CONTARINI, Federico
Nacque a Venezia il 25 apr. 1538 da Francesco e da Bianca, figlia del nobiluomo Gerolamo Malipiero. La sua famiglia, appartenente al ramo dei Contarini dalle Due Torri, con dimora nella parrocchia di S. Luca, era certamente tra le più ricche della città.
Quando, nel 1574, Enrico di Valois passò per Venezia durante il viaggio di trasferimento dal trono di Polonia a quello di Francia e la Repubblica cercò di esibirsi al regale visitatore con la massima ostentazione dei suo splendore e della sua opulenza, tra le dimore di patrizi veneziani che gli furono mostrate ci fu quella dei Contarini alla Mira, lungo la riviera del Brenta. E tre anni prima, allorché per sopperire alle ingenti spese richieste dalla guerra contro l'Impero ottomano la Repubblica consentì ad insignire della carica di procuratore di S. Marco - una carica a vita, la seconda per dignità, dopo quella dogale - coloro che le offrissero subito 20.000 ducati, il primo a farsi avanti fu proprio il C., che ottenne infatti una procuratia de supra. Un ritratto fattogli in quella occasione da un pittore di scuola tintorettiana, e che è ora conservato alla Fondazione G. Cini di Venezia, lo mostra con aria ancor più giovanile della sua età, Patteggiamento compiaciuto e un po' attonito, il mento appena coperto dalla barba che si addiceva alla gravità di un procuratore, e addosso la maestosa toga rosso scuro a larghe maniche, foderata di pelliccia.
L'elezione a procuratore consentì al C. di iniziare la carriera praticamente dal vertice. Non risulta che egli abbia avuto la carica di savio agli Ordini, che costituiva l'introduzione alla politica per i giovani tra i venticinque e i trent'anni. Come procuratore, egli poteva non solo presenziare alle sedute del Senato, ma entrare a far parte del Consiglio dei dieci o, più precisamente della sua zonta, che erano i consessi da cui allora, si dirigeva buona parte della politica interna ed estera della Repubblica: nell'ottobre del 1576 e nell'aprile del 1578, entrava nella zonta vera e propria; nell'ottobre del 1576, 1578, 1579, 1581, entrava in una zonta più ristretta, quella cosiddetta dei procuratori. Nell'ottobre del 1582, in seguito a un movimento di patrizi ostili al Consiglio dei dieci e alla zonta in quanto vi vedevano uno strumento di politica oligarchica, il Consiglio vide ridotte le sue competenze e la zonta non venne più rieletta. Anche se dopo di allora il C. fu definitivamente escluso dal Consiglio dei dieci, egli rimase ugualmente alla ribalta della politica veneziana, riuscendo ad essere eletto a cariche di indubbio rilievo e dignità. Anzitutto, quelle economico-finanziarie, verso cui dovevano spingerlo le esperienze fatte nella gestione del suo patrimonio familiare: nel 1584 riuscì provveditore sopra i Beni comunali, nel 1585 provveditore sopra i Monti (ossia sopra il debito pubblico), nel 1589 e nel 1600 provveditore sopra Ori e monete, e ancora nel 1600 depositario in Zecca; che erano cariche assai importanti, data la delicatezza della situazione finanziaria, e particolarmente monetaria, nel periodo di fine secolo.
Oltre a questo, il settore che attraeva di più il C., quello in cui probabilmente riteneva di dovere e di poter svolgere l'azione più efficace, era quello religioso, o socio religioso. Era uomo devotissimo, di quella devozione tipica di una larga parte della società veneziana del tardo Rinascimento, mista di compunzione e di esibizionismo; uomo convinto, inoltre, della necessità di appoggiare la Chiesa nel suo sforzo di affermazione temporale, oltre che spirituale, e che ci si dovesse valere, a tal fine, di coloro che si erano rivelati gli interpreti più attivi ed efficaci del rinnovamento della Chiesa, i gesuiti. Prirno dovere, dunque, tutelare l'ortodossia.
Nel 1593, nel 1598 e nel 1610, venne eletto savio all'Eresia, con il compito di presenziare a tutti gli atti del tribunale del S. Uffizio.
Scopo istituzionale di tale magistratura sarebbe stato quello di evitare che da parte di quel tribunale si compissero abusi ai danni della giurisdizione secolare. Il C. farà invece in modo da permettergli di agire il più possibile liberamente, secondo le esigenze, cioè, della Chiesa. Fu in virtù dell'opera del C. che la Sede apostolica riuscì ad ottenere la trasmissione a Roma del processo contro Giordano Bruno, nonché la traduzione dello stesso imputato, cui la Repubblica dapprima si opponeva, come atti contrari alla sua autonomia giurisdizionale anche in materia di eresia. "Uno delli signori assistenti al Santo Officio - scrisse a Roma il nunzio pontificio a Venezia mons. Ludovico Taverna - è il signor Federico Contarino procuratore di San Marco, gentilhuomo honorato, molto pio et di buona vita, il quale è sempre favorevole alle cose ecclesiastiche" (cit. in Cozzi, p. 7). Il Taverna incitava inoltre il suo corrispondente romano a scrivergli una lettera nella quale si dicesse che il pontefice apprezzava le qualità e gli uffici dei C., così che questi si sentisse ancora animato a continuare per la stessa via. Secondo dovere, per il C., era quello di contribuire alla salvaguardia della pubblica morale. adoperandosi affinché i ceti più elevati non indulgessero a sciorinamenti eccessivi di fasto e frivolità mondane, e, comunque, gli abiti di uomini e donne fossero improntati a decenza e sobrietà. Gli strumenti e la tribuna per quest'opera di igiene suntuaria gli erano offerti dal magistrato alle Pompe. Vi venne eletto nel 1586, nel 1598, nel 1605, nel 1608 e nel 1611, operando con tanto impegno in quell'impari lotta contro la vanità, che un avversario come Nicolò di Zan Gabriel Contarini, al quale certamente ripugnava in particolare l'atteggiamento politico-religioso del C., eserciterà nelle sue Istorie la satira contro di lui ridicoleggiandone le smanie di Catone suntuario.
Una tappa importante nella carriera politica del C. è costituita anche dalla sua elezione nel 1595 alla carica di provveditore sopra Ospedali e luoghi pii.
Si dibatteva in quel momento nel Senato una questione che appassionava e divideva quel consiglio in due partiti contrapposti: se costruire o meno in città, nei pressi della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, un ospedale destinato ad accoglierci mendicanti. Il C., d'intesa col suo collega Piero Basadonna, era uno degli oppositori del progetto, sia per la sua ubicazione sia perché avversava il concetto troppo lato di mendicità che ne era alla base: meglio, a veder loro, espellere gli stranieri, mandar i sani al lavoro, cacciare i vagabondi a remare in galera, addestrare i bambini sulle navi quali mozzi, e provvedere invece ai veri poveri mediante una efficiente organizzazione parrocchiale. Si ha l'impressione che quanto irritava il C. era che una iniziativa assistenziale di questo genere non fosse affidata ai gesuiti. Un altro dei doveri che egli riteneva di dover assolvere era quello di favorire l'educazione dei giovani, e a veder suo i gesuiti eran coloro che dimostravano di saper meglio attendere a tale compito. Il C. era uno dei patroni della Casa delle zitelle, istituita alla Giudecca dal padre Palmio; egli aveva auspicato che fosse affidata ai gesuiti la gestione del seminario patriarcale, e che venisse ripristinato a Venezia il collegio ove educare i rampolli della classe dirigente veneziana, eretto dalla Compagnia nel 1550 e chiuso poco dopo per scarsità di studenti. Il suo proposito di metter in piedi tale collegio resterà vivo anche dopo l'espulsione dei gesuiti: egli presenterà una proposta in Senato nel 1609.Ricerche recenti stanno dimostrando l'interesse del C. per l'agricoltura: egli era a capo di un consorzio di nobili per lo sviluppo della zona intorno a Treviso; nel 1572 il notaio Africo Clementi gli dedicò il suo Trattato dell'agricoltura (Venezia 1572). È emerso poi come il C., al pari di altri membri del patriziato veneziano, si dedicasse ad attività speculative nei confronti di centri del dominio, acquistando le loro tasse e divenendo loro esattore, come sarà per le "daie" di Padova, da lui comperate insieme con altri. Fu certo in virtù di tale redditizia attività, oltre che delle ricchezze ereditate dal padre, che il C. poté permettersi di coltivare una passione culturale allora in auge, quella del collezionista di antichità e curiosità naturalistiche.
Il meglio era costituito da una raccolta di statue e di monete, tale da assicurargli una notevole reputazione, a Venezia e fuori. Nel 160r, pubblicando (a Venezia) un volume contenente le riproduzioni di teste di imperatori romani eseguite da Enea Vico traendole da monete antiche, l'incisore Iacopo Franco lo dedicava al C., nel ricordo della splendida collezione numismatica che aveva ammirato nella sua casa. "Quello dell'anticaglie", si dirà più banalmente di lui, per distinguerlo dalla pletora dei Contarini. Ma oltre ad "anticaglie", aveva anche una bellissima pinacoteca, con opere di Giovanni Bellini, Giorgione, Tiziano, Schiavone, Paolo Veronese. "Musaeum instructissimum", aveva infatti definito la collezione un visitatore di gusto quale Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, mandato a visitarla dall'ambasciatore francese a Venezia Ph. Canaye de Fresnes.
In virtù della sua competenza, il Senato aveva eletto il C., il 4 nov. 1593, al compito di allestitore del Museo archeologico, in attuazione dell'idea formulata da un altro celeberrimo collezionista, il patriarca di Aquileia Giovanni Grimani, che aveva donato a tal fine alla Repubblica la sua raccolta: il C. completerà il suo lavoro nel 1596.
Morì a Venezia il 22 ott. 1613, a circa settantotto anni, dopo un mese di malattia, caratterizzata da "febre et cataro", specificava il necrologio.
Fu sepolto nella cappella che si era fatto allestire nell'amata chiesa delle zitelle, ponendo, al di sopra dell'altare ornato di marmi, una pala dipinta dal Vassilacchi, in cui, con la Vergine, il Bambino e s. Francesco, figurava in primo piano anche lui, una mano umilmente posata sul cuore.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Cons. dei dieci, Comuni, reg. 34, filza 139 alla data 30 dic. 1579; reg. 38, alla data 4 genn. 1586; filza 124, alla data 23 sett. 1575; Ibid., Provved. alla Sanità, Necrologi, reg. 846; G. Cozzi, F. C.: un antiquario veneziano tra Rinascimento e Controriforma, in Boll. dell'Ist. di storia della società e dello Stato veneziano, III (1961), pp. 190 ss.; M. T. Cipollato, L'eredità di F. C.: gli inventari della collez. e degli oggetti domestici. ibid., pp. 221 ss.; S. Savini, Branca Il collezionismo veneziano nel '600, Padova 1965, pp. 18, 29 s., 200 s.; G. Fedalto, Ricerche storiche sulla posizione giuridica ed ecclesiastica dei Greci a Venezia net secc. XV e XVI, Firenze 1967, pp. 104-107, 138-144; P. Burke, Venice and Amsterdam. A survey of Seventeenth Century dlites, London 1974, p. 53; P. F. Grendler, The Roman Inquisition and the Venetian Press, Princeton, N. J., 1977, pp. 65-69; M. Berengo, Affico Clementi agronomo padovano del Cinquecento, in Miscellanea A. Campana. Padova 1981, pp. 39, 42, 57.