FEDERICO D'ANTIOCHIA, VICARIO IMPERIALE IN TOSCANA
Sulle origini e l'infanzia di F. i documenti non offrono molte informazioni, escluso il fatto che era figlio illegittimo dell'imperatore Federico II di Svevia e, probabilmente, suo primogenito. Ernst Voltmer (1995, p. 664) sostiene però che il più anziano dei figli naturali dell'imperatore fu un altro Federico, detto "di Pettorano", nato verso il 1213 e morto dopo il 1240, a cui il padre aveva donato, appunto, il castello di Pettorano nell'Abruzzo aquilano.
Qualche studioso ha persino avanzato l'ipotesi che F. fosse figlio legittimo dell'imperatore. Ma è ben noto e consolidato il costume di quel tempo di non imporre ai figli legittimi, specie se primogeniti, il nome paterno per questioni dinastiche e successorie, mentre questa imposizione era un fatto abbastanza usuale per i figli illegittimi.
Lo stesso toponimico "de Antiochia", che richiamava origini orientali, alimentò alcune leggende sulla sua derivazione. La più diffusa tra queste fu quella che lo legava al luogo d'origine della madre, da alcuni ritenuta una donna musulmana e da altri identificata perfino nella figlia del principe Boemondo d'Antiochia. La storiografia, al riguardo, ha sempre brancolato nel buio, senza considerare però che il principato di Antiochia entrò nello stemma di Federico II come arme di parentela al momento del suo matrimonio con Iolanda di Brienne (1225-1228), quando cioè, secondo tutte le testimonianze, F. era già nato. L'arme di Antiochia restò nello stemma di Federico II e, come titolo di pretensione, poteva essere passata al figlio naturale. Comunque, che il titolo "de Antiochia" sia stato concesso dal padre al figlio è dimostrato dal fatto che esso non compare prima del 1245. In quel periodo F. non era più solo il figlio illegittimo dell'imperatore, ma diventò il suo rappresentante ufficiale nel difficile contesto toscano. Comunque, ogni dubbio sull'identità della madre sembra essere sciolto da Voltmer (1995), il quale afferma che F. nacque da una donna, di nome Maria o Matilde, della nobile famiglia siciliana "d'Antiochia".
Non si conosce l'anno di nascita di F., ma è probabile che egli sia nato tra il 1222 e il 1224, periodo in cui il padre non si era ancora risposato. Né è noto il luogo della nascita, anche se taluni ritengono che sia nato e cresciuto nell'Italia meridionale.
In un documento del 10 febbraio 1240 F. risulta già sposato con Margherita di Poli, figlia di Giovanni di Poli, a sua volta figlio di Riccardo, fratello di papa Innocenzo III. Giovanni era un feudatario che possedeva diversi beni nel Lazio meridionale. Costui, nono-stante gli importanti legami con la Curia papale, aveva parteggiato quasi sempre per l'imperatore dal quale, nel 1230, aveva avuto la contea di Albe nei Marsi. Faceva parte della strategia politica di Federico II l'accattivarsi le simpatie dei rappresentanti della nobiltà romana ostili al papa. Il matrimonio di Margherita di Poli con il figlio naturale dell'imperatore rientrava appieno in questo programma strategico.
F., grazie anche ai possedimenti ereditati dalla moglie, estese il suo patrimonio a parecchi territori del Lazio e dell'Abruzzo, tra cui i feudi di Anticoli e Saracinesco in Val d'Aniene e, più tardi, quelli di Sambuci e Piglio. Il matrimonio di F. con Margherita di Poli non significò solo l'unione di più feudi nelle mani di F., ma anche l'inserimento della famiglia di sangue svevo nelle vicende della nobiltà romana.
Dal 1240 al 1245 i documenti non forniscono informazioni su Federico d'Antiochia. A Cremona, nel luglio del 1245, F. ebbe dal padre l'investitura di cavaliere e fu chiamato a difendere gli interessi della sua casata contro gli irriducibili nemici degli Svevi. In quello stesso mese l'imperatore era stato scomunicato e deposto dal concilio di Lione. In un momento così critico per il partito ghibellino, egli affidò ai suoi figli illegittimi i ruoli più importanti. Pasquale Ridola (1886, p. 198) sottolinea che tra i figli dell'imperatore "i bastardi valsero più che i legittimi" e questi ultimi "sparirono al confronto di Enzo e Manfredi, e persino innanzi a Federico d'Antiochia, nella cui discendenza fu destino che dovesse più lungamente sopravvivere la casa di Svevia".
L'imperatore nel febbraio del 1246 nominò F. suo vicario generale in Toscana e nel Patrimonio di S. Pietro in Tuscia, al posto del corrotto Pandolfo di Fasanella (v.). F. ricoprì tale incarico fino al 1250, anno della morte del padre. Ma dal 1248 reggeva solo la vicaria imperiale della Toscana perché il resto era stato affidato a Galvano Lancia il quale, di lì a qualche anno, diventerà consuocero di F., in quanto la figlia Beatrice sposerà Corrado, primogenito dello stesso Federico d'Antiochia.
Dal 1246 al 1250 F. esercitò anche le funzioni di podestà di Firenze, distinguendosi per la rigidità con cui riorganizzò le strutture amministrative e militari della città e del contado di pertinenza. Raramente esercitò di persona il ruolo di podestà che spesso affidava a suoi vicari di fiducia. Forse proprio per questo fallirono quasi sempre i suoi tentativi di mediazione per riportare tranquillità e pace tra le fazioni che tormentavano la città. Del resto F., per sua natura, con gli avversari era più portato ad usare il pugno di ferro che la persuasione. Diversi sono gli episodi che testimoniano questa sua condotta. Comportandosi da vero despota, cacciò da Firenze e punì con severità i capitani del popolo accusati di parteggiare per i guelfi. Questi ultimi, nel 1248, furono banditi dalla città e inseguiti fin dentro i castelli dove andarono a rifugiarsi.
F. è descritto dalle cronache come uomo molto attivo e valente condottiero. Un lieve problema fisico a una gamba non attenuò mai le sue doti di uomo d'azione. Durante l'esercizio del suo vicariato in Toscana, sia per esigenze di natura amministrativa, sia per campagne militari, F. si mosse in tutti i territori della sua giurisdizione: da Siena ad Arezzo, da Prato a Poggibonsi a San Miniato. Alla fine del 1246 si trovava a Orbetello. A metà dell'anno successivo si mosse tra Orvieto e Perugia, località che raggiunse con una nuova spedizione anche tra il luglio del 1249 e il marzo dell'anno successivo.
Gabriele Paolo Carosi (1983) sottolinea che già dal 1246, a Firenze, accanto a F. c'era il capo dei ghibellini fiorentini, Manente degli Uberti, immortalato da Dante col nome di Farinata. A costui si rivolgevano tutti coloro che volevano ottenere favori dal figlio naturale dell'imperatore.
A Firenze F. non s'incontrò mai con il padre perché un astrologo aveva predetto all'imperatore che sarebbe morto in una civitas florentina. Si incontravano in qualche altra città della Toscana. È noto un abboccamento avvenuto nel 1247 a Siena, città fortemente impegnata nel sostegno dei ghibellini e della parte imperiale. Federico II vi fece tappa per incontrare il figlio in occasione di un viaggio che avrebbe dovuto portarlo a Lione. Ma nella città francese l'imperatore non poté arrivare perché trattenuto in Italia dalle sommosse contro i ghibellini scoppiate a Parma. E proprio durante il drammatico assedio di Parma, nell'agosto del 1247, F. lasciò la Toscana per soccorrere il padre. In quella occasione ebbe modo di incontrare tutto lo stato maggiore dell'imperatore tra cui il fratellastro Enzo. A Parma F. non poté trattenersi a lungo perché fu costretto a ritornare in Toscana per fronteggiare i guelfi, guidati dal legato papale Ottaviano Ubaldini (v.), intenzionati a riconquistare Firenze.
Durante il vicariato imperiale in Toscana F. ottenne due importanti successi. Nel 1247 riuscì a riconquistare la città di Viterbo che, costretta alla fame per una lunga carestia, fu indotta a implorare il suo perdono. L'altro avvenimento, ancor più importante, fu la rioccupazione di Firenze nel febbraio del 1248. La città toscana era ritornata in potere dei guelfi proprio a seguito della ribellione contro i ghibellini scoppiata a Parma, che ebbe ripercussioni in molte città d'Italia. Nel gennaio del 1248 F. si diresse verso Firenze con un esercito di milleseicento cavalieri. Pose il suo quartier generale a Prato dove reclutò altre milizie. Alla fine dello stesso mese F. sferrò il colpo decisivo e, dopo aver accerchiato l'esercito guelfo, che resistette per due giorni, la notte della Candelora, e cioè il 2 febbraio, disperse tutti i nemici e occupò la città. Secondo la cronaca di Giovanni Villani i prigionieri vennero tutti uccisi, eccetto Rinieri Buondelmonti che fu solo accecato (1844, pp. 224, 254). Molti nobili guelfi si rifugiarono a Capraia dove il 25 aprile decisero di arrendersi a Federico d'Antiochia. Fu questa la sua ultima impresa vittoriosa in terra di Toscana dove la lotta tra guelfi e ghibellini diveniva, di giorno in giorno, sempre più incandescente rendendo a F. estremamente difficile il governo della provincia.
Nel 1249 corse voce per la Toscana che F. fosse morto a seguito di una rivolta dei guelfi fiorentini, ma è ben documentata la sua presenza a Firenze il 24 giugno del 1250, in occasione della festa di s. Giovanni. Nel settembre di quello stesso anno subì una pesante e inaspettata sconfitta. F. guidava parte delle sue truppe all'assedio del castello di Ostina in Valdarno, occupato da esuli guelfi di Firenze. Proprio queste truppe, di notte, furono sorprese da milizie guelfe, provenienti da Montevarchi, e costrette alla fuga. La disfat-ta alimentò la rivolta dei guelfi fiorentini che F. dovette fronteggiare. A questo scopo era a Poggibonsi quando lo raggiunse la notizia della morte del padre, avvenuta il 13 dicembre del 1250. Questo evento fece precipitare la situazione anche in Toscana al punto che F. non fu più in grado di controllarla né di arginare il declino del suo partito. Mentre i suoi collaboratori abbandonarono immediatamente la provincia, egli vi si trattenne fino all'autunno del 1251.
Nel periodo in cui fu vicario in Toscana e podestà di Firenze, F. era da tutti chiamato 're', non solo come segno di rispetto perché figlio dell'imperatore ma anche per i poteri straordinari che gli erano stati conferiti. Amava molto fregiarsi di quel titolo anche se non gli fu mai conferito ufficialmente. Tale titolo è attribuito a F. in alcune cronache, in atti notarili e in quelli di molti comuni. Robert Davidsohn (1972) ricorda che nei protocolli del consiglio comunale di S. Gimignano è indicato come re almeno una cinquantina di volte.
Il nuovo imperatore Corrado IV, appena sceso in Italia, si mostrò benevolo nei confronti del fratellastro F., il quale, nel febbraio del 1252, era già al suo seguito nella Puglia settentrionale. Sempre in quell'anno, a Foggia, l'imperatore confermò a F. il possesso della contea di Albe e gli concesse quelle di Celano e di Loreto Aprutino, anche se non ancora riconquistate. Nonostante la benevolenza dell'imperatore, F. decise di appoggiare l'altro fratellastro, Manfredi, che era in aperto contrasto con Corrado IV. Questa scelta gli alienò ben presto le simpatie dell'imperatore che nel 1253 lo bandì dal Regno costringendolo a fuggire insieme ad altri partigiani di Manfredi.
All'improvviso il quadro politico mutò. L'imperatore Corrado IV morì nel maggio del 1254, mentre il papa Innocenzo IV era tornato in Italia da Lione. Ad Anagni, dove il papa risiedeva, a seguito di una convocazione, andarono a trovarlo sia F. che Manfredi per discutere la possibilità di un accordo. Si trattò per ben quindici giorni ma senza esito. F. e Manfredi furono scomunicati insieme a molti altri loro sostenitori. Ma nel novembre di quello stesso anno, forse a seguito di trattative private, il papa riconobbe a F. i possedimenti delle contee di Albe, Celano e Loreto Aprutino, qualificandolo nel documento come suo fedele.
Ad Innocenzo IV successe, nel dicembre del 1254, il debole Alessandro IV. Manfredi intanto aveva organizzato un potente esercito, costituito soprattutto da milizie saracene residenti a Lucera, con il quale, nella prima metà del 1255, conseguì importanti vittorie in Puglia e in Calabria, contro l'esercito pontificio guidato da Ottaviano Ubaldini. F., intanto, si era messo nuovamente a disposizione del fratellastro Manfredi e quando i soldati pontifici riuscirono a impadronirsi di Foggia F., che si trovava nei pressi dell'Ofanto, raggiunse subito Manfredi e, insieme, assediarono la città pugliese che, verso la fine del 1255, fu costretta a capitolare, stremata dalla fame e da una febbre contagiosa.
Ai primi dell'anno successivo, per le fatiche della guerra e per un morbo che lo colpì, F. cessò di vivere. La notizia è riportata dal Chronicon Lauretanum. Scompariva così dalla storia "una delle più seducenti figure dell'epoca sveva", come Robert Davidsohn (1972, p. 435) lo definì.
Tutti i beni di F. passarono al figlio primogenito Corrado d'Antiochia (v.) che ne proseguì le gesta riempiendo ben presto il vuoto che il padre aveva lasciato all'interno del movimento ghibellino italiano.
F. trascorse la maggior parte della sua vita a contatto con un ambiente di corte certamente colto. Egli stesso, come il padre, era cantore e poeta e, secondo Kantorowicz, straordinariamente dotato. Giosuè Carducci, Robert Davidsohn e Piero Bargellini hanno attribuito a F. almeno tre composizioni: Dolze meo drudo, Poiké ti piace, Amore e Oi lasso non pensai. Ma Ernst Voltmer ha affermato che "secondo la critica più recente è poco probabile che le tre note canzoni attribuite nella tradizione manoscritta a 're Federigo' siano opera di Federico d'Antiochia" (1995, p. 667).
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