d’AMICO, Fedele
Nacque a Roma il 27 dicembre 1912, figlio di Silvio e di Elsa Minù, la cui madre bavarese, Fanny Schwager (1851-1942), fornì al nipote bambino i primi rudimenti di tedesco (dal 1933 d'Amico perfezionò la conoscenza della lingua con le lezioni che ebbe da Rudolf Arnheim, rifugiato in Italia fino al 1938).
Compiuto il liceo classico all’Istituto Massimo di Roma, prese la laurea in giurisprudenza. Contemporaneamente studiò pianoforte e composizione con Alfredo Casella, guida eccezionale nella sua formazione, e ‘maestro’ per il quale conservò sempre ammirazione e affetto. Ma, come si trae dai suoi scritti in più occasioni, essenziale nella sua giovinezza fu anche l’amicizia che ebbe con prime figure della cultura letteraria di allora, Pirandello, Barilli, Bontempelli, Antonio Baldini, Labroca ed Emilio Cecchi (di cui, nel 1938, sposò la figlia Giovanna, ben nota come Suso Cecchi d'Amico. Dal matrimonio nacquero tre figli: Masolino, Silvia e Caterina).
Al giro di amicizie non era estraneo uno spirito ‘romano’ (che a momenti d'Amico intenzionalmente e con simpatia lascia comparire nei suoi scritti), nutrito anche da energiche figure quali furono Pascarella e Petrolini, e da un grande personaggio lontano nel tempo ma sempre presente, Giuseppe Gioachino Belli (Silvio d'Amico recitava a memoria un numero enorme di sonetti). Fu questo nella crescita intellettuale di d'Amico un buon punto di osservazione degli uomini, del quale molto si giovarono la sua spontanea e democratica lealtà, la precisione espressiva, il gusto ricco, spiritoso, inconfondibile della conversazione e della prosa. Dai giovanili studi giuridici trovarono invece nutrimento la temibile tenacia e la sottigliezza dell’analisi negli scritti e dell’argomentazione nelle discussioni e nei contrasti (Jan Meyerowitz definì d'Amico «intrepido e categorico»; Ricordo di Fedele d’Amico, in Musica senza aggettivi, I, 1991, p. 14). La tenacia (fino all’ostinazione) e la sottigliezza, che erano già naturali in lui sin da bambino ed erano patrimonio dei ricordi di famiglia, specialmente in quelli della spiritosissima madre, restarono leggendarie anche tra gli amici dell’età adulta.
Ma non basta. Il principio del giudizio etico, nell’azione individuale e nei fatti sociali, in questi soprattutto, lo guidò non solo nel lavoro, ma anche nella pratica quotidiana con un rigore prossimo a volte all’accanimento. Un esempio: la convinzione che ogni riproduzione meccanica dell’atto umano (cinema, dischi e, corruttrice massima, la televisione) ne alterasse irrimediabilmente la verità, e fosse dunque un’opera immorale, teneva d'Amico sdegnosamente lontano da qualunque sala in cui operasse uno dei tre pessimi arnesi. Era costante preoccupazione degli uffici stampa avvisarlo con anticipo che in teatro ci sarebbe stata la televisione, per evitare che egli appena entrato voltasse irato le spalle e se ne andasse. Meritano di essere lette le brevi cronache di epica intransigenza di d'Amico raccontate dal figlio Masolino (Persone speciali, Torino 2003, pp. 11-16).
Una tale fermezza di carattere la si incontra raramente nella vita, e nel parlarne c’è il rischio di fare un gran ‘personaggio’ di un grande critico musicale, il maggiore che abbiamo avuto nel secolo scorso. È vero tuttavia che un ritratto di Fedele d'Amico senza ‘Lele’, senza i tratti forti della sua psicologia, sarebbe un ritratto incompleto.
«Probabilmente saprà che io sono un uomo scortese e soprattutto antipatico», scrisse d'Amico a Luciano Berio (in Nemici come prima, 2002, p. 20). Si direbbe questa un’ironica copertura di un autoelogio (o, appunto, della mitologia corrente su Lele d'Amico), ché d'Amico sapeva di essere tutt’altro che antipatico. Riusciva, invece, quasi sempre simpatico, lucido com’era, spiritoso, paradossale, imprevedibile. Sì, era in certe occasioni impaziente, brusco, troppo deciso, scortese in definitiva, non però ideologicamente intollerante o pregiudizialmente nemico di qualcuno, e soprattutto mai superbo della sua intelligenza. Si attendeva, come fa chiunque, obiezioni e anche contrasti sui suoi giudizi, ma non permetteva fraintendimenti, soprattutto se intenzionali; e con la logica sottigliezza, la forza polemica e il rigore del discorso di cui si è detto poteva essere un avversario temibile. «Io non chiedo nessun rispetto, chiedo soltanto che l’avversario non falsifichi le mie affermazioni, e mi risponda a tono» (ibid., p. 23). Insomma, il dovere di intendere propositi e idee (lui quelle dell’interlocutore e questi le sue), la chiarezza in ogni comunicazione, privata e personale o artistica e impersonale, il rispetto morale del significato, in qualsiasi contenuto, estetico, intellettuale o psicologico, furono le regole secondo cui d'Amico lavorò, comprese, giudicò.
Cominciò a scrivere di musica già prima dei suoi venti anni. Nel 1930 fu il vice di Mario Labroca all’Italia fascista, nel 1931-32 fu critico musicale del Tevere subentrando a Bruno Barilli (sorprendente per maturità una sua recensione del Tristano, 25 febbraio 1932, ora ripubblicata in Scritti teatrali, 1992, pp. 15-17), nel 1932-34 passò all’Italia letteraria a sostituire Luigi Colacicchi, nel 1935 recensì su Pan gli spettacoli del Maggio musicale fiorentino. Nel 1938-41 lavorò all’EIAR (l’ente radiofonico, da cui si dimise quando, promosso di grado, seppe che in certe occasioni avrebbe dovuto indossare la divisa fascista) e nel 1939-43 fu segretario aggiunto nell’Istituto italiano per la storia della musica. Dal 1941 al 1944 accettò da Guido M. Gatti l’incarico di ‘organizzatore musicale’, cioè curatore delle colonne sonore, alla Lux Film, e nello stesso periodo fu membro di redazione della Rassegna musicale. Nel 1943-44 diresse Voce operaia, il settimanale dei cattolici comunisti (che formarono per breve tempo il Partito della Sinistra cristiana). Tenne la critica musicale su Vie nuove nel 1951-54, sul Contemporaneo nel 1954-57, su Italia domani nel 1958-59, sul Paese nel 1960-61, sulla Fiera letteraria nel 1967, e dal 1967 al 1989 sull’Espresso.
Dal 1945 aveva lavorato, insieme al padre e a Mario Corsi (e ad altri, tra cui Fausto Torrefranca e Gabriele Baldini), al progetto di una sostanziosa ma breve enciclopedia dello spettacolo, che nel 1949 cambiò del tutto fisionomia, dilatandosi in una redazione di oltre 30 persone e in centinaia di collaboratori esterni: e fu l’Enciclopedia dello spettacolo, il cui primo volume uscì nel 1954. D'Amico, che tenne la direzione della sezione 'musica e danza’ per i primi quattro volumi fino al 1957, dichiarò in più occasioni che gli anni dell’Enciclopedia furono i principali per la sua formazione alla ricerca storica e all’analisi.
Nel 1946, per male al petto, fu ricoverato in una clinica ad Arosa, in Svizzera.
Tra i suoi maggiori incarichi di quegli anni e dei successivi si devono ricordare la partecipazione al Consiglio direttivo della SIMC (Società italiana per la musica contemporanea) nel 1949-60, alla direzione del periodico Cultura e realtà nel 1950-51, al consiglio di redazione delle edizioni del Saggiatore nel 1958-66. Nel 1967 fu uno dei fondatori, e membro nella direzione, della Nuova rivista musicale italiana, nel 1968-70 fece parte del consiglio direttivo della Società italiana di musicologia. Dal 1963 ebbe la cattedra di storia della musica all’Università di Roma, prima alla facoltà di magistero come docente incaricato, poi come professore ordinario alla facoltà di lettere e filosofia (1978-82).
Nel 1985 fu responsabile artistico del Maggio musicale (furono sue decisioni caratterizzanti la Lulu di Berg data in italiano nella sua traduzione, il Pierrot lunaire di Schönberg eseguito prima senza la voce solista, poi con la cantante).
«Quando ho fatto l’Enciclopedia dello spettacolo [...] cominciai a diventare qualcosa di simile a un musicologo e si delineò la mia fatale specializzazione per l’opera lirica, che non amo più della musica strumentale, anzi. [...]» (in S. Cappelletto, L’etica di d'Amico. Intervista, in Il Giornale della musica, dicembre 1989). E d'Amico continua affermando che i suoi ‘veri amori’ sono «compositori sui quali non ho scritto nulla. Chopin, il periodo compreso tra Mozart e l’ultimo Haydn, e Beethoven, Schubert, Weber, Schumann. Questo è il cuore della mia passione, assieme a molte opere di Bach: ma ai Concerti brandeburghesi preferisco il Clavicembalo ben temperato, le Sonate e Partite per violino e violoncello solo. Un altro musicista seguita a farmi impazzire, Domenico Scarlatti, lo Chopin del Settecento».
Sui suoi ‘veri amori’, dunque, d'Amico non ha scritto nulla (quasi nulla, in verità, ché anche scrivendo d’altro non lasciava occasione per dichiarare la sua devozione a qualcuno di quei geni): ma certo l’impegno maggiore, la sua «fatale specializzazione», fu per lui il teatro musicale, un destino deciso non solo dall’Enciclopedia dello spettacolo, ma anche dalle necessità dei giornali periodici, ai quali d'Amico collaborò per gran parte della sua attività. Sì che fu naturale che la sostanza della sua autorità di critico e la sua fama crescessero con gli innumerevoli suoi scritti sull’opera e sul balletto, per la sua altissima competenza – ‘tecnica’, storica e sociologica – del teatro musicale.
«Fino a tutto il Settecento la musica è cronologicamente, nella vita di ogni musicista, un mestiere prima ancora di essere un’arte. [...] Ma anche nel romantico Ottocento le intrusioni e fecondazioni extramusicali, siano letterarie o grezzamente ‘umane’, cadono sempre sopra un terreno che è, anzitutto, musica. Nel momento in cui comincia a guidare la sua fantasia verso l’espressione vera e propria il compositore è già sicuro di un vocabolario musicale, di una tecnica; sia che li abbia già appresi da un insegnamento scolastico, sia che li abbia raccolti da un artista o da una civiltà preesistenti, a cui è impaziente di dare un suo senso nuovo. Anche i più rivoluzionari, anche quelli che più sembrano aver rotto i legami col passato non sfuggono a questa legge. [...] È in tutti, insomma, la presenza di un gusto, e di un gusto puramente, quasi fisicamente musicale, prima della presenza di una capacità creativa concreta, di un’attitudine a produrre forme precise»: così scrisse in Modesto Musorgskij (Torino 1942, pp. 17 s.), e così seguitò a credere per il resto della sua vita.
Nei suoi lavori si può riconoscere un metodo generale più o meno costante, e cioè la descrizione dei caratteri sociali, dei valori e delle forme della vita artistica nell’epoca in esame, che è la cosiddetta ‘collocazione storica’, entro cui egli spiegava i caratteri del singolo talento creativo in relazione dinamica (di ricevere e di dare) con la realtà del tempo. L’identificazione dei valori artistici e sociali in un artista e nella sua età era per d'Amico un atto di conoscenza ma soprattutto un’attitudine morale. E ‘morale’, il sostantivo e l’aggettivo, è la parola che torna con maggiore frequenza nei suoi scritti, perché per lui l’esperienza dell’arte, quale che ne fosse il modo, e il giudizio dovevano essere conferma di una sensibilità umana. Dovevano essere, appunto, un atto morale, un nostro pensiero personale verso chi condivide con noi bisogni, gusti, attese, nello studio e nell’analisi e nell’attualità quotidiana, in concerto, cioè, e a teatro, con un buon sostegno di convinzioni mentali, decisioni, opposizioni e difese. In definitiva, la tesi del rapporto dialettico tra le forme correnti dello stile e l’impulso creativo individuale, tra tecnica, dunque, linguaggio, e singola attitudine formale, è stata in d'Amico la premessa di ogni lavoro, stimolata e nutrita in lui da una genialità di sintesi concettuale ed espressiva ancora ineguagliata. La premessa in sé non era nuova (è nucleo della maggiore storiografia musicale dell’Ottocento in lingua tedesca), ma in d'Amico trovò voce con speciale energia, forse perché concepita e messa in atto nei decenni della teoria crociana dell’irriducibilità dell’arte a nulla altro che a sé stessa. Il che d'Amico non credette mai, con qualche occasione di prudente contrasto con l’amico ‘crociano’ Massimo Mila, il quale, pur intelligente e profondo com’era, alla ‘tecnica’ pratica, per esempio, cioè all’esecuzione in sé e agli interpreti, assegnava un limitato interesse: mentre per d'Amico un grande interprete era una sicura mediazione al giudizio storico sulla musica. Quasi sempre infatti l’analisi di un’interpretazione, del passato o di oggi, avviava o chiudeva in sintesi la sua analisi dell’opera.
Stendere la spiegazione di una musica o riferire di una esecuzione significava, dunque, per d'Amico rimeditare, per disteso o in allusione, nella storia e in ogni lavoro per sé, i valori dell’arte nei tre grandi secoli, dal Sei all’Ottocento (della polifonia rinascimentale non ebbe occasione di occuparsi, pur molto ammirandola), poi le cause e le forme della crisi del linguaggio musicale nel Novecento, che per lui era la crisi delle poetiche musicali romantiche (a cui riservava, si è visto, «il cuore della sua passione») e il decadimento di una visione umanistica del mondo.
E proprio crisi e decadimento ‘moderni’ sentì suo dovere e sua passione studiare di più e con maggiore insistenza che i venerati romantici, al punto che, se non fosse stato per gli operisti dell’Ottocento, gli studi di d'Amico sarebbero saltati da Mozart e Beethoven direttamente (passando per Brahms ‘classico’, cfr. Un ragazzino all’Augusteo, 1991, pp. 139-142) a Debussy, Stravinskij, Schönberg. In mezzo all’Ottocento c’è, sì, Berlioz, su cui d'Amico tornò con un interesse speciale (e con speciale simpatia di là dall’ammirazione), ma per d'Amico Berlioz era un caso a sé, un’anticipazione della crisi novecentesca quanto a divaricazione tra contenuti e mezzi musicali, concepiti questi non senza il pubblico, ma contro il pubblico. Il contrario di Wagner, il cui immenso genio musicale, indiscutibile anche per d'Amico, rinnovò il pubblico e i modi dell’ascolto rifondendo in pura musica drammaturgiche dismisure, dalle quali egli si sentiva lontano.
Gli operisti, infatti, dell’Ottocento ai quali dedicò interesse costante sono drammaturghi d’istinto, poeti ‘naturali’ della musica drammatica, Verdi, cioè, Musorgskij e Bizet. Quello che d'Amico si attendeva dalla scena musicale e dalla parola cantata, lo aveva trovato in loro da quando era ragazzo. Ognuno di quei grandi aveva sentito a suo modo e aveva compiutamente espresso lo spirito della cultura in cui era nato; o, meglio, ognuno era stato solidale con l’anima del suo popolo: si trattava di una solidarietà tutta umana, cioè ‘morale’. Anche nel Novecento ammirò e studiò forti musicisti ‘morali’ come Janáček, Bartók, Šostakovič, nei quali credeva sopravvivesse, pur tra angosce e rivolte interiori, uno spirito di comunità, un’intesa con i molti.
Dopo di allora, come abbiamo detto, la crisi: delle estetiche, delle ‘poetiche’ (degli ideali di arte che ogni artista si figura), dei mezzi espressivi, una generale crisi dell’umanesimo che ha frantumato la solidarietà e con ciò la naturale ‘collaborazione’ tra artista e pubblico.
In d'Amico le agguerrite riflessioni socioeconomiche furono tutt’uno col lavoro di critico musicale. Sulle origini dell’enorme disagio sociale e ideale nel mondo intero, e non in un’area civile circoscritta, non ebbe dubbi. Per lui il disagio, da economico come era all’origine, era diventato antropologico: «Il mondo oggi è quello che è, cioè una cosa orrenda. Tutti i valori sono alienati all’‘immagine’, al successo, ai miti della civiltà di massa; e questo non è soltanto qualcosa con cui ci scontriamo soltanto quando ci mettiamo a considerarlo, ma ci viene addosso attraverso il linguaggio, il gergo ormai coloniale che ha reso non solo la stampa, ma il colloquio quotidiano, un formulario di metafore tali da rendere tutto omogeneo e inarticolato [...]» (lettera a Arnheim, 9 luglio 1989 in Eppure, forse, domani, 2000, p. 176). Tale era la tetra conclusione (d'Amico aveva allora 77 anni) di un sistema di pensieri che lo accompagnava da trent’anni, da quando si diceva convinto che il valore di scambio, cioè il principio innaturale del commercio e del consumo, stava sostituendo sempre e da per tutto, e non solo nel capitalismo in disfacimento, il valore d’uso, che è la relazione naturale tra oggetto e bisogno umano. Questo ferisce l’arte e la musica in particolare, ma non può sopprimerla. Se in una società ordinata solo per l’imbonimento pubblicitario e per il consumo ogni valore in sé, morale o estetico che sia, è ridotto a valore di scambio, e se questa società sa imporre un valore non solo a prodotti scadenti (canzonette da festival) ma anche a prodotti inesistenti (i giochi nichilistici delle avanguardie radicali), allora diventa sempre più arduo ‘vivere’ un’esperienza estetica. Ma per d'Amico non impossibile, come invece sosteneva Theodor W. Adorno.
Infatti anche nel suo finale scoraggiamento d'Amico non intendeva cessare di confutare la negazione indeterminata e assoluta, non dialettica: un’eresia per lui che era un umanista dialettico nei pensieri e nell’animo. Contro la nota tesi di Adorno secondo cui l’alienazione dei valori nel mondo moderno sarebbe irreversibile, egli fermamente credeva che l’arte abbia un compito ‘positivo’, quello di ritrovare il filo della comunicazione, i termini che possano avviarsi a ricostituire un linguaggio. Con questo non pensava, certo, a una ‘nuova’ classicità, sebbene non cessasse di vedere in Stravinskij un artista oggi ineguagliabile, in ogni sua metamorfosi stilistica, e di ammirare nelle costruzioni di musica pura di Hindemith e nelle coreografie neoclassiche di Balanchine un esempio nutriente di disciplina e perfezione. Il ‘positivo’, il modo di dare voce a un’idea attuale di uomo, d'Amico li trovava anche in musicisti di linguaggio complesso e a momenti problematico, angoscioso, centrifugo, come Britten e Henze, due artisti tra i maggiori del nostro presente. Per musicisti come loro un termine almeno dell’espressione è pur sempre un contenuto da esprimere, da comunicare, un significato che prevede un pubblico e un ascolto solidale. Per la teoria e la pratica dell’avanguardia, al contrario, tutta la musica che non si sottrae all’ascolto ‘naturale’ rappresenta residui inerti e inutili, che non appartengono all’‘oggi’. Ma contro gli esponenti di poetiche negative e contro i loro patrocinatori dogmatici d'Amico sosteneva che ogni musica scritta oggi dà voce ai bisogni del presente, esigenti o modesti che essi siano, e che nessuno ha il diritto di fissare un calendario della legittima ‘modernità’: di qui le coraggiose difese di musiche di Barber, Menotti, Rota e altri (e da ciò le irritazioni di molti, per esempio di un artista intelligente che ebbe grande stima di d'Amico quale fu Berio). Ma anche questo laborioso contrasto sostenuto da d'Amico, come anche un altro ‘conflitto’ di cui si dirà subito, si è dissolto nel tempo, né c’è ormai più chi legifera sui caratteri legittimi della musica di oggi.
I due punti centrali, e i più discussi, dell’attività critica di d'Amico a sostegno del significato nella musica contro l’astratta supremazia del significante furono: la tesi secondo cui l’opera si deve cantare nella lingua del paese in cui si esegue e non nella sua versione originale; la tesi secondo cui la dodecafonia seriale sia non un mezzo linguistico bensì un’astrazione, un espediente privato del compositore, una grammatica incapace di organizzarsi in senso, essendo in noi la percezione dei suoni, o meglio la percezione dei loro nessi reciproci, naturalmente ‘tonale’. Furono due ‘campagne’ condotte da d'Amico con una partecipazione personale che parve ad alcuni eccessiva, e fu soprattutto questo il suo impegno morale, a tutela della verità.
Nel primo caso era oggettivamente evidente per d'Amico che un canto comprensibile a tutti gli ascoltatori garantisce non solo l’immediatezza della percezione in chi ascolta, diretta e non strabica, tra significato (ciò che è ‘detto’) e significante (la parola cantata), ma anche la naturalezza dell’interpretazione in chi è in scena. Un cantante è infinitamente più spontaneo quando canta nella sua lingua, e alla maggior parte di un pubblico ignaro della lingua un’opera in tedesco o in russo o in moravo non dice nulla (cfr. La cosiddetta versione autentica, in Un ragazzino all’Augusteo, 1991, pp. 220-225). Nella sua certezza d'Amico vantava alleati di grande autorità quali Rossini, Verdi, Wagner, Puccini, Berg, Henze. Ma la causa che per d'Amico doveva essere una causa vinta già solo col buon senso, è finita come causa persa. La questione, già indebolita con gli anni, si è estinta da sola per ragioni oggettive (soprattutto per il fatto che il ‘mercato’ degli interpreti d’opera è ormai tutto internazionale, e, per esempio, un tenore che conosce il Tristano in tedesco o un basso il Boris in russo non lo studiano di nuovo in italiano), e su di essa non si è tornati più.
Più complicata è la questione della musica seriale, anche perché si intreccia con la tesi secondo cui la musica sarebbe soggetta, come le altre arti, a un ‘naturale’ logoramento del linguaggio, a causa del quale ogni mezzo espressivo esaurisce le sue energie (è il dogma del nuovo per il nuovo, su cui si fondano l’avanguardia e i modi della persuasione commerciale): sì che il linguaggio musicale romantico si sarebbe disgregato dal suo stesso interno sfociando per inevitabile necessità nell’esasperazione e nella tragica vertigine della musica espressionista. Che una patologia mortale sia destino di ogni linguaggio fu per decenni la verità delle avanguardie, imposta per indiscutibile, e che d'Amico invece tenacemente discusse, denunciandola come ideologia della protesta assoluta, cioè insignificante e vana. Oggi si direbbe che quell’ideologia e l’autorità in cui si celava si siano dissolte (e che dunque questa battaglia non sia stata persa). Ma secondo l’esegesi corrente, sul ‘disordine’ delle sue prime opere espressioniste Schönberg impose un ordine completamente nuovo, una razionalità costruttiva (la serie di dodici note e le sue trasformazioni regolate), un’invenzione che confermava e nello stesso tempo vincolava l’autonomia espressiva. Edificava, dunque, nella grande tradizione austro-tedesca senza costringere lo spirito di protesta: un linguaggio all’altezza dei propositi ideali di rinnovamento radicale e degno della rivolta alla tragicità del presente (secondo Adorno). All’esegesi generalmente condivisa d'Amico si opponeva, come si è detto, negandone le premesse prime, cioè le affermazioni che ogni linguaggio scada a meccanismo inerte e che quindi sia destinato a completamente rinnovarsi dall’interno; e che la ‘serialità’ sia il mezzo linguistico dell’innovazione e non, come d'Amico diceva fosse, un’astrazione in sé ‘insignificante’, imposta alla musica dall’esterno, un mito fatto passare per realtà, un espediente pratico con cui si può rappresentare tutto (cfr. La serie è un’altra cosa e Da Schönberg al nichelino, ibid., pp. 169-192).
Con la stessa sollecitudine, e con pari competenza e correttezza analitica, d'Amico si incaricò di confutare le conseguenze di questi primi enunciati dell’avanguardia espressionista, rappresentate dalle tendenze estremistiche delle avanguardie radicali, la tendenza ideologica e politica (per es. Luigi Nono), la razionale e astratta (per es. Pierre Boulez) e l’informale pura (per es. John Cage). Anche di questa battaglia intellettuale e, una volta di più, morale di d'Amico, da lui lucidamente affrontata, non c’è stata una fine. Una delle conseguenze prevedibili dei procedimenti avanguardistici estremi si presentava come definitiva negazione del suono, il non-suono, la non-musica: quello che la coscienza di d'Amico temeva. Ormai non sembra che ci sia qualcuno che voglia confermare o smentire il pericolo.
Morì a Roma il 10 marzo 1990.
Di tre suoi lavori, giovanili ma non insignificanti (Gioacchino Rossini, Torino 1938; Modesto Musorgskij, ibid. 1942; Goffredo Petrassi, Roma 1942) d'Amico non permise una nuova edizione. Degli innumerevoli saggi, studi, articoli, conferenze egli curò personalmente due sole raccolte: I casi della musica, Milano 1962, e Un ragazzino all’Augusteo, Torino 1991 (uscito postumo a cura di F. Serpa). Nel 1977 ebbe la curatela, per Il Saggiatore, del volume Lo sguardo lieto. Tutti gli scritti sulla musica e le arti di Ferruccio Busoni (con, in allegato, lo scritto di Busoni Sulla trascrizione per pianoforte delle opere per organo di Bach); per lo stesso editore curò l’edizione italiana dell’epistolario di Musorgskij (Musica e verità, 1981). Dei molti lavori di cui si è appena detto sono almeno da ricordare un'antologia di scritti di Berlioz, curata da d'Amico col titolo L'Europa musicale da Gluck a Wagner, Torino 1950; Il 'Ballo in maschera' prima di Verdi, in Bollettino dell'Istituto di studi verdiani, Parma 1960 (ripubblicato con ritocchi nel 1971 in Chigiana, XXVI-XXVII, n.s. 6-7, pp. 501-583); la voce H. Berlioz nell'enciclopedia La Musica, I, Torino 1966, pp. 479-495; Berlioz cent'anni dopo, in Chigiana, XXVI-XXVII, n.s. 6-7, Firenze 1971, pp. 77-103 (poi in Un ragazzino all’Augusteo, pp. 111-138); Note sulla drammaturgia verdiana, in Colloquium Verdi-Wagner, Rom 1969, Köln-Wien 1972, pp. 272-289 (poi ibid., pp. 41-58).
Postumi sono usciti: Scritti teatrali, a cura di R. Garavaglia - A. Sinigaglia, prefazione di G. Lanza Tomasi, Milano 1992; Il teatro di Rossini (ristampa, presentata da G. Pestelli, delle dispense di un corso universitario), Bologna 1992; Tutte le cronache musicali. «L’Espresso», 1967-1989, a cura di L. Bellingardi - S. Cecchi d’Amico - C. d’Amico, prefazione di G. Pestelli, I-III, Roma 2000; L’albero del bene e del male. Naturalismo e decadentismo in Puccini, a cura di J. Pellegrini, prefazione di E. Siciliano, Lucca 2000 (ristampa di 19 saggi su Puccini, usciti in epoche e occasioni diverse); Forma divina. Saggi sull’opera lirica e sul balletto, a cura di N. Badolato - L. Bianconi, prefazione di G. Pestelli, I-II, Firenze 2012 (saggi pubblicati dai teatri nei programmi di sala).
Le edizioni universitarie di Roma E. De Santis hanno pubblicato le dispense dei corsi tenuti nel 1963-64 (La sinfonia e Beethoven, ristampato in parte in Ludwig van Beethoven, le nove sinfonie, Roma-Salzburg 1995, pp. 9-35, come introduzione al voluminoso programma del ‘festival Beethoven’ dell’Accademia di S. Cecilia) e nel 1967 (Haydn, Mozart, Beethoven e la sinfonia); le edizioni Elia i corsi del 1971 (Attorno al ‘Don Giovanni’ di Mozart, ristampato nel 1977 e 1979) e del 1974 (L’opera teatrale di Gioacchino Rossini). Presso Bulzoni è uscito il corso del 1978-79 (Su alcune poetiche musicali del primo Novecento e i loro antecedenti) esempio raro di informazione e di esattezza ed essenzialità concettuali su temi difficili e controversi; e un testo per il corso del 1980-81 intitolato Integrazioni a ‘Il teatro di Mozart’ di E.J. Dent.
Sono uscite due raccolte di lettere di d'Amico, con Rudolf Arnheim, Eppure, forse, domani: carteggio 1938-1990, a cura di I. d’Amico, introduzione di F. Serpa, Milano 2000, e con Luciano Berio, Nemici come prima: carteggio 1957-1989, a cura di I. d’Amico, introduzione di E. Restagno, Milano 2002.
D'Amico ha composto le musiche di scena per Il cacciatore d’anitre di Ugo Betti (Milano, teatro Manzoni, 24 gennaio 1940, regia di Orazio Costa) e per Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov (Roma, teatro Quirino, marzo 1943, regia di Guido Salvini). Ha tradotto per le esecuzioni in italiano circa 40 tra libretti d’opera e testi drammatico-sinfonici, tra cui Il ladro e la zitella, Il telefono, La medium, Il console, Maria Golovin, La santa di Bleecker Street e La morte del vescovo di Brindisi di G.C. Menotti, Vanessa e La spiaggia di Dover di S. Barber, Wozzeck e Lulu di A. Berg, Ascesa e caduta della città di Mahagonny e Surabaya Johnny (da Happy End) di K. Weill, Re Cervo, Il giovane Lord, I bassaridi di H.W. Henze, Capriccio di R. Strauss, La congiura delle donne ovvero Astuzia di mogli e saggezza di mariti di F. Schubert, Le avventure della volpe Briscola di L. Janáček, Il mulatto di J. Meyerowitz, Chovanščina di M. Musorgskij, La notte di Natale, Il gallo d’oro e La bojara Vera Šeloga (prologo della Fanciulla di Pskov) di N. Rimskij-Korsakov, Il naso di D. Šostakovič, Erwartung e Il superstite di Varsavia di A. Schönberg, Il diluvio di I. Stravinskij, The Golden Vanity di B. Britten, Jona ging doch nach Ninive di W. Vogel, la cantata Ulysses di M. Seiber (da Joyce), e le canzoni da My fair lady di A.J. Lerner e F. Loewe. Infine ha preparato, dal Talmud babilonese, il testo per la cantata I rabbini di J. Meyerowitz. Per il Maggio musicale del 1967 ha tradotto l’Egmont di Goethe: ma restò scontentissimo della regia di Luchino Visconti, di cui pure era amico e aveva grande stima; la delusione, su cui pensò per mesi, gli dettò alla fine una lunga lettera al regista, che è uno dei suoi scritti teorici più significativi (ora in Un ragazzino all’Augusteo, 1991, pp. 19-27).
Nei primi quattro volumi dell’Enciclopedia dello spettacolo ha scritto le voci: abbellimenti, H. Abert, a cappella, accento, J.-B. d’Alembert (la musica), I. Albéniz, F. Algarotti, A.W. Ambros, P. Anfossi, F. Anitúa, E. Ansermet, appoggiatura, aria (con A. Ferdinandi), S. Arteaga, bacchetta, ballata (la musica), F. Ballo, B. Barilli, L. Bassi, basso (con R. Maragliano Mori), G. Bastianelli, bel canto, V. Bellini, M. Benedetti, F. Benucci, H. Berlioz, F. Betz, G. Bizet, A. Boito, P. Bondini, A. Boschot, S. Bruscantini, V. Bucchi, F. Busoni, E. Caruso, A. Casella, F. Cerrito, A. Cicognini, compositore (con C. Sartori), G. Confalonieri, P. Cornelius, L. Dallapiccola, F. d’Amico, G. d’Annunzio (la musica), danseur noble, danza accademica, danza libera, L. da Ponte, G. David, A. Della Corte, F.-A.-N.-C. Delsarte, D. De’ Paoli, Ed. Devrient, S. Diaghilew, D. Diderot (la musica), divertissement (balletto), dramma musicale, editoria musicale (con C. Sartori), élévation, F. Elssler, J.J. Engel, entrechat, entrée, A. Erede, espressionismo (l’opera, il balletto), evirato, M. de Falla. Contributo di valore superiore per respiro storico e rigore analitico è la voce canto (con R. Celletti per Otto e Novecento; ristampata in appendice a Il teatro di Rossini, cit.), in cui d'Amico stesso vedeva uno dei suoi lavori più solidi e duraturi, anche perché la stesura aveva confermato in lui l’importanza generale di una competenza ‘tecnica’ in chi fa storia della musica e del costume musicale. Per d'Amico, e non solo per lui, che però non si stancava di ripeterlo, non solo la tecnica è per l’artista l’unica via per conoscere e dominare la materia musicale, ma la conoscenza tecnica delle forme e dei modi in cui la musica vive è per lo storico e il critico una via obbligatoria per comprendere la vita della musica e la sopravvivenza delle sue tendenze di là dalla loro epoca specifica.
Nella ricorrenza del primo anno della morte di d'Amico la Società italiana di musicologia ha pubblicato una sostanziosa raccolta di studi in suo onore, Musica senza aggettivi, a cura di A. Ziino, I-II, Firenze 1991.