; Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Firenze 1969, pp. 919-23; Opere, 4° vol., Scritti letterari, a cura di L. Blasucci, Torino 1989, pp. 231-53; Opere, 3° vol., a cura di C. Vivanti, Torino 2005, pp. 79-89), sono da ricordare, soprattutto per i saggi introduttivi, le seguenti edizioni singole: Belfagor arcidiavolo, con un saggio di G. Barberi Squarotti, Genova 1982; Novella di Belfagor. L’Asino, a cura di M. Tarantino, introduzione di M. Martelli, Roma 1990.
Uniche due monografie dedicate specificamente alla F.: F. Grazzini, Machiavelli narratore, Roma-Bari 1990; P. Stoppelli, Machiavelli e la novella di Belfagor, Roma 2007, dove si sostiene la riscrittura da parte di M. di un testo oggi perduto. Studi pubblicati su rivista o in volumi miscellanei: L. Blasucci, Machiavelli novelliere e verseggiatore, «Cultura e scuola», 1970, 33-34, pp. 174-91; M. Guglielminetti, La cornice e il furto. Studi sulla novella del ’500, Bologna 1984, pp. 52-69; F. Manai, Note sulla Favola di Machiavelli: Gianmatteo, il villano più furbo del diavolo, «Rivista di studi italiani», 1986-1987, 4-5, pp. 11-28; M. Picone, La Favola di Machiavelli: una lettura intertestuale, in Dal primato allo scacco. I modelli narrativi italiani fra Trecento e Seicento, a cura di G.M. Anselmi, Roma 1988, pp. 171-90; A. D’Andrea, Struttura e significato della Favola di Machiavelli, in Id., Strutture inquiete, Firenze 1993, pp. 129-52; M. Picone, La Favola di Belfagor fra exemplum e novella, in Niccolò Machiavelli politico storico letterato, Atti del Convegno, Losanna 1995, a cura di J.-J. Marchand, Roma 1996, pp. 137-48; S. Matteo, To hell with men and meaning! Vesting authority in Machiavelli’s Belfagor, «Italica», 2002, 79, pp. 1-21; M. Arnaudo, Belfagor come casistica: una lettura della favola machiavelliana, «Italianistica», 2005, 34, 2, pp. 13-26; S. Ghelli, La Favola di Machiavelli: Belfagor arcidiavolo, «Forum Italicum», 2007, 41, pp. 285-96.
Per la datazione della novella: A. Gerber, Niccolò Machiavelli. Die Handschriften, Ausgaben und Übersetzungen seiner Werke in 16. und 17. Jahrhundert, 1° vol., Gotha 1912, pp. 44-47, poi in riproduzione fototipica a cura di L. Firpo, Torino 1961; sulla scia di Gerber resta P. Ghiglieri, La grafia del Machiavelli studiata negli autografi, Firenze 1969.
I precedenti della novella di Belfagor si possono leggere nelle seguenti edizioni: Jacques de Vitry, in Die exempla des Jacob von Vitry: ein Beitrag zur Geschichte der Erzählungsliteratur des Mittelalters, hrsg. G. Frenken, München 1914, pp. 128-29; Pietro di Limoges, in M. Picone, La Favola di Belfagor fra exemplum e novella, in Niccolò Machiavelli politico storico letterato, Atti del Convegno, Losanna 1995, a cura di J.-J. Marchand, Roma 1996, p. 142; Jehan Le Fèvre, in Les Lamentations de Matheolus et le livre de Leesce de Jean Le Fèvre de Resson (Poèmes français du XIVe siècle), éd. A.-G. Van Hamel, 1° vol., Paris 1892, pp. 153-56. Il Belfagor di Giovanni Brevio è edito in Le novelle di Giovanni Brevio, presentazione di D. Perocco, a cura di S. Trovò, Padova 2003, pp. 117-26.