Febbre
Con il termine febbre (dal latino febris) si indica un fenomeno morboso nel quale la temperatura interna dell'organismo subisce un innalzamento stabile a causa di vari processi patologici. La febbre è distinta dall'ipertermia (dal greco ὐπερ, "sopra", e θερμός, "caldo"), cioè dall'aumento transitorio della temperatura corporea dovuto a ragioni fisiologiche, come per es. l'esecuzione di uno sforzo fisico o l'immersione in un bagno caldo.
I fenomeni morbosi che oggi si indicano con il termine febbre sono stati osservati fin dagli inizi della storia della medicina. Essi si trovano già descritti nei libri che compongono il Corpus hippocraticum, nei casi clinici illustrati dai medici della Scuola di Coo, per quanto la febbre non vi sia chiaramente definita. Il carattere fondamentale della febbre, che permetteva al medico antico d'identificarla, era certamente la temperatura, che corrispondeva sia alla sensazione percepita dal medico toccando la cute del paziente, sia a quella di accaloramento interno provata dal febbricitante. Il secondo aspetto fondamentale della febbre - l'aumento della frequenza del polso - fu riconosciuto verso la fine del 4° secolo a.C. da Erofilo di Calcedonia, che sembra sia stato il primo a contare le pulsazioni del polso per mezzo di un orologio ad acqua. I medici dell'antichità distinguevano sostanzialmente tre tipi di febbre: il καῦσος, una febbre continua con secchezza della lingua e delle fauci, la ϕρενῖτις, anch'essa una febbre persistente accompagnata da stupore, delirio e fissità dello sguardo, e il λήθαργος, uno stato intermedio fra i primi due, nel quale la febbre si presentava spesso insieme a espettorazione. Interpretate attraverso le conoscenze odierne, le febbri più diffuse del mondo grecoromano erano con tutta probabilità causate da infezioni tifiche o paratifiche, da sepsi di vario genere e soprattutto dalla malaria. Valutando i casi esposti nel libro delle Epidemie, è stato calcolato che la percentuale delle febbri si aggirasse intorno al 30% dei soggetti malati osservati dai medici. La letalità calcolata per le febbri riportate nel Corpus hippocraticum sarebbe di poco superiore al 50%.
Fra i romani spesso la febbre dava il nome all'intero processo morboso: così, per es., a proposito delle febbri malariche, si parlava di "febris frigida cum horrore trementer" o di "febres quae cum horrore veniunt". La febbre non era considerata un sintomo o uno dei tanti fenomeni morbosi, come il vomito e la tosse, ma rappresentava una vera e propria malattia, tanto da essere personificata nella dea Febris, alla quale a Roma furono dedicati vari templi. Nei primi secoli dell'era cristiana, la febbre fu l'elemento clinico fondamentale caratterizzante il quadro morboso delle numerose pandemie che funestarono i territori dell'Impero Romano; particolarmente devastanti furono la peste antonina (probabilmente un'epidemia di vaiolo che ebbe inizio nel 167 d.C.) e la pandemia del 189 d.C. Il più celebre medico romano, Galeno, riconobbe e descrisse alcuni fenomeni tipici della febbre: oltre all'aumento di temperatura rilevò la presenza di modificazioni del polso, del volto, del decubito e della respirazione. Inoltre osservò che, mentre alcune febbri si presentavano isolate (febbri semplici), altre si accompagnavano costantemente ad altri fenomeni patologici, come per es., cefalea, secchezza delle fauci, tensione al torace, infiammazione e dolori precordiali.
Per molti secoli non si ebbe un sostanziale avanzamento delle conoscenze riguardanti la febbre: i medici si limitarono a descrivere la fenomenologia clinica dei pazienti colpiti da processi febbrili, venendone via via a distinguere vari tipi (febbri quotidiane, intermittenti, continue, periodiche, effimere, palustri, conseguenti a fatiche fisiche, a collera oppure a emozioni violente ecc.). Fattore determinante per il progresso delle conoscenze fu la costruzione di uno strumento capace di misurare la temperatura interna del corpo: il primo termometro fu messo a punto da S. Santorio. Chiamato alla cattedra di medicina teorica nello Studio di Padova (1611-1624), questi fu il primo a controllare la temperatura all'interno delle cavità corporee e a dimostrare che la temperatura sanguigna è costante in condizioni normali e aumenta durante la febbre.
Nel corso del 19° secolo si riuscì a costruire termometri ad alcol o a mercurio abbastanza precisi e di facile uso, con i quali divenne possibile registrare ripetutamente e senza gran disagio per il paziente la temperatura corporea. Questi strumenti, chiamati termometri clinici, si diffusero rapidamente e segnarono un notevole passo avanti nelle conoscenze sulla fenomenologia della febbre. Il più importante studioso dei fenomeni febbrili, K.R.A. Wunderlich, clinico medico a Lipsia, esaminò e descrisse analiticamente le variazioni della temperatura corporea che si presentavano in molte patologie. Grazie ai suoi studi e a quelli di altri clinici, vennero individuati numerosi tipi di febbre, con un fondamentale contributo alla diagnostica clinica, soprattutto nell'ambito delle malattie infettive. A metà del 19° secolo iniziarono gli studi sulla patogenesi della febbre, che diedero avvio a una serie di ricerche, i cui esiti avanzati costituiscono il sapere odierno in materia.
Una caratteristica fondamentale della febbre è rappresentata dal fatto che in questa condizione il livello al quale è fissato il termostato dell'organismo è più elevato di quello normale. Per questa ragione, quando in un soggetto sano viene aumentata artificialmente la temperatura corporea, questa, al cessare della causa perturbatrice, torna spontaneamente ai valori normali; nel soggetto febbrile, invece, la temperatura cresce ulteriormente, ma, una volta cessata la causa esterna, si riporta rapidamente al livello iniziale senza normalizzarsi.
Numerose ricerche hanno dimostrato che la febbre rappresenta un fenomeno biologico complesso, costituito non soltanto dall'elevarsi della temperatura corporea ma anche da una serie di altre modificazioni che contribuiscono alla difesa contro le infezioni. Questa reazione difensiva viene generalmente indicata come 'fase acuta della risposta' (Cooper 1995). La risposta difensiva acuta comprende: 1) una caduta iniziale dei neutrofili circolanti; 2) un loro successivo prolungato aumento; 3) una riduzione dei linfociti e dei monociti circolanti; 4) una diminuzione delle concentrazioni di ferro e di zinco nel sangue. Al di là di questi fenomeni, l'aumento della temperatura corporea in quanto tale provoca una serie di altri effetti sulle difese dell'organismo: in particolare, può incrementare la mobilità e l'attività battericida dei leucociti e stimolare la trasformazione dei linfociti, con i conseguenti possibili effetti sulla produzione degli anticorpi e sull'attività fagocitaria dei globuli bianchi. Inoltre, mediante la produzione sperimentale di uno stato febbrile è stato dimostrato che la febbre induce una serie di modificazioni endocrine le quali pongono l'organismo in condizioni favorevoli alla difesa contro l'invasione di un ospite pericoloso: un aumento della noradrenalina, dell'ormone della crescita, dell'ormone adrenocorticotropo e del cortisolo nel sangue.
La temperatura interna dell'organismo è la risultante di due processi fondamentali: la produzione e la dispersione di calore, che, quando la temperatura corporea è stabile, sono perfettamente bilanciati tra loro (v. termoregolazione). L'incremento della temperatura può essere causato o da un aumento della produzione o da una diminuzione della dispersione di calore, o, infine, dalla combinazione di entrambi i fattori. Il contrario avviene, ovviamente, quando la temperatura diminuisce.
La produzione di calore rappresenta il risultato di diversi fenomeni: il metabolismo cellulare basale, l'attività muscolare volontaria, la termogenesi indotta dal brivido e la cosiddetta termogenesi non indotta dal brivido. L'eliminazione del calore avviene, invece, secondo quattro modalità differenti: la conduzione dal corpo agli oggetti circostanti, la convezione, l'irraggiamento e l'evaporazione. Negli animali omeotermi la temperatura corporea è pressoché costante, nonostante le sensibili variazioni termiche ambientali. Per ottenere questo, l'organismo può modificare sia la produzione di calore sia la termodispersione: se si verifica una diminuzione della temperatura esterna, l'organismo può aumentare la produzione di calore mediante l'insorgenza di brividi scuotenti e ridurre la perdita di calore attraverso una vasocostrizione cutanea; se ha luogo un aumento della temperatura esterna l'organismo reagisce con una vasodilatazione cutanea accompagnata da ipersudorazione, incrementando così sia la convezione sia l'evaporazione. Il sistema di controllo della temperatura corporea è molto complesso e non è ancora conosciuto completamente né nelle sue parti, né nei suoi meccanismi funzionali. è costituito da una parte afferente, che registra e trasmette a un organo regolatore le informazioni relative alla temperatura di varie regioni del corpo, e da una parte efferente che trasporta i segnali più appropriati ai tessuti periferici, i quali modulano la produzione e la dispersione di calore. I recettori sensibili alle variazioni della temperatura sono situati sia sulla superficie del corpo, sia all'interno dell'organismo. In base alle conoscenze attuali recettori termici profondi sarebbero distribuiti diffusamente nel sistema nervoso centrale e raggiungerebbero la massima concentrazione nella regione ipotalamica.
Per quanto le nostre conoscenze sui vari centri di controllo siano tuttora scarse e frammentarie, è certo che il centro regolatore della temperatura interna è situato, nei Mammiferi, nel sistema nervoso centrale e in particolare nell'ipotalamo anteriore. A questa struttura pervengono dalla periferia i segnali relativi alla temperatura corporea, che vengono da essa elaborati e integrati. L'ipotalamo anteriore, quindi, sarebbe l'organo centrale che coordina l'attività dell'intero sistema di controllo: è stato osservato che alcuni dei suoi neuroni reagiscono alle variazioni della temperatura modificando la frequenza dei propri impulsi nervosi (Cooper 1995). Dall'ipotalamo, inoltre, partono i messaggi nervosi che raggiungono i tessuti periferici i quali modulano la produzione e la dispersione del calore. Secondo gli orientamenti attuali, dunque, l'aumento della temperatura interna che si verifica durante la febbre è provocato da un'alterazione funzionale del centro del controllo ipotalamico; in questa sede il livello di riferimento, ovvero il punto di equilibrio del sistema omeostatico, viene fissato a un livello superiore a quello normale cosicché la produzione e la dispersione di calore, dopo un breve periodo di squilibrio, si riassestano mantenendo la temperatura interna a un livello più elevato di quello fisiologico.
Nella genesi della febbre, svolgono un ruolo importante tanto la termogenesi indotta da brivido (v.), quanto quella che si verifica in assenza di brivido. È infatti noto a tutti come un innalzamento della temperatura sia preceduto spesso dalla comparsa di brividi intensi o come a volte, invece, esso s'instauri gradualmente, senza brividi. La presenza del brivido aumenta la termogenesi in misura cospicua e si associa a una costrizione dei vasi cutanei e a una riduzione della sudorazione; in tal modo sia l'aumentata termogenesi sia la riduzione della termodispersione concorrono potentemente all'instaurarsi della febbre.
L'individuazione della sede dell'aumentata termogenesi durante la febbre ha occupato a lungo gli studiosi. Il muscolo striato e il tessuto epatico rappresentano le sedi fondamentali nelle quali si verifica l'aumento delle ossidazioni che porta all'incremento della produzione del calore. Negli ultimi anni, tuttavia, si è osservato che, soprattutto nelle specie ibernanti e negli organismi giovani, il tessuto adiposo bruno costituisce un'altra sede di grande importanza fisiologica per la termogenesi.
In medicina clinica, la febbre compare in generale quando nell'organismo si è instaurato un processo di carattere infettivo, oppure infiammatorio o neoplastico, o, ancora, quando si è verificata una distruzione tissutale. In queste condizioni numerose sostanze tossiche si liberano dal focolaio di infezione e/o di necrosi e si diffondono nell'organismo. Nella seconda metà del 19° secolo venne dimostrata per la prima volta l'esistenza di sostanze organiche che, iniettate nell'organismo, provocano l'insorgenza della febbre. Fu quindi ovvio attribuire la febbre che si verificava nei processi infettivi o in seguito a una distruzione tessutale alla liberazione di materie pirogene dai focolai di flogosi ed eventualmente di necrosi. Gli studiosi, però, si divisero subito sui meccanismi con i quali i pirogeni potevano provocare la febbre: mentre secondo alcuni i pirogeni agivano direttamente sui tessuti stimolando la produzione di calore, altri ipotizzavano che essi agissero primitivamente sul sistema nervoso centrale. Attualmente questa opinione è prevalente e si ritiene che l'azione dei pirogeni si svolga modificando il livello di riferimento dell'ipotalamo anteriore.
Numerosi studi hanno dimostrato che esistono pirogeni esogeni ed endogeni. Gli esogeni provengono da germi, virus e funghi, che hanno appunto la capacità di aumentare stabilmente la temperatura dell'organismo e d'indurre anche gli altri fenomeni della fase acuta di difesa; i più conosciuti sono sostanze di grande peso molecolare e di natura lipopolisaccaridica contenute nella parete dei batteri gram-negativi. I pirogeni endogeni derivano invece da componenti normali dell'organismo umano. P.B. Beeson, nel 1948, ha dimostrato per primo che i leucociti neutrofili sono in grado di elaborare una sostanza che, iniettata in un soggetto, produce un evidente rialzo febbrile. Oggi si sa che diverse altre cellule (monociti, macrofagi, linfociti, cellule mesenchimali e dei linfomi) hanno la stessa proprietà. I pirogeni endogeni hanno natura proteica e sono costituiti da varie sostanze appartenenti alla famiglia delle citochine; di esse le più importanti sono l'interleuchina-1 (IL-1), il TNF (Tumor necrosis factor), l'interferone (INF) e l'interleuchina-6 (IL-6). Le citochine pirogene oltrepassano la barriera ematoencefalica e stimolano la produzione nel sistema nervoso della prostaglandina E₂, la quale modificherebbe il livello di riferimento dell'ipotalamo determinando l'insorgenza della febbre.
I biologi e i medici hanno a lungo discusso sul significato e sul valore della febbre come fenomeno adattivo comparso durante l'evoluzione biologica. È comunemente accettato che, nei Vertebrati omeotermi, in molte circostanze la febbre rappresenta un fenomeno difensivo; tuttavia, in alcuni casi essa, soprattutto quando raggiunge livelli molto elevati, può divenire dannosa e aumentare la mortalità. È opinione condivisa dalla maggior parte degli studiosi che la febbre costituisca un fenomeno vantaggioso che si è conservato nel regno animale per centinaia di milioni di anni; tuttavia, recentemente è stata avanzata l'ipotesi che, sul piano della sopravvivenza della specie, la febbre possa favorire la guarigione di chi è affetto da infezioni meno gravi e che, invece, acceleri la morte degli individui più malati, riducendo in questo modo il pericolo di una diffusione epidemica dell'infezione.
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