fede (fè)
Il termine denota prima un atteggiamento di fedeltà e di fiducia. Di f. in questo senso D. parla più volte (If V 62, XIII 62 e 74, Vn XII 13 26, XIII 3 [in correlazione con ‛ fedele '], XXIII 27 76, XXVI 11 8; pura fede, Fiore XII 11; Rime dubbie III 5 11; in Pd XI 114 ricorre l'espressione ‛ amare a f. ', " con assoluta fedeltà ", " sinceramente "; così in Fiore XXII 7, LX 12, CCII 11; cfr. le varie locuzioni che denotano fedeltà, sincerità, lealtà, come ‛ tener f. ', Rime XCI 12; di buona fede, Vn XIV 7; a buona fede, Fiore LXXVI 4, CXXXV 8; in buona fede, CCXXVII 4; in fede mia, CXCIII 5. In Cv IV XII 8 oculata fede designa la f. derivante dalla testimonianza oculare). In seguito f. passa a designare la fiducia in una persona che è alla base dell'atteggiamento di fedeltà (If XI 63, Pg XVI 52, Pd VIII 14, XV 26, Cv II XII 8, IV XII 3, XV 5, Rime L 49). Da fiducia in una persona il significato evolve verso quello di fiducia nella sua parola (If XIII 21, XVIII 62, XX 101, Pg XXVIII 86, Pd XVII 140, Cv IV V-VIII). Queste naturali accezioni del termine si ritrovano, più o meno chiaramente espresse, nella nozione di f. cristiana che è fiducia, fedeltà, e quindi dono di sé (per questo uso del termine cfr. Pg XXI 87, Pd XXIV 38 e 44, XXV 10 e 75, XXVII 127, Cv III .Amor che ne la mente 42 e 53, Fiore CXIV 10; e v. più oltre). Ma essa è soprattutto credenza nella parola di Dio che si rivela, e quindi dono di sé mediante la volontaria sottomissione dell'intelligenza che accetta senza vedere, senza comprendere. L'insieme della rivelazione di Dio, qual è espressa soprattutto nella rivelazione di Cristo - la f. cristiana - è la base della f. istituzionalizzata nella Chiesa. Il termine f. designa pertanto la Chiesa, la religione cristiana. Partendo da questa nozione di f. come religione cristiana, D. usa il termine per designare la religione dei pagani (sempre che egli in tal caso riservi il termine per la religione pagana, considerata come una preparazione alla f. cristiana, secondo la celebre espressione di Tertulliano: " Anima naturaliter christiana ", l'anima, l'uomo, è cristiano per natura). Ecco perché in D. incontriamo l'espressione credenza pagana (Cv IV XV 8), fede de' Gentili (II IV 7, VIII 9) in opposizione a la nostra fede (IV V 9, XV 7, XXX 3), la nostra buona fede (III XIV 14 e passim), fede / de l'Evangelio (Pd XXIX 133).
La nozione di fede. - In Pd XXIV 52-147, D. subisce da parte di s. Pietro un serrato interrogatorio sulla f.: " Dì... fede che è? " (v. 53); in esso tratta successivamente del concetto di f. (vv. 52-78), del possesso (vv. 79-87) e della fonte di essa (vv. 88-96), delle prove della verità della f. (vv. 97-114) e dell'oggetto di essa, il che in realtà è una confessione della f. ortodossa (vv. 115-147). Ritroviamo qui tutta la dottrina tradizionale della Chiesa e dei dottori del tempo di D., tanto che non è illegittimo scorgervi la ripresa di un insegnamento scolastico. Del resto D. stesso paragona l'interrogatorio a un vero e proprio esame. E d'altra parte le risposte di D. si tengono troppo vicine al bagaglio di conoscenze di un qualsiasi cristiano ben istruito, per non ritenere che la materia di un siffatto esame sia attinta a un'istruzione propriamente teologica. D. stesso afferma che la sua risposta viene dalla Grazia (Beatrice... / sembianze femmi perch'io spandessi / l'acqua di fuor del mio interno fonte, vv. 55-57). Resta il fatto che l'organica disposizione delle risposte ha qualcosa di notevole.
La definizione che D. dà della f. è tolta da Heb.11,1: fede è sustanza di cose sperate / e argomento de le non parventi (vv. 64-65); ma da quello che segue sembra che D. prenda i due termini sustanza e argomento in senso proprio, secondo un uso ormai dismesso dai teologi suoi contemporanei. Per costoro la sostanza di cui parla la Scrittura è il ‛ fondamento ', e gli argomenti le ‛ prove '. La f., dice poi D., è posseduta come qualcosa di durevole; egli la paragona a un pezzo d'argento trasformato in una perfetta moneta o a un gioiello. Essa sorge non già dagli argomenti umani, ma dallo Spirito che ne ha diffuso la ‛ ploia ' nella Scrittura. Le prove della f. sono i miracoli, ma più ancora la diffusione di essa in tutta quanta la terra (cfr. Cv III VII 16). Dopo questa prima parte dell'interrogazione, D. ode i cori celesti intonare l'inno Te Deum laudamus. Poi, su invito dell'apostolo, confessa la propria f. in un Dio unico e creatore, e nella Trinità.
D. si muove in un clima profondamente cristiano, di cui è imbevuta soprattutto la Commedia. Lo si vede già in If IX 106 - X 121: i dannati che hanno peccato contro la f. sono gli eretici. Più volte D. confessa che la f. è necessaria per giungere alla salvezza; Virgilio non può accedervi perché non ebbe la f. (Pg VII 8, 25-26, 31-37). Il battesimo è porta de la fede (If IV 36), e Domenico, l'amoroso drudo / de la fede cristiana, nel battesimo è unito alla f. come da un vincolo matrimoniale: Poi che le sponsalizie fuor compiute / al sacro fonte intra lui e la Fede, / u' si dotar di mutüa salute... (Pd XII 55-56, 61-63). La f. è principio a la via di salvazione (If II 29).
Tale principio può essere implicito, come nel caso della f. di Traiano (secondo l'antica concezione che è testimoniata già dall'autore della Vita II di Gregorio Magno [Joannes Diac. Vita s. Gregorii II 48]), a cui D. aggiunge Rifeo (il giusto Troiano di cui parla Virgilio in Aen. II 339, 394, 426-427), in Pd XX 88-129 (il termine è al v. 104). Ma in questi casi si tratta di eccezioni; normalmente chi muore senza battesimo muore senza f. (Pd XIX 76). Quelli che senza loro colpa muoiono privi di battesimo vivono nel Limbo, dove godono di una felicità relativa, nel nobile castello. Essi desiderano ardentemente conoscere Dio, e in ciò sta la loro pena eterna (If IV). I cristiani sono dannati, tranne il caso degli eretici (la f. può vincere ogni errore, If IV 48), a causa di peccati morali. Ma il cristiano che si lascia condurre dalla f. dovrà passare, sull'esempio di D., attraverso diverse purificazioni come quelle descritte principalmente nei canti del Purgatorio. Alla fine di esse, sono accolti dalle tre virtù teologali, che in Pg XXIX 120-126 accompagnano il carro del grifone e la cui danza è guidata ora dalla carità, vestita di rosso e ora dalla f., vestita di bianco. Al suo apparire (Pg XXX 31-33), Beatrice è vestita dei colori delle tre virtù teologali; queste virtù acuiscono la vista di D. rendendolo capace di scorgere le cose soprannaturali (XXXI 109 ss.) e invitano Beatrice a rivelarsi completamente a D. (vv. 133 ss.). In cielo, ciò che quaggiù può vedersi solo sotto il velo della f., apparirà chiaramente (Pd II 43); gli stessi dubbi possono servire a sublimare la f. (IV 69). L'imperatore Giustiniano, che aveva errato nella f. ma s'era poi convertito, vede ora in cielo ciò che aveva creduto sulla parola di papa Agapito (VI 13 ss.; il termine è ai vv. 15, 17, 19). Questi vari indizi mostrano tutti chiaramente l'influenza della f. nella vita di D.; in essi si può legittimamente scorgere la descrizione idealizzata della vita cristiana normale, ma è parimenti giusto ricercarvi gl'indizi di un'ascensione mistica nel senso dell'Itinerarium mentis in Deum di Bonaventura, la cui dottrina D. senza dubbio conobbe, probabilmente tramite alcuni dottori francescani di Firenze.
F. e ragione. - Uno dei maggiori problemi per i dottori medievali, come per D., era quello del rapporto tra f. e ragione. L'impiego della filosofia nell'elaborazione della teologia aveva acuito il problema, posto peraltro sin dall'antichità cristiana. D., come ha ben visto il Gilson, trovava nella sua dottrina politica una particolare ragione d'interesse per il problema. Egli, in questo, si allontana da s. Tommaso, che però segue volentieri sul terreno della teologia. Per l'Aquinate infatti la ragione era ancella della f., così come la filosofia lo era della teologia. Non è improbabile che la dottrina tendenzialmente più mistica di Bonaventura, come pure la conoscenza di Aristotele e dell'averroismo latino, sia servita a D. come punto d'appoggio per operare al riguardo una distinzione tutta sua. Va comunque detto che egli non ammette, come fanno gli averroisti, che possa sussistere contraddizione tra ragione e f.; pur rimanendo più reticente di Tommaso quanto alle possibilità della ragione in rapporto alla teologia naturale, D. afferma che la ragione può servire la f. col dimostrarne la credibilità (Cv III VII 15, 16 [tre volte] e 17, XIV 14).
D. in effetti dice che la filosofia è essa stessa una cosa visibilmente miraculosa, de la quale li occhi de li uomini cotidianamente possono esperienza avere, ed a noi faccia possibili li altri [miracoli della f.]: manifesto è che questa donna, col suo mirabile aspetto, la nostra fede aiuta; e nel capitolo seguente spiega che la filosofia nobilita ugualmente l'anima con la beltà morale (VIII 20). D. sa che la ragione e la f. hanno ciascuna un proprio modo di vedere (II VIII 15; Mn II VII 4); egli dice inoltre che la f. mostra chiaramente ciò che la ragione può solo indovinare (Cv III XV 6). Ambedue provengono dalla luce divina, sola luce verace e che ogni altra eclissa (Pd XIX 64-66). D. applica perfino alla filosofia il passo dei Proverbi " ab aeterno ordinatus sum " (8, 23), che tutti i teologi del suo tempo intendevano detto dell'eterna Sapienza (Cv III VII 17). Se D. fece ricorso alla f. laddove la ragione fallisce o arriva a delle conoscenze troppo oscure, egli affermò pure che ciò che quaggiù la f. conosce oscuramente, in cielo sarà visto non come qualcosa di dimostrato - come se la f. fosse una conoscenza razionale superiore - ma come qualcosa di conosciuto in virtù della propria chiarezza: Lì si vedrà ciò che tenem per fede, / non dimostrato, ma fia per sé noto / a guisa del ver primo che l'uom crede (Pd II 43-45). Tutto ciò poterono ben sostenerlo tutti i maestri suoi contemporanei; ma siccome D. vuole separare il potere secolare dell'imperatore, entro il proprio dominio (che è il governo degli affari temporali in vista della felicità terrena), dal potere religioso, di cui il papa è depositario col compito di condurre alla beatitudine celeste, egli dovette separare ben più di quei maestri la ragione dalla f.; ad esse infatti D. riconosce una ben specifica e delimitata autorità. Espressione di ciò sono le due prime guide della Commedia: Virgilio conduce D. fino al mondo propriamente soprannaturale, e solo qui Beatrice, vestita dei colori delle virtù teologali, lo prende con sé per condurlo più oltre. È vero che Virgilio è inviato a D. su iniziativa di Beatrice, ma ciò vuol solo significare che per D. la luce della f., benché separata, è più alta e, in tal senso, orientatrice della luce della ragione.
Nella concezione dei rapporti tra f. e ragione, e di conseguenza tra teologia e filosofia, D. professa una dottrina tutta propria su cui perciò converrà insistere. Virgilio confessa d'insegnare a D. tutto ciò che l'umana ragione può sapere; Beatrice, come portavoce della f., gl'indicherà ciò che sorpassa la ragione (Pg XVIII 48). Nel Convivio, D. separa costantemente la ragione dalla f., sia pure affermando più volte che la conoscenza della f. è superiore a quella della ragione (II III 15 e passim). Quanto all'insegnamento della ragione, D. segue Aristotele, cui bisogna credere nell'ambito di essa (degno o degnissimo di fede e d'obbedienza, IV VI 5 [tre volte], 6 e 7); egli è maestro e duca de la ragione umana. Le conseguenze di ciò sono tratte in Mn III XVI 8 ss.: alla beatitudine terrena possiamo pervenire per phylosophica documenta... dummodo illa sequamur secundum virtutes morales et intellectuales operando; alla beatitudine della vita eterna si perviene per documenta spiritualia quae humanam rationem transcendunt, dummodo illa sequamur secundum virtutes theologicas operando, fidem scilicet, spem et caritatem. Egli afferma anche: Has igitur conclusiones et media, licei ostensa sint nobis haec ab humana ratione quae per. phylosophos tota [nella sua ‛ totalità ', dunque] nobis innotuit...
Limiti della dottrina dantesca sulla fede. - Quanto ai rapporti tra ragione e f., la dottrina di D. probabilmente costituisce una tappa nelle ulteriori ricerche tendenti a fondare la separazione tra Chiesa e Stato. Il suo insegnamento è la prova che anche in pieno Medioevo, in un regime di vita in cui la f. cristiana penetrava tutta la vita, si cercava di situare la f. entro la vita sociale.
D. ebbe certo troppo scarsa consapevolezza di come la f. esiga un progressivo radicarsi nella coscienza umana. Egli ha sì visto, giustamente, che la virtù della f. è data completamente nel battesimo (una conversione in età adulta esorbitava dalle sue prospettive), ma troppo poco comprese per quali vie la f. penetra in ciascun individuo e nella società. In questo senso egli non ha compreso ciò che grandi dottori come Tommaso d'Aquino e Bonaventura avevano visto e insegnato. D. avrebbe dovuto distinguere più chiaramente tra ‛ atto ' e ‛ virtù ' di f.; infatti, per quanto conosca tale distinzione, quasi mai ne trae profitto nella sua esposizione, e vi allude assai poco. Perciò egli non parla dell'accrescimento della f. che in lui rimane troppo statica. D. sembra prestare poca attenzione al fatto che il peccato, anche puramente morale, può distruggere l'attaccamento alla f. e, di conseguenza, la f. stessa. Egli è certamente conscio che le buone opere senza la f. non possono procurare la salvezza (Pg XXII 60; e comunque, partendo dalla vicenda stessa di Stazio di cui qui si tratta, si potrebbe argomentare l'opposto!), ma sembra prestare poco ascolto all'insegnamento secondo cui la f. che non opera nella carità, è morta. Quelle che noi chiameremmo colpe contro la carità, sono da lui classificate senza esitazione in una delle categorie dei peccati morali. In Pd XXXII 20, 38-39 e 78, D. affronta in qualche misura il problema della salvezza dei pagani, di quelli che non hanno conosciuto il Cristo, ma lo sfiora appena. Manifestamente il problema non lo tocca.
Per concludere, diremo che D. parla della f. alla maniera di un cristiano convinto e istruito della società in cui viveva. Egli parla con profonda convinzione del valore della f.; il soffio di f. che traversa tutta la Commedia è simile quasi a un'ascensione mistica. Non è neppur privo di una certa approfondita conoscenza della dottrina teologica, senza che per questo si possa parlare di una conoscenza teologica propriamente detta. Il problema maggiormente approfondito, del quale seppe dare una soluzione originale, è quello dei rapporti tra f. e ragione; ma si tratta di un problema studiato più che altro in vista di una teoria a esso propria, come quella politica. Dandosi s. Bernardo come terza guida nella Commedia, il poeta volle indicare che come la f. viene ad aggiungersi alla ragione e l'illumina, così alla f. si aggiunge la carità per condurla alla sua perfezione.
Bibl. - L. Pietrobono, Dal centro al cerchio, la struttura morale della Commedia, Torino 1923; ID, Il c. XXIV del Paradiso, ibid 1959; É. Gilson, D. et la philosophie, Parigi 1939 (19582); A. Ariaens, Met D. naar God, Soesterberg 1955; A. Jenni, Il canto XXIV del Paradiso, in Lett. dant. 1819-1833.