fede e astuzia
Concetti fondamentali nel pensiero di M., si trovano spesso uniti in rapporto contrastivo nella sua riflessione antropologica (erano, d’altro canto, motivi assai diffusi nella tradizionale precettistica dell’Umanesimo). Il termine fede (dal lat. fides che vuol dire sia «credenza religiosa», sia «impegno solenne», «veracità nel mantenere la parola», «osservanza di una promessa») ricorre nel Principe con il significato di ‘lealtà’ verso gli altri, ‘fedeltà’ a un patto, agli impegni presi, alla parola data. M. riserva un intero capitolo del suo «piccolo volume» (Dedica 2), il xviii, ad analizzare quomodo fides a principibus sit servanda «in che modo i principi debbano osservare la fede» (in iii 46 M. rinvia direttamente alla lettura di questo capitolo per far comprendere cosa egli intenda con «mantenere la fede», e, nel caso specifico, controbattere quanti, per motivare l’aiuto portato da Luigi XII ad Alessandro VI, avessero potuto chiamare in causa la parola «che il re aveva data al papa»). Chiara l’enunciazione machiavelliana della precipua valenza semantica da accordarsi al concetto di fede in contrapposizione a quello di astuzia:
Quanto sia laudabile in uno principe il mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco si vede per esperienza ne’ nostri tempi quelli principi aver fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini: e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la realtà (xviii 1; «realtà» vale ‘sincerità’. Si noti che i mss. del ramo y recano «lealtà»).
Qualità «laudabile», dunque, rispetto all’astuzia, ma non sempre efficace per ottenere il successo politico. Il pessimismo antropologico machiavelliano impone una spietata presa di coscienza di fronte alla drammatica realtà dei comportamenti umani. E proprio per aggirare i pericoli insiti in essa al principe «è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo»: e «di quelle pigliare la golpe e il lione», dal momento che «el lione non si difende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi», ed essere «golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi» (§§ 4 e 7). Riletta l’originaria fonte ciceroniana, De officiis I, 34 (Nam cum sint duo genera decertandi, unum per disceptationem, alterum per vim, cumque illud proprium sit hominis, hoc beluarum, confugiendum est ad posterius, si uti non licet superiore, «Essendovi infatti due generi di contesa, l’una per mezzo della discussione, l’altra con la forza, ed essendo la prima specifica dell’uomo, la seconda dei bruti, si dovrà ricorrere a questa nel caso non sia possibile valersi della prima», trad. di L. Ferrero, in Opere politiche e filosofiche di M. Tullio Cicerone, a cura di L. Ferrero, N. Zorzetti, 1978, p. 599) e 41 (Cum autem duobus modis, id est aut vi aut fraude, fiat iniuria, fraus quasi vulpeculae, vis leonis videtur; utrumque homine alienissimum, sed fraus odio digna maiore, «Essendo l’offesa di due specie, per violenza o per frode, la frode appare essere quasi propria di una volpaccia, la violenza di un leone; e pur essendo ambedue le cose del tutto estranee all’uomo, la frode è tuttavia meritevole di maggior odio», p. 605), M. considera necessarie – per il principe – la «fraude» e la «forza», anche se accorda alla prima un valore preminente rispetto alla seconda:
Io stimo essere cosa verissima che rado o non mai intervenga che gli uomini di piccola fortuna venghino a gradi grandi sanza la forza e sanza la fraude, pure che quel grado al quale altri è pervenuto non li sia o donato o lasciato per eredità. Né credo si truovi mai che la forza sola basti, ma si troverrà bene che la fraude sola basterà (Discorsi II xiii 2-3).
D’altro canto l’astuzia (simboleggiata dalla «golpe») è parte della prudenza politica, a sua volta compresa nel concetto di virtù (ma cfr. la lettera a Francesco Vettori del 9 apr. 1513, p. 367: «Priegovi che voi imitiate gli altri, che con improntitudine et astutia, più che con ingegno et prudenza, si fanno luogo»). Secondo M., l’astuzia consiste sia nel conoscere «e’ lacci altrui» sia nel riuscire a prepararne di propri (il pensiero corre al Valentino del cap. vii del Principe, ma anche ai «grandi inimici» muniti «di più vedere e più astuzia» nel cap. ix). È stato giustamente notato come anche questa volta M. non rinunci «alla propria ‘coscienza morale’, distinguendo apertamente l’eticità di un comportamento […] ma subito dopo tracciando la “frattura” (Sasso) che lo divide dalla politica»: risiede in «questa divaricazione, lucidamente assunta, la drammaticità della riflessione teorica machiavelliana» (in N. Machiavelli, Opere, a cura di R. Rinaldi, 1° vol., t. 1, 1999, pp. 293-94 note 3 e 5).
La fede resta, comunque, virtù fondamentale: nel cap. viii, elencando i crimini di Agatocle tiranno di Siracusa, assunto a esempio di come «per scelera» è possibile pervenire al principato, M. sottolinea che «non si può ancora chiamare virtù ammazzare e’ suoi cittadini, tradire gli amici, essere sanza fede, sanza pietà, sanza religione» (§ 10). Per M. è importante, inoltre, stringere a sé i sudditi in un rapporto di fedeltà: nel cap. xvii ricorda che Cesare Borgia «era tenuto […] crudele», «nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace e in fede» (§ 2). E poco dopo M. ribadisce che un principe deve «non si curare della infamia del crudele per tenere e’ sudditi sua uniti e in fede» (§ 4). Tuttavia, la fede, pure così «laudabile», può essere in parte disattesa se costretti dalle circostanze: «Non può pertanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede quando tale osservanzia gli torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere» (xviii 8). Passo che deve essere correlato ad analoghe considerazioni svolte nei Discorsi:
non è vergognoso non osservare quelle promesse che ti sono state fatte promettere per forza; e sempre le promesse forzate che riguardano il publico, quando e’ manchi la forza, si romperanno, e fia sanza vergogna di chi le rompe. Di che si leggono in tutte le istorie vari esempli; e ciascuno dì ne’ presenti tempi se ne veggono. E non solamente non si osservano intra i principi le promesse forzate, quando e’ manca la forza; ma non si osservano ancora tutte le altre promesse quando e’ mancano le cagioni che le feciono promettere. Il che se è cosa laudabile o no, o se da uno principe si debbono osservare simili modi o no, largamente è disputato da noi nel nostro trattato De Principe (III xlii 5-8).
La ratio generale è spiegata da M. stesso sempre nel terzo libro dei Discorsi, trattando della difesa della patria (Che la patria si debbe difendere o con ignominia o con gloria, e in qualunque modo è bene difesa):
dove si dilibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà (xli 5).
L’idea essenziale – è notazione di Giorgio Inglese (2006, pp. 12-14) – risulta già espressa in un discorso del 1503 (Parole da dirle sopra la provvisione del danaio). La matrice potrebbe essere in una pagina del capitolo dedicato agli Ingrati nel De remediis petrarchesco (Figorilli 2006, pp. 21-22): «Sono alcuni che magnificano, con grandi e debite lode, la fede e l’osservare le promesse; et altri sono che dicono il rompere della fede non essere inganno, ma più sapere, e di più sottile ingegno». E c’è di più. Nel capitolo lix del I libro dei Discorsi, discutendo se sia più leale («qual fede è più stabile», § 2) una repubblica o un principe, M. introduce anche la nozione di ‘utile’:
Romponsi le confederazioni per lo utile. In questo le repubbliche sono di lunga più osservanti degli accordi che i principi. E potrebbesi addurre esempli dove uno minimo utile ha fatto rompere la fede a uno principe e dove una grande utilità non ha fatto rompere la fede a una repubblica [...]. Quanto a rompere i patti per qualche cagione di inosservanzia, di questo io non parlo, come di cosa ordinaria, ma parlo di quelli che si rompono per cagioni istraordinarie; dove io credo, per le cose dette, che il popolo facci minori errori che il principe, e per questo si possa fidar più di lui che del principe (§§ 15-21).
Che gli uomini non «osservino la fede» per la loro malvagità costitutiva vale come sorta di giustificazione della mancanza di lealtà dei prìncipi nel passo già menzionato del capitolo xviii del Principe: «E se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono: ma perché e’ sono tristi e non la osserverebbono a te, tu etiam non l’hai a osservare a loro» (§ 9). Comunque sia, anche se si può venir meno – in casi particolari – all’obbligo di mantenere fede alla parola data, un dato deve restare, agli occhi di M., fermo:
A uno principe adunque non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle; anzi ardirò di dire questo: che, avendole e osservandole sempre, sono dannose, e, parendo di averle, sono utili; come parere piatoso, fedele, umano, intero, religioso, ed essere: ma stare in modo edificato con lo animo che, bisognando non essere, tu possa e sappia mutare il contrario. E hassi ad intendere questo, che uno principe e massime uno principe nuovo non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono chiamati buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione (§§ 13-14).
Concetto confermato nel § 16, là dove M. richiede che il principe (al di là dall’esserlo) sempre «paia, a udirlo e vederlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione».
Bibliografia: Fonti ed edizioni critiche: N. Machiavelli, Opere, a cura di R. Rinaldi, 1° vol., t. 1, Torino 1999.
Per gli studi critici si vedano: L. Derla, «Pubblico» e «privato» nel sistema di Machiavelli, «Aevum», 1978, 52, pp. 426-49; G. Sasso, Niccolò Machiavelli: storia del suo pensiero politico, Bologna 1980; G. Cadoni, Il «profeta disarmato». Intorno al giudizio di Machiavelli su Girolamo Savonarola, «La cultura», 2001, pp. 239-66; M.C. Figorilli, Machiavelli moralista: ricerche su fonti, lessico e fortuna, Napoli 2006; G. Inglese, Per Machiavelli: l’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006; G.M. Anselmi, S. Scioli, Machiavelli, Acireale 2013; G.M. Barbuto, Machiavelli, Roma 2013.