CAPELLA, Febo
Proveniente da una famiglia di non grandi ricchezze, i cui componenti si erano distinti in incarichi amministrativi e burocratici (anche il padre Alessandro era stato cancelliere grande), il C. nacque a Venezia intorno all'anno 1490.
La sua vita si snodò, interamente, nel clima, nella tensione di una totale dedizione allo Stato, pur fra le continue difficoltà economiche, il bisogno ripetuto del denaro, della ricompensa che premi l'aderenza all'"ufficio" al quale è, di volta in volta, preposto. Modesto, infatti, è il patrimonio, se nel testamento, del 22 genn. 1559, pochi giorni prima della morte, una dichiarazione nuda, cancelleresca nella sua fredda formulazione, poteva lasciare alla moglie Angela Zantani non più di mille ducati, la casa "da statio" a S. Vio e la casetta "a l'incontro di quella". Un uomo, tuttavia, entro quell'orditura psicologica fatta di senso del dovere, di servizio, senza tentennamenti, alla "patria", pervaso da una acuta sensibilità religiosa, tutta imbevuta dei motivi nuovi che percorrevano la religiosità veneziana del primo Cinquecento: spiritualizzazione della Chiesa, ritorno alle origini evangeliche, ad un cristianesimo più attento al messaggio di Cristo che ai richiami del potere e della ricchezza del mondo. E non stupisce, allora, vedere, il 7 maggio 1549, il suo nome nel "cathastico" di condanna dei libri ereticali di mons. Giovanni Della Casa; ed i suoi libri, già il 2 luglio 1548, libri sconosciuti, purtroppo, nella loro elencazione dettagliata, bruciati in Rialto. Lo stupore, poi, all'inizio, era stato grande al pensiero che un segretario della Repubblica nutrisse simpatie riformatrici e spiritualiste; ma ben presto rientrava di fronte alla vita di un fedele cattolico, ossequiente alle tradizioni della Chiesa ed alle sue dottrine.
Aveva, nel frattempo, compiuto unacarriera non trascurabile. Ballottato segretario ducale il 25 sett. r533 (ma il 13 apr. 1524 aveva già ricevuto la nomina di segretario straordinario), esplicò un'attività di coordinamento politico fra i vari settori della vita pubblica oltre che di stipulazione di contratti economici. Presenziò, il 23 luglio 1535, all'atto che dava possibilità, dietro consenso del doge, a Iacopo Fasolo di rappresentarlo presso il patriarca e il primicerio di S. Marco, in vista della facoltà, loro attribuita, di eleggere cinque o più prelati che giudicassero le cause ecclesiastiche; presiedette inoltre il 31 marzo 1539 all'accordo riguardante la mutua estradizione dei banditi fra Venezia e Milano; si preoccupò dell'invio, il 6 sett. 1542, delle lettere del sangiacco di Bosnia a Vincenzo Zantani, in Dalmazia, oltre a far da testimone, il 2 giugno 1546, alla vendita di nove mulini alla Signoria da parte delle monache di S. Lucia. In fondo, era l'intera struttura economica e religiosa a dispiegarglisi dinanzi, tutti i sottili legami che univano il potere politico con quello religioso. Per cui il senso di una Chiesa rinnovata, fatta ad immagine di Cristo, e povera, gli si adombra proprio in questi anni di attività amministrativa, di stipulazione di contratti, di scambi di lettere diplomatiche.
Segretario residente a Milano dal gennaio 1547, la sua corrispondenza va indagata più come testimonianza di una nuova visuale religiosa, che come fonte rivelatrice di analisi politico-diplomatiche. Milano, d'altronde, è un grande centro commerciale, e di transito per i paesi tedeschi, oltre che un ottimo osservatorio per indagare sugli sviluppi religiosi della Germania e della Svizzera. Ed il C. è quotidianamente in rapporto "di molti gentilhomini", veneziani e non, per "raccoglierli, et honorarli", e dai quali può avere particolareggiate informazioni su ogni specifica questione.
I problemi di Augusta, e della Dieta che vi si svolge, sono al centro delle sue preoccupazioni; ma l'angolo di visuale resta quello di un'insistente condanna globale del luteranesimo e del calvinismo, anche se mitigata da una adesione "spirituale" ad alcune loro forme dottrinali e critiche. Per questo, il 13 ag. 1547, perché "il cardinale d'Augusta havea cantata una Messa solenne in quella città, e... delle altre anchora erano state provatamente ditte, che se principiava a ritornare l'immagine de Santi nelle Chiese" esulta di speranza e di gioia. Ogni movimento, riunione, o tentativo di pace che avviene nelle città tedesche fra cattolici e "lutherani" è dal C. attentamente seguito e vagliato, nella prospettiva di un'Europa religiosamente pacificata e nella quale il cattolicesimo trionfi, ma sotto forme rinnovate. Ed a convalida di questo sogno irenico porta i ripetuti "segni" annuncianti un'irrimediabile disgregazione sociale e religiosa, qualora non lo si abbracci e non diventi obbiettivo concreto di azione. I tumulti che avvengono a Napoli il 17 ag. 1547, le inimicizie e le lotte straripanti in tutte le città, come a Bologna, sempre nell'agosto, 1547, quando "uno... che era homo di Chiesa" cerca di uccidere un vicino, "e con questi mezzi cominciano hora li privati a vendicarsi delle ingiurie loro", oltre ai "prodigi e cose vane" che avvengono in Roma e ovunque, non sono l'indice di una ampia crisi favorita dagli urti frontali, dalle divisioni nette, dagli scontri teologici? Lo stesso problema dell'elezione del pontefice, afferma il 7 genn. 1549, qualora andasse o alla longa, come se ne vedeno segni espressi, non n'havesse a nascer qualche scisma, che sempre è cattivo per natura, e fomento di scandoli e guerre; et il quale non seria niente a proposito a questo tempo". Mentre ogni sintomo, anche tenue, di concordia e di unione gli appare come una speranza vivida di ritessitura della società e della Chiesa: "Ci sono lettere... con molti particulari circa la religione, tutti boni per la Chiesa", scrive, infatti, con entusiasmo il 18 apr. 1548, mentre giudica severamente l'assenteismo dei prelati, spesso lontani dalle loro sedi e non partecipi attivamente alla vita delle loro diocesi, in particolare a Milano. Per cui, quando il 3 giugno 1550, giunge in città il nuovo arcivescovo G. A. Arcimboldi, scrive: "Pare che questa città habbia sentito piacer assai d'haver l'arcivescovo suo e li preti dispiacere, come quei che saranno pur astretti a star più in freno sotto l'arcivescovo di quello che facevano sotto vicarii. Iddio voglia, che questo pastore sia bono per il grege suo". Il tema del "buon pastore" appare ripetutamente nelle sue lettere, argine infallibile contro l'eresia ed i disordini sociali: una "ecclesia" carica di esemplarità evangelica era garanzia per la stessa coesione degli Stati e della società. I due motivi s'incrociano e compenetrano a vicenda, entro un orizzonte irenico. Le conversazioni tenute durante i "diversi viaggi per seguir l'ill.mo signor Don Ferrante" a Genova e a Mantova per far compagnia al "ser.mo Principe di Spagna" ribattono queste aspettative e queste attese fiduciose. Ogni altro problema resta in sottordine, anche se riguardante la sicurezza di Venezia, come la facoltà concessagli l'8 febbr. 1549 di rappresentare la Repubblica nella causa fra essa e Benedetto Salerni riguardante i beni di Castelleone (Cremona); o la notizia, del 10 luglio 1550, captata da un soldato vicentino, della facilità di conquistare il castello di Brescia. L'orizzonte che lo occupa quotidianamente, che lo affascina, resta pur sempre quello religioso ed irenico, quasi un insistente ammaestramento alla stessa classe dirigente veneziana.
Tale indirizzo non verrà meno, dopo il ritorno a Venezia nel settembre 1550 e la ripresa dell'attività di segretario ducale (il 20 giugno 1554 presenzia all'accordo sui "banditi" fra Venezia e i Grigioni), nelle lettere, così cariche di annotazioni religiose e di speranze ireniche, che scrive dalla Francia in qualità di segretario di Agostino Barbarigo dall'11 ott. 1554 al 29 apr. 1555; oltre a pervadere, nella sua intima essenza, il tentativo dell'ottobre 1556 di giungere ad una pacificazione fra il papa e l'imperatore.
Inviato a Roma dal Senato veneziano come uomo capace ed avveduto, quando la Repubblica cercava di persistere su d'una politica di stretta neutralità nelle vicende italiane ed europee, la missione presso il duca d'Alba non ebbe alcun esito, anche se avvenne nell'atmosfera della sacralità ed inviolabilità del potere religioso del pontefice: "per la pubblica pace, si disse, e la propensione verso i sommi pontefici, la sicurezza e la dignità dei quali sempre avea avuta fitta dinanzi alla mente". Un fallimento che amareggia il C., mentre il quadro politico ridiventava incerto ed inquieto. Di qui, il ritiro, ormai cancelliere grande, dalla vita politica, e l'intero spazio del tempo dedicato ai libri ed agli amici, specie a Giovanni Lanfredini. E muore, quando ormai gli stessi ideali irenici tramontano, a Venezia, "da maninconia", il 5 febbr. 1559.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Testamenti. Atti Bianco, b. 128, c. 99 (ma cfr. pure Testamenti. Atti Bianco, b. 125, n. 287); Capi del Consiglio dei Dieci,Lettere di ambasciatori,Milano, b. 16; Secreta. Archivi propri. Milano, b. 1-3; Senato,Terra 1548-'49, reg. 36, c. 69r; Senato,Secreta,Dispacci Francia, filza 1. Inoltre cfr. Calendar of State Papers and Manuscripts relating to English affairs existing in the Arch. and Collections of Venice, VI, 1, a cura di R. Brown, London 1877, pp. 14, 21, 47, 53, 59; M. Sanuto, Diarii, LVIII, Venezia 1903, col. 730; I libri commem. della Rep. di Venezia,Regesti, a cura di R. Predellii, VI, Venezia 1903, pp. 215, 227, 234, 263; VII, ibid. 1907, p. 78; A. Morosini, Storia della Repubbl. venez., II, Venezia 1782, pp. 275 s.; E. A. Cicogna, Delle incriminazioni venez., IV, Venezia 1834, p. 605; L. G.Pelissier, Louis XII et Ludovic Sforza (8 avril 1498-23 juillet 1500), II, Paris 1896, p. 301; G. Sforza, Riflessi della Controriformanella Repubblica di Venezia, in Archivio storico ital., XCIII (1935), 1, pp. 189-216 (partic. p. 203); 2, pp. 25-52; L. von Pastor, Storia dei papi, VI, Roma 1944, pp. 402, 405; F. Chabod, L'epoca di Carlo V, in Storia di Milano, IX, Milano 1961, p. 132 nn. 2 s.; Id., Per la storia relig. dello Stato di Milano durante il dominio di Carlo V. Note e documenti, Roma 1962, p. 35; A. Stella, Barbarigo,Agostino, in Diz. biogr. degli Ital., VI, Roma 1964, p. 50.