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CONTARINI, Federico

di Giuseppe Gullino - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 28 (1983)
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CONTARINI, Federico

Giuseppe Gullino

Primogenito di Girolamo, del ramo di San Cassan, e di Isabella Falier di Alvise, nacque a Venezia nel novembre dell'anno 1479. La sua breve esistenza fu totalmente segnata dalla guerra: le armi, infatti, gli assicurarono la gloria e ne decisero la morte, che incontrò in battaglia a soli trentadue anni.

Il 29giugno 1508 il Senato doveva eleggere un nuovo provveditore ad Asola, città fortificata posta in una posizione strategica, tra Brescia, Mantova e Cremona, "et rimase sier Ferigo Contarini, quondam sier Hironimo, che si anegò noviter, provedador di l'armada". La morte del padre, avvenuta nel corso di una campagna militare, fu quindi, a detta del Sanuto, il principale motivo che indusse il Pregadi ad affidare al ventinovenne C. un incarico che per solito erano chiamate a sostenere persone di provata esperienza.

Del resto, tutto lasciava prevedere che si sarebbe trattato di un reggimento tranquillo, dal momento che le operazioni militari tra la Repubblica e l'Impero stavano interessando tutt'altro settore, il Friuli e l'Istria; ma il rapido deteriorarsi della situazione politica ed il costituirsi della lega di Cambrai avrebbero posto in primo piano, di lì a qualche mese, proprio la zona di operazioni compresa tra l'Adda e il Po. Il primo incontro con la guerra non doveva quindi tardare a giungere per il C., e fu l'inizio di una lunga serie di successi.

Nel maggio del 1509 il marchese di Mantova, Francesco Gonzaga, occupava Casaboldo, a poche miglia da Asola: la operazione, se riuscita, avrebbe potuto costituire una minaccia per le retrovie dell'esercito veneziano, schierato tra l'Oglio e l'Adda. La reazione del C. fu pronta ed efficace: uscito contro il nemico con tutti gli uomini a disposizione, l'assalì con tanto vigore da infliggergli una pesante sconfitta.

Caddero in sua mano molti prigionieri e tutte le artiglierie, "el resto fuzi a la malhorra; e si nostri havessero hauto solum 50 cavali lizieri, niuno schampava... Et promete farano assai". Gli auspici erano senz'altro incoraggianti, ma il Sanuto si ingannava: cinque giorni dopo, la battaglia di Agnadello spazzava via, d'un tratto, quasi tutti i domini di Terraferma che la Repubblica aveva faticosamente costituito nell'arco di un secolo. I Mantovani si ripresentarono davanti ad Asola, e stavolta con ben altra forza: il C. cercò di organizzare la resistenza, incoraggiato dal provveditore generale Giorgio Corner, che prometteva il ripristino degli antichi privilegi sottratti alla città nel 1483 ed esortava gli abitanti a mantenersi fedeli a S. Marco, giacché "in breve vederanno che l'inimici nostri non si gloriaranno di sua felicità, ma si doleranno delle fallaci et pessime operationi". Senonché agli Asolani si rivolse anche il conte Vettore Martinengo, intimando la resa, "altramente il campo li vien adosso di Franza e sariano tajà tutti a pezi". Al C. non rimase che rifugiarsi nella rocca, da dove riuscì fortunosamente a scappare e a riparare proprio a Mantova, da un amico mercante che poi riuscì a farlo giungere a Venezia.

Il 16 giugno il C. si presentò in Collegio, a render conto del suo operato: in quei momenti non erano molti gli uomini su cui la Repubblica potesse fare affidamento, né essa era disposta a ritenere chiusa la partita, giacché la situazione pareva evolversi in suo favore. Così, "per aversi ben portato in Axola", un mese dopo fu nominato provveditore a Cividale del Friuli; la guerra era la stessa, ma ora avrebbe dovuto operare tra i monti invece che in pianura e contro tedeschi anziché italiani. Si imbarcò il giorno dopo la nomina e a fine luglio era già sul Natisone, in tempo per fronteggiare l'assalto del duca di Brunswick, che si era accampato di fronte alla città. Tre volte il nemico rinnovò il combattimento, ma sempre fu ricacciato con gravi perdite. Galvanizzato da quel successo, il C. passò a sua volta all'azione e nei giorni successivi inflisse altre due sconfitte agli Imperiali, a Plezzo ed a Tolmino, costringendoli, infine, a ripiegare su Gorizia. In dicembre tornò a Venezia, dove ci si preparava nuovamente a combattere i Francesi, stavolta in unione con Giulio II. La responsabilità delle operazioni militari passò di mano: insoddisfatto della condotta dei provveditori generali Gradenigo e Marcello, il Senato decise di sostituirli con Andrea Gritti, il futuro doge, e Paolo Cappello, a loro volta affiancati da due sottoprovveditori ed esecutori, il C., appunto, e Giovanni Diedo. Nel giugno del 1510 gli eserciti si fronteggiavano nel Padovano, lungo il Brenta, e qui per tutta l'estate fu attivissimo il C., al quale erano state affidate le truppe più bellicose e indisciplinate, gli stradioti.

Furono mesi di impegno incessante, caratterizzati da febbrili spostamenti tra Bassano e Camposampiero, tra i Berici e gli Euganei, per logorare l'avversario con continui colpi di mano, nell'intento di strappargli Vicenza, difesa dagli Spagnoli. Il C. si dimostrò piuttosto soldato che politico: cavalcò molto e scrisse poco; rare e scarne risultano infatti le sue lettere al Senato, quasi tutte stese "a cavallo, in pressa", nell'imminenza, cioè, della ennesima missione. Un tale dinamismo non mancò di sconcertare il nemico: il 21 settembre veniva letto in Senato un dispaccio intercettato alle forze che occupavano Verona, il cui stato d'animo risultava cosi compendiato, nel giudizio riservato ai provveditori veneziani: "mai non dormeno, fanno uno pasto tra il dì e la notte, hanno nature diaboliche, che mai si consumano", e il peggiore di tutti appariva "sier Federigo Contarini, vigilantissimo".

Intanto la Repubblica era riuscita ad assicurarsi l'appoggio degli Svizzeri: Vicenza fu riconquistata e le operazioni militari si spostarono nel Veronese e nel Polesine. Qui fu destinato il Cappello, che volle con sé il C., al quale affidò il compito di portare aiuto al pontefice, minacciato a Bologna dai Francesi. Il C. si fermò a lungo in Emilia ed in Romagna, tra l'ottobre del 1510 e il giugno dell'anno successivo, distinguendosi a Ficarolo, Sassuolo, Mirandola.

Quando poi, logorato da tanti mesi di guerra "in terre aliene", chiese il rimpatrio, il Senato rispose nominandolo provveditore degli stradioti, la cui indisciplina richiedeva una guida energica. Nell'estate del 1511 tornò quindi a combattere con loro, nel Padovano, con il vigore di sempre, alternando punizioni esemplari ad una costante difesa di quelli - che erano - o che essi ritenevano fossero - i loro "diritti" di saccheggio e di soldo. In settembre riportò ancora notevoli successi a Marostica, dove però riuscì a stento a sottrarsi alla cattura, ed a Castelfranco, coadiuvato dalla cavalleria di Giano Campofregoso e Meleagro da Forli; in ottobre fu nuovamente vittorioso sui Francesi, sotto Treviso e poi nel Bellunese e fin nel Cadore. Il sopraggiungere della cattiva stagione attenuò ma non interruppe il fervore delle operazioni militari, e l'autunno passò tra continui spostamenti di truppe, scontri col nemico e numerose missioni a Padova e a Treviso, per assicurare il rifornimento delle artiglierie. Recuperata Verona, nel febbraio del 1512 fu la volta di Brescia, dove entrò alla testa dei suoi stradioti.

Probabilmente persuaso di avere a portata di mano l'occasione di riportare un successo decisivo su tutto il fronte, il provveditore Gritti lo inviò ad occupare Bergamo, insieme con la cavalleria di Pietro da Longhena: lamossa si rivelò inopportuna, giacché Gaston de Foix approfittò della dispersione delle forze veneziane per rioccupare Brescia, il cui presidio non seppe resistere al contrattacco francese, e il 19 febbraio fu costretto ad arrendersi. La situazione tornava a farsi nuovamente difficile per le truppe della Serenissima, sulle quali ora incombeva la minaccia di venir tagliate fuori dalle retrovie e dai rifornimenti.

Il Gritti dovette quindi precipitosamente ordinare una generale conversione su Brescia, che costituiva l'anello obbligato di congiunzione tra la Lombardia e il Veneto, e il C. lasciò Bergamo con trecento cavalieri. A questo punto le notizie sul suo conto, fin qui continue e dettagliate, si smarriscono: si sa per certo che combatté appunto sotto Brescia nel 1512 e che fu ucciso da un francese con una archibugiata. Per alcuni giorni il cadavere non fu però ritrovato, e questo suscitò le voci più disparate: chi lo dava prigioniero, chi disperso, chi riparato nel Veronese; soltanto parecchi giorni dopo si seppe che i suoi stradioti l'avevano trovato e sepolto in una chiesa.

Toccò a Paolo Cappello, che l'anno precedente era stato il suo comandante nel corso della fortunata campagna nel Polesine ed in Emilia, farne l'elogio pubblico in Senato, e Il 30 marzo la Signoria accordava 1.500 ducati "per conto di dote" ad una sua sorella. Con essa si sarebbe estinto questo ramo della famiglia, dal momento che l'altro fratello, Marco Antonio, sarebbe morto senza figli qualche anno dopo Federico.

Fonti e Bibl.:Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti..., II, p. 444;Ibid., Avogaria di Comun. Balla d'oro, reg. 164, c. 77r; meno scarne notizie della sua vita, in Venezia, Bibl. d. Civico Museo Correr, Cod. Cicogna, 3781. G. Priuli, Pretiosi frutti..., I, cc. 164v-165r; vedi anche, sempre al Correr, Cod. Cicogna, 2520: Casa Contarini, fasc. I, cc. non num. Sul suo operato a Cividale, Ibid., Cod. Cicogna, 3245: Oppugnatio Germanica Foroiulii anni MDIX scripta a Francisco Cremense Civitatensi, cc. 3r, 4r, per la nomina a provveditore degli straffloti, Arch. di Stato di Venezia, Senato, Deliberazioni Secreta, reg. 44, cc. 43v, 91v. La principale fonte sul C. sono i Diarii di M. Sanuto, VII-XXIV, Venezia 1882-1989, ad Indices;si vedano inoltre: G. Priuli, IDiarii, in Rerum Ital. Scriptores, 2 ediz., XXIV, 3, a cura di R. Cessi, pp. 195, 197-198, 240; P. Bembo, Historiae Venetae, in Degl'istorici delle cose veneziane..., II, Venezia 1718, pp. 275, 368, 374, 432, 434, 453, 455, 457; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, II, Venezia 1827, pp. 28 s.; III, ibid. 330, p. 376; S. Romanin, Storia docum. di Venezia, V, Venezia 1856, p. 228; D. Bernoni, Le vicende di Asola, Roma 1876, p. 141.

Vedi anche
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