Federico Barbarossa e la terza crociata
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Federico partecipa, come giovanissimo duca di Svevia, alla seconda crociata guidata dallo zio Corrado III, re di Germania tra 1147 e 1148: in tale occasione si distingue per coraggio, valore, intelligenza strategica e durezza. Organizza, un quarantennio più tardi, da imperatore, la cosiddetta “terza crociata”, durante la quale riporta importanti vittorie nei Balcani e in Anatolia contro i fedeli dell’Impero bizantino e i Turchi. Muore accidentalmente durante il passaggio di un impetuoso fiume della catena montana del Tauro, il 10 giugno del 1190; la sua repentina scomparsa dà luogo al fiorire di leggende escatologiche ancora vive nella Germania otto-novecentesca.
Tra 1144 e 1146 la città armena di Edessa, che è stata conquistata da Baldovino di Boulogne nel 1198 e che da ormai quasi mezzo secolo risulta il primo principato “franco” di Terrasanta, viene presa, perduta e riconquistata da ‘Imad al-din Zengi, atabeg turco di Aleppo e Mosul dipendente dal califfo abbaside di Baghdad e dal suo consigliere-protettore, il sultano turco selgiuchide sunnita. La notizia è un fulmine a ciel sereno per la cristianità occidentale, ormai abituata a pensare al regno “franco” di Gerusalemme come all’Outremer latino ed europeo, al quale serenamente potevano accedere pellegrini e mercanti come a un territorio familiare e sicuro, presidiato dalle navi delle città marinare italiche e difeso saldamente dalla nuova originale istituzione della Chiesa di Roma, le militiae, cioè gli ordini religioso-militari.
Alla legittimazione di uno di questi ordini, l’ordine del Tempio o Templari, ha potentemente collaborato il mistico cistercense che era allora il mâitre-à-penser della cristianità latina del tempo, Bernardo di Clairvaux. È principalmente grazie a lui che papa Eugenio III si lascia convincere (già all’indomani della prima caduta di Edessa) a organizzare in appoggio dei “franchi” di Terrasanta un nuovo iter militare, bandito con la bolla Quantum praedecessores del 1 marzo del 1146: una spedizione di soccorso. I partecipanti di questa – anch’essi cruce signati, cioè qualificati dal segno della croce cucito o ricamato sulla veste, secondo un uso abituale tra i pellegrini – avrebbero ricevuto, come coloro ch’erano partiti nel 1096, indulgenza plenaria e una serie di vantaggi sia spirituali, sia materiali. Si viene così pian piano costituendo quella che poi diverrà la legislazione canonica della crociata intesa come pellegrinaggio armato e disposizione al martirio. Bernardo accetta di predicare egli stesso l’impresa, inquadrando e disciplinando pericolose spinte religioso-popolari che anche in quell’occasione, come già mezzo secolo prima, si sono manifestate a causa dell’azione di predicatori itineranti, sospetti di posizioni ereticali, che – approfittando anche di eventi naturali, come eclissi, eruzioni o carestie – sostengono prossima la fine del mondo e incitano a ripulire la terra dagli infedeli, a cominciare, com’era appunto accaduto nel 1096, dalle comunità ebraiche.
A guidare l’impresa si lasciano convincere i due re più potenti della cristianità d’Occidente: prima re Luigi VII di Francia, che parte accompagnato dalla consorte, la bella e potente Eleonora duchessa d’Aquitania, e da uno stuolo di nobili cavalieri e di gentili dame – una vera e propria corte itinerante. Quindi Corrado III di Hohenstaufen, “re dei Romani” (cioè re eletto di Germania dal 1138) e, in quanto tale, candidato quindi alla corona imperiale, che avrebbe comunque dovuto scendere pellegrino fino a Roma per cingerla ricevendola dalle mani del pontefice. Per Bernardo, la presenza e la guida dei massimi dinasti d’Occidente è garanzia di disciplina e simbolo dell’unità di tutti i cristiani d’Occidente sotto la salda guida spirituale del pontefice. Le colonne tanto germaniche quanto francesi, le quali marciano stavolta libere dal peso dei pellegrini inermi, percorrono la via militare e attraversavano i Balcani accettando l’invito del basileus Manuele Comneno, imperatore bizantino dal 1143. Ruggero d’Altavilla, re di Sicilia, cerca di convincere il sovrano francese a raggiungere la sua isola e di là la Terrasanta via mare: era difatti sua intenzione utilizzarne l’appoggio da una parte contro i suoi principali avversari, i Bizantini; dall’altra per rafforzare il principato di Antiochia, del quale era in quel momento signore Raimondo di Poitiers, zio della regina Eleonora. Al contrario, re Corrado, imparentato con il basileus in quanto congiunto della sua consorte Berta di Sulzbach (che aveva assunto il nome greco di Irene), contava sulla sosta a Costantinopoli per rafforzare la sua alleanza con la corte imperiale d’Oriente: e il papa confidava che ciò sarebbe servito ad appianare lo scisma.
Con la colonna tedesca, originariamente forte forse d’una ventina di migliaia di uomini, viaggia un giovane principe che aveva allora poco più di vent’anni: Federico duca di Svevia, figlio di Federico “il Losco”, fratello di re Corrado. Egli si distingue già nei Balcani, presso Adrianopoli (oggi Edirne, nella Turchia europea), combattendo valorosamente e spietatamente contro gli attacchi di gruppi di fuorilegge. In Tracia, una tempesta distrugge gli accampamenti e si racconta che solo il padiglione del giovane duca di Svevia sia rimasto in piedi: un particolare che il suo nobile e colto biografo, il cistercense Ottone vescovo di Frisinga – ch’era anche suo zio materno –, non mancò d’interpretare come segno di divina elezione.
Federico si distingue poi durante il fortunoso attraversamento dell’Anatolia, nell’autunno del 1147, durante il quale emergono fra tedeschi e francesi segni inequivocabili di rivalità e di reciproca antipatia, destinati come sappiamo a produrre in futuro abbondanti frutti avvelenati.
La “seconda crociata” – come siamo abituati a chiamarla – si risolve in un fallimento, sia per la rivalità tra i suoi capi, sia per le pessime scelte che soprattutto re Luigi di Francia abbraccia, risolvendosi ad esempio a porre un lungo e inutile assedio alla città di Damasco, ignorando il fatto che l’emiro della città – avversario dell’atabeg turco – avrebbe invece potuto essere un utile alleato. A tutto ciò si deve aggiungere il particolare, un po’ comico, dei tradimenti coniugali della regina Eleonora e dei suoi litigi con il regale consorte. Al principio del settembre del 1148, comunque, Corrado con il suo seguito, dopo una breve visita a Gerusalemme, salpa dal porto di Acri per passar le feste natalizie a Costantinopoli e rientrare quindi in Germania. Non sappiamo quale impressione Federico abbia conservato della Terrasanta, ma è certo che durante la crociata egli ha modo di conoscere di più e meglio illustri personaggi dell’impero quali Guelfo VI di Memmingen, un altro suo zio, ma anche Enrico vescovo di Ratisbona e Ladislao duca di Boemia.
Quarant’anni dopo, il quasi settantenne Federico I, da 33 anni imperatore romano-germanico, riprende senza un istante di esitazione quel cammino verso la Terrasanta, cosa che stimava suo dovere in quanto primo sovrano della cristianità. Gerusalemme era caduta nell’ottobre del 1187 nelle mani del sultano del Cairo e di Damasco, il Saladino, del quale si parlava in Europa con terrore ma anche con ammirazione. Il 27 marzo, domenica Laetare Jerusalem, l’imperatore presenzia nella cattedrale di Magonza a una Curia Jesu Christi, una “Corte di Gesù Cristo”. Egli lascia vuoto il trono imperiale, affinché fosse il Gran Re a occuparlo. Il legato apostolico legge la bolla pontificia Audita tremendi, dopo di che il sovrano pronuncia solennemente il suo voto di pellegrino insieme con il suo primogenito Federico VI, duca di Svevia e molti grandi del regno. Il peso della reggenza, durante l’assenza del sovrano che aveva comunque ormai pacificato con energia l’impero, viene assunto dal suo altro figlio, Enrico, re “dei Romani” (cioè di Germania) e d’Italia. Documenti in parte apocrifi ci parlano dei rapporti diplomatici tra Federico, il Saladino e lo stesso “Veglio della Montagna”, il capo della “sètta degli Assassini”, una radicale setta musulmana. Sembra che Federico sia stato, in quel frangente, uno dei geniali inventori d’un genere destinato a grande fortuna, la propaganda di guerra.
L’esercito crociato imperiale viene convocato a Ratisbona il 23 aprile 1189, vigilia della festa di san Giorgio, e muove di là l’11 maggio successivo, scegliendo ancora una volta la via di terra attraverso i Balcani. Federico aveva spedito messaggi diplomatici al re d’Ungheria, al principe di Serbia, al basileus Isacco II Angelo, al sultano selgiuchide d’Iconio che si sapeva avversario del Saladino. L’itinerario dell’armata tocca Vienna, Gran, Belgrado, Nish, Sofia e Filippopoli, dove è necessario entrare con le armi in pugno (la seconda crociata non aveva lasciato un buon ricordo nella penisola balcanica). Durante il viaggio, i rapporti con l’Impero bizantino peggiorano al punto che Federico medita di sferrare un vero e proprio attacco a Bisanzio. Adrianopoli infine viene conquistata con la forza.
In queste condizioni, per quanto lo scontro frontale venisse evitato, non era certo il caso di passare per Costantinopoli. Né il basileus lo avrebbe consentito. Si negoziano quindi le imbarcazioni necessarie a traghettare le truppe da Gallipoli attraverso i Dardanelli, manovra che viene completata verso la fine dell’inverno. Le profferte d’amicizia di Kilij Arslan, sultano d’Iconio, si rivelano infide; la sua capitale è conquistata il 18 maggio del 1190. Con l’aiuto dei principi armeni, che erano pronti a prestargli omaggio feudale, Federico decide di passare la catena montagnosa del Tauro. Ma lì, traversando l’alto corso del Göksu (il Salef degli Arabi, il Kalikadnos dei Greci), Federico viene travolto dalle acque – o forse fu còlto da infarto per esser casualmente caduto nella corrente gelida in un caldo giorno di fine primavera asiatica, il 10 giugno. Non è impossibile che sia morto in seguito a un bagno incautamente preso a quasi 70 anni, età per quei tempi quasi venerabile. Peraltro, il lungo viaggio a cavallo doveva aver ormai messo a dura prova la sua pur straordinaria fibra.
L’incertezza sulle circostanze della sua morte dipende comunque anche dal carattere epico e martirologico che le fonti assumono nel rievocare quel tragico momento. Suo figlio Federico, prostrato e febbricitante, cura le complesse e un po’ macabre incombenze funebri del momento: il corpo del sovrano viene bollito, le interiora sono sepolte nella cattedrale di Tarso, la carne in quella antiochena di San Pietro. Non sappiamo, invece, se le ossa del sovrano ricevono asilo nel duomo di Tiro stessa o in quello di Acri. Sulla base del suo perduto sepolcro si sarebbe più tardi formata la leggenda dell’imperatore mai morto, che dorme nelle viscere della montagna turingia del Kyffhäuser da cui uscirà alla Fine dei Tempi per guidare le schiere degli eletti contro le orde dell’Anticristo. Nel 1815 il poeta Friedrich Rückert compone su questo tema la ballata Der alte Barbarossa, il cui verso-chiave recita: er ist niemals gestorben, “egli non è mai morto”. Nel 1878, una spedizione tedesca guidata da Johann Sepp e da Heinrich Prutz partirà per localizzare i vari sepolcri del Barbarossa, ormai nume tutelare del nuovo impero tedesco e, sul luogo presunto della sua morte, viene murata una lapide commemorativa.