fedeli d'amore
d'amore. A tutti li fedeli d'Amore invia D. il sonetto A ciascun'alma, che è il primo accolto nella Vita Nuova (III 10-12). Nel sonetto si espone la maravigliosa visione apparsa al poeta sopraggiunto da soave sonno (§ 3), il giorno che per la prima volta Beatrice, per sua ineffabile cortesia, lo aveva salutato molto virtuosamente, sicché gli era parso vedere tutti li termini de la beatitudine; e si ritira allora il poeta nel solingo luogo di una sua camera e si pone a pensare della cortesissima; e gli par di vedere in una nebula di colore di fuoco una figura d'uno segnore di pauroso aspetto che molte cose dice, delle quali poche il poeta intende, in particolare queste: " Ego dominus tuus ". Nelle braccia del pauroso signore dorme una persona ignuda, avvolta d'un drappo sanguigno, in cui riconosce D. la donna della salute che si era degnata di salutarlo. Il signore tiene in una mano una cosa la quale ‛ ardeva ' tutta e pareami che... dicesse queste parole: " Vide cor tuum " (§ 5); e sveglia quella che pareva dormisse e la forza a mangiare la cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente. Non importa il resto della visione: quel che importa è la rappresentazione del ‛ pauroso signore ' che proclama ego dominus tuus e tiene in mano il cuore ardente del poeta.
Nel sonetto il segnore misterioso del racconto in prosa è senz'altro Amore (m'apparve Amor subitamente [v. 7]; Amor tenendo / meo core in mano [9-10]); che è segnore di ciascun'alma presa, di tutti gli amanti e di tutti i cuori gentili, essendo amore e cor gentile una cosa sola, secondo la formula guinizzelliana, derivata da Andrea Cappellano e ripresa da D. (Amore e 'l cor gentil sono una cosa). La prima quartina del sonetto è la spiegazione certa e autentica della formula usata nella razo: propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io salutasse tutti li fedeli d'Amore; e pregandoli che giudicassero la mia visione, scrissi a loro ciò che io avea nel mio sonno veduto (§ 9). ‛ Fedele ', vassallo, uomo ligio, è chi ha fatto dedizione della sua persona al signore e gli ha prestato l'omaggio; e nel linguaggio dei trovatori, che l'amore intendono e rappresentano come ‛ servizio ' prestato alla dama (midonz, dominus meus), usando i termini propri del diritto feudale, fizel è l'amante che della dama (che lo ha investito del feudo del suo cuore) è, appunto, l'" uomo ligio ", il vassallo che della sua persona ha fatto completa dedizione, e al signore presta intero il suo servizio. Fizel, vassallo; fedeli d'Amore gli amanti, che servendo la dama - la " signora ", in senso feudale - servono Amore, il signore supremo, di cui anche la dama è vassalla; tutti li fedeli d'Amore sono tutte le anime prese d'amore (ciascun'alma presa); tutti i cuori gentili, i nobili cuori sui quali Amore regna.
La formula, che è dunque solo puntuale applicazione del linguaggio tecnico dai trovatori provenzali e dai loro continuatori italiani impiegato a rappresentare ed esprimere la concezione dell'amore come ‛ servizio ', o vassallaggio, è stata assunta, secondo il Valli, come nome di un'associazione segreta, di cui sarebbero partecipi tutti o quasi tutti i lirici italiani delle origini, assertrice di un ideale programma di rinnovamento della Chiesa e di tutta la società cristiana; programma che non si potrebbe senza rischio di gravi persecuzioni o repressioni apertamente proclamare; per cui, necessariamente, i partecipi della setta devono ricorrere a un " linguaggio segreto ", una specie di gergo massonico, comprensibile solo agl'iniziati. La tesi si colloca in quella corrente di studi per cui tutta la letteratura cortese dei secoli XI-XIII - lirica e narrativa romanzesca - si pone come manifestazione dell'esigenza eroica di spiritualizzazione della società cristiana, come espressione di un sogno, di un'idea suprema di redenzione: nella letteratura cortese verrebbero a confluire e sarebbero trasfigurati in grandi immagini i solenni messaggi e i fervidi moti di riforma e le esplosioni ereticali e le generose utopie che scuotono, in quei secoli, il mondo cristiano e conducono a momenti di crisi acute, ogni volta che le vicende temporali trascinano la Chiesa, le gerarchie ecclesiastiche, le comunità monastiche - insomma tutte le istituzioni che avrebbero dovuto asserire e diffondere nel secolo il Regno di Dio - troppo lontano da quelle che erano le esigenze non solo dei grandi santi, ma anche dei comuni fedeli. Sogni basiliani, visioni scotiste, ideali montaniani, visioni bernardiane, cisterciensi e vittorine, proposizioni catare e albigesi, utopie gioachimite starebbero dietro le grandi immagini dei lirici e dei romanzieri cortesi e conferirebbero a quelle immagini significazioni e valori profondi. Come anelito verso un'era nuova dell'umanità, alla quale il mondo cristiano arriverà elevandosi a un supremo grado di perfezione, si pone - in questa corrente di studi - la dottrina cortese dell'amore che sembra riflettere motivi essenziali della dottrina mistica dell'amore elaborata dai vittorini; e come idea letteraria derivata dall'insegnamento mistico di s. Bernardo si pone, in generale, la " cortesia ", cioè quella particolare concezione del mondo e della vita che per primi proclamano i trovatori provenzali e in grandi figure umane - Lancillotto, Perceval, Galahad - è tradotta nei romanzi arturiani in versi e in prosa.
Tutta la letteratura cortese si pone come espressione delle correnti ereticali e ribelli che esplodono nel sec. XII e contro le quali si esercita violenta l'azione repressiva delle forze cattoliche; sicché solo con linguaggio emblematico e mistico possono, nella letteratura cortese, manifestare solennemente i loro ideali e le loro imperiose esigenze tutti coloro che vógliono eroicamente combattere per la redenzione e la purificazione della società dei fedeli, per l'avvento del Regno. Così, tutta la grande letteratura cortese, d'oc e d'oïl, è ridotta a puro strumento di propaganda religiosa, in senso eterodosso, a un complesso, quasi, di trattati di pedagogia ascetica, di manifesto di un programma di rinnovamento del mondo cristiano, di rinnegamento e di contestazione della Chiesa carnale e corrotta.
In questa corrente di studi si colloca la dottrina del Valli sulla setta dei ‛ fedeli d'amore ': oppositori risoluti della Chiesa romana non in quanto appartenenti alle correnti ereticali, eterodosse di cui abbiamo parlato, ma in quanto, tutti, fieramente ghibellini: e si sa che il ghibellinismo, che proclama l'esigenza della liberazione della Chiesa da tutte le implicazioni d'interesse politico, temporale, mondano può collocarsi tra le grandi correnti riformistiche, di cui le ribellioni ereticali sono altra manifestazione. Tutti ghibellini e ghibellineggianti, dunque, secondo il Valli, i poeti italiani delle origini: Federico II e la sua corte, fieramente antipapali; fieramente antipapali il maestro bolognese di poesia, il Guinizzelli, padre di quanti usarono leggiadre rime d'amore; nati in ambiente guelfo i poeti del gruppo fiorentino, ma tutti di Parte bianca e passati poi tutti agl'ideali imperialistici, anticlericali. Francamente guelfo Guittone: ma ecco, appunto, il disprezzo per l'aretino di D. e degli altri ‛ iniziati ' . Queste affermazioni del Valli stanno contro indiscutibili dati di fatto, come ha mostrato il Sapegno: non tutti, in realtà, ribelli alla Chiesa mondana e temporale e assertori dell'idea imperiale i poeti italiani del secolo XIII. Guelfo il Davanzati; guelfo Guido Orlandi, che pure al Valli sembra campione acceso del supposto movimento settario; guelfo Nicolò de' Rossi il quale, come lo stesso Valli deve riconoscere, scrive sonetti in lode di Giovanni XXII, di colui che mette il loglio fuori dell'arca, che asserisce la validità dell'interpretazione conventuale della regola del Serafico e insomma rappresenta la nozione ecclesiastica trionfante del francescanesimo spirituale. Non può essere, dunque, il ghibellinismo la nota che conferisce unità al preteso movimento settario; e allora resta solo l'oscurità dello stile a giustificare l'ipotesi valliana di un linguaggio segreto, dai poeti italiani delle origini impiegato per manifestare la loro fede senza incorrere nei rischi della repressione e della persecuzione. Afferma il Valli che anche ai trovatori provenzali la qualità dello stile può essere assunta come discriminante tra gli ortodossi e gli eretici: dei trovatori, quelli " favorevoli al papa " usano sempre uno stile semplice e chiaro; sospetti di eresia e antipapali, invece, i trovatori del " chiuso trovare " e delle " caras rimas ". In questa distinzione, secondo il Valli, è da cercare la ragione dell'esaltazione dantesca di Arnaldo Daniello contro Giraldo di Bornelh; settario il primo, oscuro; ortodosso il secondo, nitido e semplice. E in questa distinzione, ancora, sarebbe da vedere la giustificazione dei severi giudizi pronunciati da D. contro Guittone nel Purgatorio e nel De vulg. Eloq. e dal Petrarca - anche il Petrarca, così come il Boccaccio, sarebbe " certamente ", se non proprio membro attivo, consapevole della setta e simpatizzante per essa - nei Trionfi: la semplicità grossolana di Guittone lo rivelerebbe estraneo al movimento settario e al simbolismo iniziatico; di qui il disprezzo per lui degl'iniziati, dei Fedeli. Queste proposizioni sono tutte assolutamente arbitrarie e denunciano un'assoluta incomprensione della vera essenza e realtà della lirica illustre romanza inaugurata dai trovatori provenzali. L'ermetismo, il " chiuso trovare " che è nota fondamentale di gran parte della lirica trobadorica deriva unicamente dall'austera coscienza artistica dei trovatori, i quali affermano che la poesia nasce da una disciplina severissima, dalla conquista eroica della ‛ forma ' perfetta, remota dai modi comuni e consueti; dipende, cioè, dall'esigenza, che è di tutti i trovatori, di un'arte pura e raffinata, che deve innalzarsi al di sopra del volgare, del plebeo. Ed è un'esigenza che nasce, effettivamente, da una fede; ma non da una fede politica o religiosa, bensì da quella che il De Lollis ha felicemente indicata come " fede nell'arte ", come " religione dell'arte ", religione di cui tutti i trovatori sono sacerdoti: la " forma " è, com'è stato scritto, per i trovatori quasi una divinità remota e inaccessibile, cui il poeta dedica devoto tutta la sua vita; sicché l'impegno artistico è, dai trovatori, rigorosamente sentito come impegno morale. Dal culto della forma nasce l'esigenza del ‛ chiuso trovare ': che comporta l'elezione di parole rare o assunte in senso diverso da quello comune e la ricerca di un costrutto elaborato e complesso (il ‛ gradus constructionis excellentissimus ' da D. teorizzato in VE II VI 6), che vale a distinguere il discorso poetico dal discorso comune e rende il discorso poetico accessibile solo agl'iniziati; ma iniziati non a una setta politica religiosa, bensì all'arte altissima e solenne, assolutamente separata dal comune, dal volgare. Il disdegno di D. per Guittone (come il giudizio del poeta su Giraldo di Bornelh) dipende solo da ragioni artistiche, non dal fatto della non appartenenza di Guittone alla setta, come bene hanno inteso gli antichi commentatori, per esempio Benvenuto: " [Guittone] bonas sententias invenit, sed debilem stilum ". Il Valli giudica senza valore la testimonianza degli antichi commentatori; perché essi, se partecipi della setta, non svelerebbero quel che deve restare segreto, e se estranei alla setta, non sarebbero in grado di decifrare il gergo degl'iniziati; e persino nel limpidissimo giudizio pronunciato in VE II VI 8, così perfettamente coerente a quello messo in bocca al Guinizzelli in Pg XXVI, subsistant igitur ignorantiae sectatores Guictonem Aretinum et quosdam alios extollentes, nunquam in vocabulis atque constructione plebescere desuetos, trova, mediante un'acrobatica interpretazione, la conferma della sua dottrina, vedendo nella formula ignorantiae sectatores sottintesa una contrapposizione: " sapientiae sanctae sectatores ", un'allusione, cioè, alla non appartenenza di Guittone e dei suoi ammiratori alla setta dei fedeli d'amore, dei poeti, cioè, che misticamente raffigurano nelle loro mirabili donne la Santa Sapienza, di cui non più poteva essere depositaria la Chiesa carnale e corrotta... Ma l'espressione in vocabulis atque constructione plebescere evidentemente condanna solo la qualità dello stile di Guittone, che è rimasto fermo ai modi plebei e facili, così come non si è mai scostato dai modi del suo volgare municipale; non ha mai cercato cioè quel costrutto venusto ed eccelso che D., continuatore, come poeta e come teorico della poesia, del maggior trovatore, ritiene strumento necessario della grande poesia d'arte.
Bibl. - L. Valli, Il linguaggio segreto di D. e dei " Fedeli d'Amore ", Roma 1928 (e si veda anche il volume di replica ai critici Discussioni e aggiunte, Bologna 1930); A. Ricolfi, Studi sui Fedeli d'Amore, Genova 1940; A. Viscardi, Settarismo e letteratura nel Medio Evo, in " Rivista di Sintesi Letteraria " I (1934) 30 ss.; A. Del Monte, Studi sulla poesia ermetica medievale, Napoli 1953; ID, Civiltà e poesia romanze, Bari 1958.