CAMMARATA, Federico Abbatelli Cardona conte di
Appartenne a famiglia nobile di origine toscana il cui cognome nelle carte della fine del Quattrocento non ha ancora grafia stabile e alterna la forma più comune "Patella" con le altre "a Patellis" e "Abbatellis". Nacque quasi certamente a Palermo verso il 1460 dal secondo matrimonio di Francesco, secondo conte di Cammarata. Nel 1485 ricevette investitura per la baronia di Sambuca, acquistata da Giangiacomo Ventimiglia e in seguito venduta, e nel 1491, secondo il De Spucches, fu nominato capitano generale delle armi per combattere gli infedeli che infestavano le coste dell'isola di Malta. Sposò Margherita, giovane figlia di suo fratello Antonio, e alla morte di costui gli succedette "iure Francorum" nel possesso del titolo e dei feudi; ebbe l'investitura il 23 nov. 1503.
Diversi documenti attestano che negli anni seguenti il C. fu preso da gravi cure patrimoniali. Nel 1504 fu impegnato in una fornitura di 500 salme di grano all'armata spagnola nel Napoletano e nel maggio dello stesso anno estinse un debito di 908 onze contratto qualche tempo prima. Il 3 maggio 1507, con privilegio reale, ottenne "licentiam [ ... ] castra Petre de Amico et Motta [ ... ] inhabitata et depopulata populari facere seu [ ... ] in ipsis construere seu construi facere habitaciones novas" (Protonotarodel Regno, vol. 214, ff. 341-344) e nell'agosto successivo entrò in trattative con tale Giorgio Bracco, milite, per vendergli per 9.000 fiorini i feudi di Chinieni, Laso, Chalorando e Manganaro posti nella sua contea. Poi l'affare non si concluse ed il C. si dovette contentare di un prestito di 8.000 fiorini dietro cessione di una rendita annua di 112 onze. Questo non dovette essere un periodo felice per le finanze del C. e infatti il 1º ag. 1508 vendette per 500 onze - pari a 4.000 fiorini - i feudi Lo Voltano e Bonarioti e l'anno appresso (il 30 maggio 1509) contraeva un debito di 8.000 fiorini con gli eredi del banchiere Battista Lambardi, cedendo, anche questa volta, una rendita annua di 112 onze. Nello stesso mese il C. ottenne un risolutivo intervento del viceré in una questione sorta con alcuni cittadini di Castronovo che prelevavano acqua da un fiume che forniva energia alle macine di tre mulini di sua proprietà e che correvano il rischio di restar fermi per la diminuzione di portata del corso d'acqua con grave danno degli abitanti della contea e dei paesi vicini, che gravitavano su di essi per la macinazione del grano.
In questi stessi anni non mancarono al C. incarichi d'interesse pubblico: nel settembre 1507, nel luglio 1508 e nel maggio 1509 gli venne affidato, ogni volta per quattro mesi, il compito di perseguire e arrestare i banditi che infestavano i territori circostanti la sua contea; il 2 apr. 1508 fu nominato capitano delle armi a vita della città di Agrigento; nei Parlamenti del 1508 e del 1511 fu eletto deputato del Regno. Con privilegio di re Ferdinando del 15 sett. 1509, esecutoriato in Palermo il 10 genn. 1510, il C. fu nominato maestro portulano del Regno con lo stipendio annuo di 300 onze. L'alto ufficio, che già era stato del padre, oltre a dargli grande prestigio, lo poneva a capo di una delicata branca dell'amministrazione statale, che praticamente controllava tutto il movimento dei porti frumentari dell'isola e gli assicurava notevole capacità d'intervento sia sul piano economico che su quello politico.
Probabilmente in questi anni il C. fu impegnato in una azione di rivendicazione della contea di Modica confiscata diverso tempo prima dalla Corona ad Andrea Chiaramonte, di cui egli era discendente in linea femminile. Ma, per quanto pressanti e insistenti, le sue richieste vennero sempre respinte da Ferdinando e da Carlo e ciò lo amareggiò molto fino a indurlo - per sua esplicita confessione - a schierarsi decisamente contro il sovrano.
Nel febbraio 1516, quando giunse a Palermo la notizia della morte di Ferdinando il Cattolico, il C. si schierò con i nobili che contestarono al viceré Moncada il diritto di continuare ad esercitare il suo ufficio considerandolo decaduto. Il Moncada, è noto, confortato dal parere del Sacro Regio Consiglio e sostenuto da una parte della feudalità isolana, respinse queste pretese, ma, sospinto dalla rivolta del popolo di Palermo, si ritirò a Messina. Il C., che con gli altri nobili dissidenti aveva abbandonato Palermo poco prima che scoppiasse la sommossa popolare, il 5 marzo partecipava in Termini a una pubblica cerimonia funebre in memoria del defunto re Ferdinando e con gli altri nobili presenti dichiarava solennemente la propria fedeltà al nuovo sovrano Carlo d'Asburgo. Il 15 marzo, rispondendo alle sollecitazioni del pretore e del Senato di Palermo, precisava, insieme con gli altri nobili dissidenti, "nui nni partimo di quissa citati pirchi nni era pertubata la pachi" ed esprimeva l'intenzione d'inviare ambasciatori al re "chi li fussi plachenti livarinni li gravitii li quali havimo sustenuto", continuando "nui tinnimo et tinimo lo signuri don Ugo di Moncada per persuna privata e cussì lo scrivirimo hoggi ad tucti li Universitati" (La Lumia, pp. 74, 323 s.) e queste affermazioni scoprivano gli obiettivi della rivolta. Il 28 marzo il C. si trovava di nuovo a Palermo e l'11 maggio partecipava alla cerimonia del giuramento dei due presidenti del Regno, i marchesi di Geraci e di Licodia, che il baronaggio dissidente aveva desigriato a reggere il Regno in attesa del nuovo vicerè.
Intanto il giovane sovrano, venuto a conoscenza degli avvenimenti siciliani, convocava alla sua presenza, insieme con il Moncada, i due maggiori esponenti della fazione ribelle della nobiltà siciliana, il conte di Collesano ed il C. che lasciavano Palermo il 23 settembre. Quale sia stato il ruolo svolto dal C. a corte allo stato attuale della documentazione non è ben precisabile.
È noto, però, che il Moncada operò attivamente per limitare i privilegi del baronaggio e riordinare e rafforzare la burocrazia. La valutazione di questo elemento, oltre a dare prospettiva più precisa agli avvenimenti drammatici che conclusero il governo di quel viceré, spiega perché, anche dopo la sua partenza, una parte della feudalità continuò ad agitarsi, puntando i suoi strali contro i vecchi collaboratori del Moncada rimasti in posizioni preminenti anche col nuovo viceré, come avvenne nel moto diretto da Giovan Luca Squarcialupo. Accanto a questi motivi d'ordine generale, per bene intendere il ruolo che negli avvenimenti di questi anni ebbe il C., va anche considerato il complesso giuoco degli interessi particolari e la circostanza rilevantissima che egli si era coperto di debiti e aveva commesso numerose malversazioni come maestro portulano provocando un'inchiesta a suo carico, la confisca e la successiva restituzione dei suoi beni.
Dalla Fiandra il C. ritornò in Sicilia probabilmente verso la fine del 1519 ed è pensabile che il sovrano l'abbia trattenuto così a lungo presso di sé, in una specie di larvato esilio, per rendere più facile al nuovo vicerè lo svolgimento d'una fattiva opera di pacificazione. Non risulta che al suo rientro abbia continuato a palesare sentimenti ostili al governo, ma è indubbio, ed appresso si vedrà perché, che egli continuò a tramare nell'ombra. Quando nel maggio del 1522 il Pignatelli convocò in Palermo il Parlamento ordinario per la conferma dei donativi, il C. fece sentire di nuovo il peso dell'ascendente che esercitava sulla nobiltà e sul popolo. Alla vigilia della riunione dei tre bracci egli cominciò ad affermare che il Regno non era in condizioni di tollerare il peso dei "donativi" e se non fosse stato possibile diminuire l'entità bisognava esmtare le città demaniali e chiedere al braccio militare una contribuzione maggiore. Queste proposte, avanzate da un feudatario, alto esponente dell'amministrazione del Regno, apparvero in quel momento molto strane, ma trovarono ugualmente ascolto dalle orecchie di qualcuno.
Il Pignatelli, ben comprendendone la carica eversiva e valutando in pieno l'ascendente esercitato dal C. e la particolare disponibilità del popolo di Palermo alle sommosse, sospese la riunione del Parlamento, riconvocandolo a Messina per il 25 giugno successivo. Ma neanche lì il C. dismise i suoi modi arroganti ed ostili, ed il giorno della convocazione del Parlamento si presentò con un folto gruppo di armati. A quest'ultima provocazione il Pignatelli reagì con estrema decisione: lo fece arrestare e trasferire a Napoli, dove fu rinchiuso nel Castel Nuovo. Il viceré temeva evidentemente che il comportamento del C. potesse dare il segnale per una nuova rivolta, ma invece nulla accadde dopo l'arresto suo e dei suoi seguaci e forse l'episodio sarebbe stato presto dimenticato se nell'aprile dell'anno appresso il duca di Sessa, ambasciatore di Carlo V presso il pontefice, non avesse scoperto, inaspettatamente, una congiura ordita dai fratelli Imperatore, esuli siciliani a Roma. Costoro avevano stretto rapporti con la corte di Francia e offerto la corona del Regno di Sicilia a Francesco I, sollecitando l'invio di una flotta francese in Sicilia e assicurando che in concomitanza con l'arrivo della flotta sarebbe scoppiata nell'isola una rivolta popolare che ne avrebbe facilitato la conquista. Arrestati e sottoposti a stringenti interrogatori, i fratelli Imperatore svelarono i particolari della congiura e fecero anche i nomi di altri congiurati che operavano in Sicilia.
Il 23 aprile, in base alle segnalazioni del duca di Sessa, il Pignatelli fece istruire un regolare processo e dagli interrogatori emersero precise accuse contro il C., che fu indicato come uno dei capi della congiura. Richiamato nell'isola, il C. fu tradotto davanti ai giudici della Regia Magna Curia riuniti in Milazzo, ed in un primo momento, nonostante le precise e circostanziate contestazioni, respinse sdegnosamente ogni addebito. Quando però fu sottoposto alla tortura finì per confessare. E precisò di avere pensato alla possibilità di un intervento francese in Sicilia fin dal tempo della permanenza in Fiandra, di avere preso i primi contatti con i congiurati tramite il tesoriere del Regno Nicola Vincenzo Leofante, "che, a lo tempo di quisto ultimo Parlamento di lo regio donativo, ipso tractava diminuiri seu allargari dicto regio donativo ad effecto di farisi li populi benevoli, per trovarisi piò prompti ad omni sua voluntà et plachiri" e aggiunse che nella stessa circostanza, quando il barone di Trabia Blasco Lanza aveva cercato di raggiungere un accordo tra Palermo, Catania e Messina, "sollicitava a lo dicto misser Blasco che concludissi dicta unioni ad effecto che avendo ipso Conti a sua volontà la cità di Palermo, fachendosi dicta unioni haviria avuto li altri due chitati, Misina et Chatania, per potiri di quilli disponiri a sua volumtati venendo dicta annata di Franza". Inoltre, fatto completamente ignorato dagli altri congiurati e dai giudici, "confessa dicto Conti che [...] commisi a Petro Spatafora e Andria Susinno che ammazassiro a lu condam mastro Peyro" (Francesco Peyron, da Barcellona, ispettore di contabilità, e poi conservatore del Real Patrimonio, che aveva scoperto le malversazioni commesse dal C. nell'espletamento delle funzioni di maestro portulano e fu ucciso sulla strada tra Roma e Napoli). Il C., interpellato sui motivi che lo avevano spinto a sostenere "la venuta del re di Franza in Sichilia", rispose che sperava "per quillo mezo haviri [...] lo contado di Modica" (Transunto del processo...). Ma, tenendo presente certa mentalità che dominava nel baronaggio, del tempo, può pure ritenersi che tale motivazione sia stata avanzata dal C. perché era plausibile senza essere considerata del tutto infamante; forse la spiegazione più genuina del suo atteggiamento andrebbe ricercata nella volontà di risanare in maniera definitiva la sua dissestata situazione patrimoniale con l'inserimento in una realtà politica radicalmente rinnovata.
L'11 luglio 1523 il C. fu portato davanti ai giudici della Regia Gran Corte e, dopo aver confermato le confessioni rese in istruttoria, ascoltò la sentenza che lo condannava a morte e alla confisca di tutti beni "declarando li soy successuri, usque ad terciam generacionem, infami et inhabili ad successioni et tucti honuri". Indi, nella piazza antistante la chiesa madre, fu decapitato. La sua testa, portata a Palermo, fu esposta al pubblico, come monito, in una gabbia di ferro.
Con il C. si spegneva uno dei protagonisti di quella congiura che, per molti aspetti, si può considerare l'ultimo dei sussulti che caratterizzarono la storia del primo ventennio del Cinquecento in Sicilia e forse il vero significato dell'atteggiamento di certa feudalità isolana negli avvenimenti di quegli anni si coglierebbe meglio se essi si vedessero in una prospettiva nuova, e cioè come reazione alla nuova realtà imperiale che Carlo V imponeva al Regno di Sicilia, quasi si avesse la sensazione che nell'ambito di questa realtà il Regno non potesse trovare una dimensione valida, quella dimensione che invece aveva trovato sotto i re d'Aragona.
È da notare che, nonostante la dura condanna subita dal C., la famiglia riuscì in qualche modo a riemergere, anche se la discendenza maschile si estinse per la morte dell'unico figlio, Martino, spentosi poco dopo il padre, dice il Sandoval, vinto dal dolore e dalla vergogna. La vedova, infatti, ottenne la restituzione della contea di Cammarata, perché proveniente dal patrimonio di suo padre, e la figlia Isabella, con dispaccio reale del 15 marzo 1528, venne riabilitata a succedere nei beni paterni non ancora alienati dal fisco.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Palermo, Protonotaro del Regno, vol. 205, ff. 97, 98, 148, 247; vol. 213, f. 284; vol. 214, ff. 10, 40, 341, 442, 689; vol. 215, ff. 126, 390, 451, 648; vol. 216, f. 72; vol. 227, f. 96; Palermo, Bibl. com., ms. Qq. F. 110: Lettere osservatoriali de' privilegi concessi ai maestri portulani di Sicilia, ff. 114-162; Ibid., ms. Qq, E. 99: F. M. Emanuele e Gaetani di Villabianca, Notizie dei maestri portulani, ad nomen;T. Fazello, De rebus siculis, s.n.t. (ma Palermo 1560), pp. 568, 600, 601, 606-609; A. Merlino, Cronaca, in G. Salvo-Cozzo, Cronache relative ai tumulti avvenuti in Sicilia nei primi anni del regno di Carlo V, in Archivio stor. siciliano, n.s., VI (1881), p. 123; Transunto del processo contro i fratelliImperatore, ibid., VII (1883), pp. 341-363 (è la trascrizione del ms. 4 qq. D. 47 della Biblioteca com. di Palermo); F. Paruta-N. Palmerino, Diario della città di Palermo (1500-1613), in G. di Marzo, Bibl. stor. e letteraria di Sicilia, I, Palermo 1869, pp. 5, 8; P. de Sandoval, Historia de la vida y hechos del Emperador Carlos V…, I, Madrid 1955, pp. 84-87; F. M. Emanuele e Gaetani di Villabianca, Della Sicilia nobile, I, Palermo 1754, pp. 81, 158-159; III, ibid. 1759, pp. 73, 134-135; Id., App. alla Sicilia nobile, I, Palermo 1775, p. 514; G. E. Di Blasi, Storia cronologica dei viceré, presidenti e luogotenenti del Regno di Sicilia, Palermo 1842, pp. 149 n. 1, 155, 157-159, 162, 163 n. 4, 164 n. 2, 165, 166 n. 2; I. La Lumia, La Sicilia sotto Carlo V, in Storie siciliane, III, Palermo 1882, pp. 60, 64, 74, 77, 84, 100, 102, 104, 108, 120, 126, 139, 166, 184 s., 200-203, 207, 210-214, 216, 224, 227-230, 323 s.; A. Mango di Casalgerardo, Nobiliario di Sicilia, I, Palermo 1912, pp. 32 s.; F. San Martino De Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia, II, Palermo 1924, pp. 144 s.; VI, ibid. 1929, p. 405; VIII, ibid. 1933, p. 9; A. Saitta, Avvertimenti di don Scipio di Castro a Marco Antonio Colonna quando andò viceré di Sicilia, Roma 1950, pp. 33, 84; C. Trasselli, Note per la storia dei banchi in Sicilia nel XV secolo, II, I banchieri e i loro affari, Palermo 1968, pp. 67-76, 130-133; Id., Squarcialupo, in Nuoviquaderni del Meridione, VII (1969), p. 463; Id., Prodromi del Cinquecento in Sicilia, in Clio, V (1969), pp. 333-351.