FEDERICO da Montefeltro, duca di Urbino
Nasce a Gubbio (Perugia) il 7 giugno 1422, frutto, ci si affretta a spiegare, d'una relazione tra il maturo conte di Montefeltro ed Urbino Guidantonio ed una giovane "soluta", ossia non sposata; per rendere costei un po' meno fantomatica le si sono poi attribuite le fattezze d'una damigella di corte, Elisabetta degli Accomanducci dei conti di Petreio, in seguito sposa ad un conte Bandi riminese, cui darà un figlio, chiamato anch'egli Federico.
A prescindere, comunque, dal nome della madre, la versione ufficiale, unica valida per l'interessato, è quella a dir della quale F. è figlio naturale di Guidantonio, da questi salutato con gioia ché angustiato dalla sterilità del suo matrimonio, celebrato ancora nel novembre del 1397, con Rengarda Malatesta. E quest'ultima - la moglie legittima ferita nell'intimo dall'animazione eccitata della piccola corte per la provvidenziale nascita del sospirato erede maschio - dev'essere la fonte prima della notizia, fatta propria dai Malatesta e da loro scagliata contro F., che egli non sia figlio di Guidantonio suo consorte, bensì di Bernardino Ubaldini della Carda. Versione che, per quanto respinta con veemenza da F. quale calunniosa diceria inventata dalla propaganda malatestiana, non merita certo d'essere scartata dal momento che Pierantonio Paltroni, che di F. sarà segretario e biografo ufficiale, non s'azzarderà ad escluderla. E scriverà che F., "qual ch'el fusse et figliolo de Bernardino et de casa degli Ubaldini, per omni modo è manifesto el decto conte Federigo esser nato da preclarissima stirpe". Un'ammissione, in fin dei conti, questa dell'autore dei Commentari della vita di F. che legittima a così riscriverne la vicenda della nascita: rimasta incinta Aura, figlia naturale di Guidantonio e moglie legittima dell'Ubaldini, se ne tiene nascosta la gravidanza sì da poter far figurare il nascituro come figlio di Guidantonio e di madre ignota. Sicché - dopo il parto segreto del neonato - questi viene portato a corte e vantato da Guidantonio come proprio figlio. Una paternità con tutta probabilità fittizia che costituisce, comunque, la salda premessa, non scalzata dalle voci in contrario, delle future affermazioni di Federico.
Morta, il 26 sett. 1423, Rengarda Malatesta, la sterile moglie di Guidantonio, questi si risposa, nel febbraio del 1424, a Roma, per procura, con Caterina Colonna, nipote del papa Martino V. Giunta ad Urbino, il 4 marzo, la nuova sposa di Guidantonio, il piccolo F. - divenuto d'un tratto per la corte un imbarazzante bastardo - è già stato prudentemente allontanato e sin nascosto nella vicina "Badia de Gayfa". Ma non per molto: visto che la moglie non rimane incinta, Guidantonio riesce a convincerla ad accettare la presenza di F. a corte. Va da sé, però, che, se così asseconda il marito, nel contempo cresce in lei un'indomabile avversione per il piccolo F., il cui rientro, il 27 novembre, a corte è concomitante colle pratiche di legittimazione avviate a Roma da Guidantonio di nuovo in ambasce per la mancata gravidanza della consorte che, evidentemente, pretenderebbe immediata. Un sollievo per l'ansioso Guidantonio la bolla papale del 20 dicembre con la quale F., riconosciuto figlio suo e di donna non sposata, viene abilitato a succedergli fatti salvi i diritti d'eventuali figli legittimi. Troppo impaziente Guidantonio nella sua spasmodica incapacità d'attendere. Con tutta probabilità prima ancora che arrivi la bolla papale Caterina Colonna, la moglie, ha la certezza d'essere incinta; ed il 4 luglio 1425 dà alla luce Raffaello Maria che muore l'indomani. Un parto prematuro, dunque, forse anche per l'eccesso di tensione con la quale è stata vissuta la gravidanza. Tutt'altro che infeconda, ad ogni modo, la contessa: il 18 genn. 1427 mette al mondo Oddantonio - è questi l'erede legittimo salutato con giubilo incontenibile e dalle felicitazioni dei principi d'Italia - e successivamente, tra il 1428 ed il 1434, ben quattro figlie, una sola delle quali morrà un paio di mesi dopo il parto, mentre le altre giungeranno al matrimonio.
Sin traumatizzante, però, per F. la sua situazione ad Urbino: non appena accolto col crisma del riconoscimento papale, l'ostilità della matrigna finalmente incinta si fa esplicita. Egli diventa, ai suoi occhi, l'intruso che potrà insidiare la posizione della prole legittima. Opportuno, allora, l'allontanamento di F.; ma questa volta - legittimato com'è dalla bolla papale - non è più necessario nasconderlo. Lo si può collocare onorevolmente e lungi dallo sguardo diffidente d'una matrigna fiera della propria appurata fecondità. Avveduto e sollecito Guidantonio l'affida a Giovanna Alidosi, vedova di Bartolomeo Brancaleoni, signora di Sant'Angelo in Vado e Mercatello, nell'alta valle del Metauro; la vedova sarà per F. come una madre amorevole, ché promesso sposo della sua sola figlia Gentile, unica erede della contea della Massa Trabaria. Quanto ai legami di consanguineità - la nonna paterna di Gentile era zia di Guidantonio - Martino V autorizza, il 19 sett. 1425, il vescovo d'Urbino Giacomo Balardi alla dispensa, che questi prontamente rilascia l'11 ottobre. Fidanzato a tre anni, F. ha così il destino garantito quanto meno dai possedimenti e dai feudi di Bartolomeo Brancaleoni, mentre la sua infanzia può finalmente rasserenarsi per le cure affettuose della futura suocera. E, quando - vittima d'un'affezione cutanea al volto - rischia la vita, è anche grazie all'assidua assistenza di Giovanna Alidosi che riesce a salvarsi, sia pure marchiato dalla verruca che sarà - nella tradizione iconografica - suo tratto tipico, quasi suo contrassegno.
Alla fine di febbraio del 1433 Guidantonio consegna ad Andrea Dandolo, uomo politico veneziano, F. perché l'accompagni a Venezia, ove rimane per 15 mesi ostaggio della Serenissima, allora garante del complicato accordo - sancito a Ferrara con la pace del 26 aprile e sottoscritto anche da Guidantonio il 21 luglio - tra il papa Eugenio IV e il duca di Milano Filippo Maria Visconti, al quale, non senza irritazione pontificia, Guidantonio s'era accostato. Indubbiamente importante per F. fanciullo, sino allora mai uscito dall'ambito circoscritto dei colli marchigiani, il prolungato soggiorno lagunare: s'imprime nella sua mente il fascino urbano di Venezia e in questa condivide i raffinati divertimenti d'una compagnia della Calza, quella degli Accesi, formata dai rampolli della miglior aristocrazia. Influente questo contatto con Venezia sulle successive propensioni architettoniche di E; e non senza un qualche riecheggiamento d'una qualche suggestione lagunare il futuro attivarsi in F. uomo fatto e del miraggio della città ideale e della volitiva determinazione ad una tangibile realizzazione d'esemplare splendore non dimentica di quello sperimentato a Venezia.
Rilevanti, altresì, e sin strutturanti, ai fini della formazione di F., i due anni successivamente trascorsi a Mantova, dove Guidantonio, amico del marchese Gianfrancesco Gonzaga, ottiene di trasferirlo. Qui - nella stimolante atmosfera della "casa gioiosa" dove studiano anche i figli del marchese Carlo e Ludovico - F. è l'allievo prediletto di Vittorino da Feltre che, entusiasta dell'indole "divina" del giovanetto, pel quale profetizza grandezza militare, sembra quasi voler impegnare nella sua istruzione il massimo delle proprie capacità pedagogiche. "Philosophum tibi reddere conabor", avrebbe, infatti, scritto a Guidantonio, stando alla testimonianza di Francesco Prendilacqua, condiscepolo di F. a Mantova e futuro rappresentante gonzaghesco ad Urbino, il cui De vita Victorini... dialogus... (stampato a Padova nel 1744), al di là della dedica a F., si risolve in un elogio di questo. Sin programmatica, comunque, da parte di F. la venerazione del "santissimo" maestro per la lezione inobliabile d'umanità in lui infusa "litteris exemploque".
Più tarda, comunque, quest'assunzione di Vittorino da Feltre a figura esemplare e propria d'un uomo che, non pago del trionfo nella prassi, vuole, a sua volta, stagliarsi come esempio d'umana compiutezza. Pel momento F. giovanetto, rientrante nelle Marche da Mantova sgrezzato nel tratto e spruzzato di studi, non è ancora a tal punto determinato. Successive le sue ambizioni a campeggiare con un inciso profilo di uomo di Stato e d'uomo di cultura. Quello che conta, nell'immediato, è il progressivo consolidamento della sua posizione. Utile, a tal fine, il matrimonio, del 2 dic. 1437, di F. con Gentile Brancaleoni: all'adolescenza acerba dei suoi 15 anni si offre la mite gentilezza d'una sposa ormai prossima ai 21 anni. Confezionata dai calcoli accorti di Guidantonio la coppia, formata in base alla convenienza, ma non male assortita: F., amante degli esercizi equestri e di rudi cimenti, può contare sull'assecondante comprensione d'una moglie più matura, disposta a rimanere nell'ombra, a subire senza proteste un ruolo di discrezione paziente ed accondiscendente. Senza disturbare le partenze del guerriero, deve saper attendere i suoi ritorni.
Nelle armi, infatti, il destino di F. che inizia il 9 maggio 1438 quando parte da Urbino per Milano ove l'attende -malgrado l'opposizione della matrigna Caterina Colonna, che morrà di lì a poco, il 9 ottobre - il "governo" della compagnia feltresca, già sottoposta al comando di Bernardino Ubaldini della Carda, il probabile padre naturale di F. scomparso a Cremona ancora il 24 maggio 1437. Dopo aver stupito Filippo Maria Visconti colla recita d'una forbita orazione, F. assume il comando degli 800 "cavalli" della compagnia così militando al servizio del duca di Milano e agli ordini di Niccolò Piccinino. Mercenario al soldo visconteo F., ma non esclusivamente, se, coinvolto nei contrasti tra Guidantonio e i Malatesta, conquista, con Baldaccio d'Anghiari, il 24 nov. 1439, il Tavoleto. E, nel dicembre, è ferito, piuttosto seriamente, a Campli; sicché, per ristabilirsi, è costretto a rimanere ad Urbino sino al febbraio del 1440.
Un forzato riposo tutt'altro che sgradevole dal momento che - lungo questo - F. ha modo d'esplicare agevolmente quella "libidine" che Paltroni, suo cancelliere e biografò autorizzato, dice sua caratteristica. "Questo difecto et mancamento" - preciserà Paltroni, coll'assenso, è da supporre, compiaciuto del biografato - "multo lo demonstrò in questa tornata" di pausa nello "stato paterno... copiosissimo de dilicatissime e piatosissime donne". Razzolante tra queste F. "in lo fiore de la età giovanili" e non senza esibizionismo: è egli stesso, infatti, a promuovere una raccolta di rime, scritte, tra il 1440 ed il 1444, da suoi amici, specie da Angelo Galli, nella quale questo suo donneggiare riecheggia ingentilito. V'è già dell'autocompiacimento narcisistico in F. adolescente che sollecita il commento in versi alle sue prodezze amatorie. E quest'individualismo, per ora balbettante e di facile contentatura, esiterà poi nel protagonismo umanisticamente addobbato che s'avverte nella meticolosissima cura colla quale F. vorrà affidare la propria immagine ai ritratti.
Sopiti i contrasti coi Malatesta con la pace del 26 marzo 1440, subentra il ben più grave conflitto tra Milano e Firenze. E in questo F., al pari di Guidantonio, è fedele al Piccinino anche dopo la clamorosa sconfitta da questo subita ad Anghiari il 29 giugno. In un tumultuoso cangiare di schieramenti e in un confuso scontro d'appetiti F. si batte soprattutto contro Sigismondo Pandolfo Malatesta: mette a sacco Santa Croce in quel di Sassocorvaro ed è, all'inizio di settembre del 1441, battuto a Montelocco, ove riporta una lieve ferita; si vendica poi, l'11 ottobre, con una vigorosa scorreria di ritorsione nel Riminese. Segue, il 22, la strepitosa espugnazione dell'imprendibile, sino allora, rocca di San Leo. A un'impresa che alona il giovanissimo capitano di gloria definitiva, forte della quale si dice pronto ad annientare in breve l'avversario. Tremi "el signor Sigismondo... gl'abbruciaremo fino ad Arimino prima che passi otto di". Ma non può procedere a tanto: lo bloccano forti pressioni e s'interpone il duca di Milano. Donde l'accordo del 20 novembre tra Guidantonio e il Malatesta, in virtù del quale questi s'impegna a restituire al primo i castelli sottratti.
S'aggiunge, il 2 giugno 1442, il matrimonio di Violante, figlia legittima di Guidantonio e della sua seconda moglie, appena dodicenne col signore di Cesena Domenico Malatesta, detto Malatesta Novello, fratello di Sigismondo Pandolfo. Un apparentamento predisposto anche da F., coll'aiuto di Piccinino. Così, da parte di F., per ottemperare all'orientamento di Guidantonio, anche se sa che una pace definitiva coi Malatesta non è nei propri interessi, anche se avverte quanto i riguardi di Sigismondo Pandolfo privilegino Oddantonio, l'erede legittimo, seguito nella linea successoria da Violante. Stazionante, con le genti di Piccinino, nell'inverno del 1442-43 tra Gualdo e Assisi, F., nel febbraio del 1443, accorre al capezzale di Guidantonio che spira nella notte tra il 19 e il 20, essendo poi sepolto in abito di cordigliero nella chiesa urbinate di S. Bernardino. Di nuovo ad Assisi, F. di qui si porta a Siena, ove, lusinghieramente presentato dal Piccinino, rende omaggio ad Eugenio IV, dal quale viene investito della contea di Sant'Angelo in Vado e Mercatello con una ventina di castelli della Massa Trabaria sparsi lungo il Metauro, ottenendo il relativo titolo comitale. Col che il territorio già di Bartolomeo Brancaleoni - sul quale F., sposo di sua figlia, esercita i diritti a questa spettanti - diventa, da appannaggio ereditario della consorte, suo.
Andato a vuoto il tentativo su Terracina difesa da Ciarpellone, F., al seguito di Piccinino, concorda, a Civitavecchia, con Alfonso d'Aragona un attacco concentrico, per sloggiare Francesco Sforza dalle Marche. E segue il re a Napoli dove ottiene del denaro che, sommato a prestiti ricevuti a Viterbo, gli permette di muovere, con truppe riordinate, alla volta delle Marche. Qui lo Sforza, schivando lo scontro frontale, ripara a Fano indebolito dal tradimento di due suoi capitani e dalla defezione di Iesi, Fabriano, Sanseverino e altre località minori. Agevole, per F., togliere al nemico Sassoferrato e restituirla all'abate Abigi degli Atti. Ma la stretta sullo Sforza s'allenta ché Alfonso d'Aragona abbandona l'impresa e s'annunciano soccorsi veneziani già arrivati nelle terre di Sigismondo Pandolfo Malatesta. Deciso ad intercettarli Piccinino si porta a Monteluro essendovi, però, battuto l'8 novembre. Ridottosi l'esercito sconfitto a Fabriano, F. s'affretta a difendere Pesaro - signore di questa Galeazzo Malatesta sposo di Battista da Montefeltro, sorella di Guidantonio - minacciata dal signore di Rimini. Non più praticabile una vigorosa ripresa antisforzesca, tanto più che Piccinino, richiamato in Lombardia, non è in grado d'impegnarvisi. Irreparabile poi la disfatta subita, il 19 ag. 1444, da suo figlio Francesco, rimasto a capo delle forze antisforzesche, a Montolmo; e il già provato condottiero se n'accora a tal punto da morime, di lì a poco, il 16 ottobre. Ma ferma, in compenso, pur nello scorazzare protervo degli Sforzeschi, la difesa di Pesaro - di cui è governatore e, di fatto, signore essendosene pavidamente allontanato Galeazzo Malatesta - da parte di Federico. Ed egli sta, appunto, presidiando Pesaro, quando, nella vicina Urbino, viene trucidato, il 22 luglio 1444, da un deciso manipolo di congiurati Oddantonio inviso pel suo eccessivo fiscalismo e per la "smodata lussuria" - così Enea Silvio Piccolomini, il futuro Pio II - colla quale aggrediva violentando e stuprando popolane non senza imperversare "libidinosamente sulle nobildonne", attirandosi, per questo, l'odio feroce della nobiltà. Tant'è che una volta trafitto Oddantonio da pugnalate e finito con un colpo d'ascia alla testa, il suo cadavere viene gettato in strada; e qui su questo s'infierisce, gli si tronca il sesso, glielo si rinchiude tra i denti. E, nel frattempo, qualcuno corre al galoppo alla volta di Pesaro ad avvisare F., il quale, il 23 luglio, di pomeriggio, entra trionfalmente ad Urbino tra ali di folla plaudente essendovi acclamato nuovo signore.
È F., dunque, il beneficiario dell'assassinio del fratello; tale è infatti Oddantonio, figlio legittimo di Guidantonio padre naturale di F., a detta della bolla di Martino V. Ma ne è anche responsabile, come subito sostiene la propaganda malatestiana che non esita ad accusarlo di fratricidio? Comprensibile F. ostenti fieramente sdegno nei confronti d'ogni benché minimo sospetto sulla sua totale estraneità alla congiura, ritenga offensiva ogni perplessità e titubanza sulla sua proclamata innocenza. Epperò Piccolomini ricorderà la congiura organizzata e riuscita "non sine conscientia, ut creditum est", di Federico. Vuol dire che, pei contemporanei, F. è, quanto meno, sospettabile di connivenza. A detta d'un'anonima cronaca veronese la congiura nasce già determinata all'eliminazione d'Oddantonio "per lo mal vivere" e alla simultanea chiamata come "novo signore" di Federico. E ciò "con consentimento, o sia non l'oviando" da parte di Federico.
Se F. non è il tenebroso architetto del fulmineo colpo di mano come lo dipingono i Malatesta, non è nemmeno candidamente ignaro della trama; né la notizia della sua sanguinosa riuscita lo coglie alla sprovvista. Prontamente avvisato, già al mattino del 23 è sotto le mura d'Urbino. Sbarrate, però, le porte di questa, ché - durante la tumultuosa assemblea di maggiorenti e popolo allora in corso - i più (evidentemente all'oscuro che F., pur sapendo della congiura, non ha mosso dito per fermarla) paventano in lui il tremendo vindice del fratello assassinato. Ma sul panico istintivo della popolazione finisce per prevalere il ragionamento proprio della minoranza direttamente responsabile della congiura. Si aprano le porte al nuovo Signore, previo impegno di questo a non procedere ad alcuna punizione nei confronti degli assassini di Oddantonio -è questo il primo dei 21 capitoli del patto, sottoscritto da F. - nonché a venire incontro ad una serie di richieste nelle quali s'avverte l'esigenza (propria d'una sorta d'incipiente borghesia delle professioni e dei commerci e presente anche tra i proprietari terrieri) da un lato ad un'attenuazione della pressione fiscale e dall'altro ad una generalizzata estensione di questa, con soppressione quindi delle sacche di privilegiata esenzione nobiliare. Ed è solo dopo aver giurato - sull'ostia consacrata innalzata dal vescovo Antonio Altan che a F. è, peraltro, favorevole - il rispetto d'ogni articolo del patto, che F. entra ad Urbino solennemente proclamato conte e signore di questa.
Sollevato di colpo ad una posizione di netto rilievo, non è tuttavia che - lungo il progressivo consolidarsi ed allargarsi di questa - venga riassorbita e scordata l'accusa di fratricidio subito scaraventatagli addosso dai nemici Malatesta. Né questa rimane circoscritta se - come riferirà in una lettera del 16 ott. 1479 al marchese di Mantova Federico Gonzaga, Matteo Contugi da Volterra, uno dei quattro copisti (a lui si deve la trascrizione della Commedia dantesca dell'attuale cod. Vat. Urb. Lat. 365, celebre per le sontuose miniature) allora al servizio di F. nonché suo funzionario - l'epiteto di "Caino" è riserbato a F. da uomini del duca di Calabria Ferdinando d'Aragona, che pur, assistito e guidato da F., sta militando dalla stessa parte. Dopo tanti anni la lugubre ombra d'Oddantonio accompagna, dunque, ancora Federico. Certo non ne intralcia il cammino; purtuttavia ne offusca l'immagine. L'accusa resta non provata. D'altronde come provarla data la fretta colla quale F. s'è impegnato a rinunciare ad ogni indagine in proposito proprio per garantire ai responsabili l'impunità? Comunque le condizioni di favore da lui fatte ai diretti assassini, specie a Pierantonio Paltroni, suo segretario, suo uomo di fiducia negli incarichi più delicati, suonano se non proprio come riconoscimento per la missione compiuta, quanto meno come segnale di contrapposizione al malgoverno di Oddantonio, basata proprio sull'utilizzo di chi a quel malgoverno col pugnale ha posto fine. In merito, poi, al comportamento di F. nei confronti delle tre sorelle - Violante, Agnesina e Sveva - dell'assassinato, esso non soltanto è ingeneroso, ma rasenta sin l'estorsione ed il ricatto: Violante sarà costretta, nel 1466, a rinunciare ai suoi diritti per l'irrisoria cifra di 1.000 ducati: Agnesina morrà senza riuscire ad avere soddisfazione per la dote e per l'eredità; Sveva, la più piccola, sottratta, par di capire dallo zio materno, il card. Prospero Colonna, alle insidie incestuose di F. "fratris naturalis", nel 1471 starà ancora reclamando quanto le spetta.A capo d'una contea assottigliata da perdite recenti e stremata finanziariamente dalla necessità di fronteggiare gli appetiti malatestiani, sta a F. salvaguardarla traendo dalle condotte militari quei mezzi finanziari che s'è impegnato a non pretendere dall'imposizione tributaria. Si tratta d'inserirsi in una situazione che vede vincente Francesco Sforza senza che il papa, dopo la pace di Perugia del 10 ott. 1444, pel momento gli si opponga. Avveduta, pertanto, da parte di F., l'offerta a quello dei propri servigi. E conveniente l'accettarli Per lo Sforza: F. vale bene come contrappeso alle pretese del genero Sigismondo Pandolfo Malatesta ed il suo Stato può fungere da rifugio nell'eventuale aggravarsi delle circostanze. Di qui la stipula d'una condotta che impegna Federico.
Furibonda la reazione del signore di Rimini dalla cui Cancelleria parte una lettera carica di vituperi per F., tra i quali spicca quello di fratricida. Sullo stesso piano la reazione di F.: frutto di turpe connubio - sarebbe "figliolo de Marchisio", facchino bergamasco -, Sigismondo Pandolfo Malatesta è un ignobile compendio di basse voglie e nefande pratiche, è colpevole d'uxoricidio, tradimenti, ladrerie, sacrilegi. Equivalenti i due nella gara ad infamarsi a vicenda. Ma, sul piano dei fatti, F. ha la meglio quando - con la convenzione del 15 genn. 1445 - Galeazzo Malatesta, dietro compenso, cede Pesaro ad Alessandro Sforza, fratello di Francesco, e Fossombrone allo stesso Federico. Un colpo durissimo per gli interessi del signore di Rimini, il quale - visto che l'operazione è stata voluta pure dal suocero - non può nemmeno manifestare il proprio ribollente disaccordo. E, in cuor suo già meditando di passare al soldo della Chiesa, deve, per di più, acconciarsi ad accondiscendere alla tregua con F. arbitrata da Francesco Sforza. Ma questa non è che una pausa. Quando, nell'estate, Alfonso d'Aragona ed Eugenio IV s'alleano per cacciare lo Sforza - che ha dalla sua Firenze e Venezia - dalle Marche, il Malatesta ne approfitta per mettere in campo contro F. Carlo Fortebracci da Montone. Una riapertura d'ostilità che, con la tregua del 25 ottobre, deve però rientrare. Non per questo la situazione per F. si rasserena: l'anno seguente le forze della Chiesa premono sulle sue terre e, approfittando del carnevale, una congiura interna, fomentata dal Malatesta, tenta di sopprimerlo.
Sussulto rancoroso d'una piccola nobiltà feudale - la più legata alla terra, la più ferita dall'abolizione del privilegio fiscale -, il tentativo, male organizzato e privo dell'appoggio dei nobili cittadini, abortisce. E la pubblica decapitazione dei tre principali responsabili da un lato chiude l'episodio, dall'altro è monito valido a rimuovere definitivamente propositi eversivi. Sconfiggendone il conato rivoltoso, F. tacita, una volta per tutte, le velleità oppositive nobiliari. Proprio perché agevolmente vittorioso, F. capisce che la minaccia sventata l'ha rafforzato. "El male - così F., il 31 marzo 1446, a Cosimo de' Medici "me advenne per bene et fermeza de lo stato mio". Mirava all'eliminazione del suo dominio e ne ha, invece, evidenziata la tenuta e, pure, il consenso. "Io ho per quello - ossia grazie al male" - conosciuta tanta fe' et benivolentia de questo popolo et de gl'altri mei tucti, che non ne poria vivare più lieto" (Tommasoli, Vita..., p. 52).
Non altrettanto rallegrante l'andamento bellico: operanti vittoriosamente nel Montefeltro le truppe pontificie che, a fine luglio, serrano da presso Urbino ove ripara Francesco Sforza con la moglie Bianca Maria ed i figli. Per fortuna la sconfitta inflitta, il 29 settembre, a Casalmaggiore da Micheletto Attendolo ai Viscontei riequilibra una situazione altrimenti compromessa. E ad imprimere una decisa svolta agli avvenimenti concorre la scomparsa, del 23 febbr. 1447, d'Eugenio IV che, il 14 apr. 1446, non aveva esitato a scomunicare lo Sforza e Federico. Pagante, ad ogni modo, per questo la fedeltà sforzesca: Firenze si dichiara totalmente disponibile alla "conservatione et amplitudine et della sua magnifica persona et del suo stato"; "alto concepto", altresì, della "bontà et integrità" di F. nutre Venezia. Ed il voltafaccia, del novembre, del signore di Rimini che - proprio quando Alfonso il Magnanimo sferra l'offensiva antifiorentina attestandosi nel Senese -, anziché raggiungerlo, passa al soldo della Signoria, è indicativo di volontà competitiva nei confronti di F. non già sul piano della contrapposizione armata, ma, militando dalla stessa parte, dell'emulazione.
Determinato, insomma, il Malatesta ad un confronto con F. - che, sullo scorcio del 1447, dà buona prova di sé riprendendo alcuni castelli nel Volterrano e fronteggiando gli Aragonesi minaccianti Pisa e Livorno - in termini di valentia nella speranza di prevalere nella stima dei principi, di svalutare il rivale in quel serrato gareggiare imposto dal mercato delle armi accreditandosi, nel contempo, tanto più quanto più riesce a distanziare, in valore e reputazione, Federico. Non senza astuzia Firenze concede pari potere ed analogo numero d'effettivi ad entrambi, quasi a stimolarli ad una gara che - collocando presso ambedue un proprio autorevole commissario - rimane sotto il suo controllo, è da lei pilotabile. Ma pure abile Alfonso d'Aragona coll'offerta, assai tentante, a F. d'una condotta alle medesime condizioni fattegli dalla Signoria purché s'impegni all'intervento attivo nel territorio malatestiano. Ma F. - cui, nel luglio 1447, il papa Niccolò V concede, anche per pressione di Francesco Sforza, la bolla d'investitura pel vicariato in temporalibus su Urbino, Cagli, Fossombrone (acquistata da lui ancora nel dicembre 1444 - gennaio 1445 per 13.000, ducati aurei), Gubbio e il Montefeltro; e va da sé che il vicariato apostolico legittima e sancisce la sua posizione -, per quanto tentato, preferisce non mutar bandiera. E così cresce in reputazione d'uomo leale ed aumenta la sua forza contrattuale: nel rinnovo, dell'aprile 1448, della condotta ai 300 fanti e alle 405 lance della precedente s'aggiungono, da parte della Signoria, altre 101 lance. Ma non per questo F. vince la gara col Malatesta, la cui statura aumenta ancor più pel fulmineo attacco, vibrato alle spalle degli Aragonesi assedianti Piombino. Una travolgente iniziativa che - colla simultanea vigorosa sortita degli assediati capeggiati da Rinaldo Orsini - induce, dopo quattro mesi d'assedio, Alfonso d'Aragona, il 10 sett. 1448, a desistere e a ritirarsi. A, quindi, un clamoroso successo pel Malatesta, grazie al quale distanzia nettamente Federico. Battute, il 15 settembre, le truppe veneziane a Casalmaggiore da Francesco Sforza, è Malatesta ad essere inviato, con 2.000 cavalli, in soccorso della Repubblica, mentre F., il 3 ottobre, è incaricato di sventare la ripresa aragonese nel Volterrano.
Spirata a fine febbraio del 1450 la ferma fiorentina, F. ai primi di marzo è a Urbino, ove il denaro convogliato con le lucrose condotte gli attira la simpatia dei sudditi, specie dell'elemento borghese e produttivo, lieto nel constatare come così F. non sia costretto a ricorrere all'inasprimento delle "gravezze". Non più minacciato dalla piccola nobiltà locale - umiliata e ridotta all'obbedienza, quella feudale dopo la fallita congiura, blandita e docile quella urbana e, tutto sommato, orientata a volgersi alla borghesia -, F. può anche permettersi la pubblicazione dei patti sottoscritti nel 1444. E non perché forzato, ma per sua scelta: sa che può rispettarli, senza, per questo, sentirsi particolarmente vincolato. Forte all'interno, sua preoccupazione è quella d'una collocazione non precaria in un contesto mutato, quello dell'insediamento milanese dello Sforza del febbraio-marzo, appoggiato da Firenze e contrastato da Venezia e Napoli. Donde l'accordo del 30 agosto che fissa minuziosamente le condizioni della condotta di F. al soldo dello Sforza. Purtroppo un gravissimo incidente, nella primavera del 1451 - F. sta armeggiando in vista della giostra che dovrà solennizzare la sua partenza; ma la lancia del contendente gli perfora la visiera dell'elmo privandolo dell'occhio destro e della sommità nasale -, a tutta prima mortale, lo costringe per mesi a letto; e ne sortisce definitivamente guercio. Un imbruttimento sul quale la ritrattistica sorvola col ricorso al profilo.
Nel frattempo, durante la prolungata e dolorosa inattività di F., Malatesta si riaccosta al suocero. Sicché F., "habiando" Sforza "tolto... Sigismondo ali" suoi "servitii... et dato a lui quello che dovea avere io", si ritiene "desobligato". E parte per Napoli dove, il 2 ottobre, sottoscrive la condotta sotto le insegne d'Alfonso d'Aragona che prevede, da parte sua, 800 lance e 400 fanti con un compenso calcolabile sui 60.000 ducati. Un impegno che, colla ripresa della guerra in Toscana, si fa, l'anno dopo, operante. Sollecitato da Napoli il 21 giugno 1452, F. - che ha messo a punto un contingente di 500 lance (o, grosso modo, di 1.500 cavalli) e di 2.000 fanti -, coperto alle spalle dal rinnovo della tregua col signore di Rimini, si porta a Perugia quivi, a detta d'un cronista locale, fatto "capitano generale di tutta la gente del re di Ragona", ammontante questa a 6.500 lance e 2.000 fanti. Segue l'assedio di Foiano della Chiana che s'arrende il 2 settembre; interrotto, invece, quello alla Castellina il 5 novembre a causa delle piogge. Riavviata, nella primavera del 1453, la campagna nel Senese e in Maremma, un'epidemia di febbri malariche fa ristagnare le operazioni. S'inferma lo stesso F.: si riapre la ferita dell'occhio perduto e v'è rischio di cecità anche per quello sano. Ceduto il comando al duca di Calabria Ferdinando d'Aragona, ripara a Pitigliano e poi a Siena per poi raggiungere - non appena ristabilito per quel tanto da poter affrontare i disagi del viaggio -, a fine anno, Urbino, mentre, ancora a metà agosto, i Fiorentini riguadagnano Foiano per poi procedere al successivo recupero d'altre posizioni.
Stracche, senza risultati le due campagne del 1452 e del 1453; ma non ne viene fatta colpa a F., al quale, nel settembre del 1453, si rinnova la condotta che prevede l'arruolamento di 700 lance "ad raione di tre cavalli per lancia" e 600 fanti, mentre il compenso annuo è elevato a 86.000 ducati. È evidente che Alfonso il Magnanimo apprezza oltremodo F. e, pur di poter contare su di lui, l'autorizza - in un capitolo della condotta - ad usare, se non c'è guerra in corso, se la compagnia assoldata col proprio denaro è ancora "a casa", gli uomini arruolati contro i suoi nemici. E poiché, ancora all'inizio del 1452, F. s'è valso delle lance e dei fanti riuniti per conto del re di Napoli contro il signore di Rimini, l'autorizzazione vale anche a riconoscere che, in quel frangente, F. non ha commesso abusi, non è stato scorretto.
Episodio culminante, nel 1454, la pace veneto-milanese, del 9 aprile, a Lodi, cui, malgrado iniziali resistenze, anche Alfonso d'Aragona aderisce. Cruccio di F. - nel finalmente raggiunto equilibrio generale della penisola - non vengano scordate le sue divergenze col Malatesta; la soluzione di queste è, a suo avviso, problema d'ordine generale. Il signore di Rimini dovrebbe smettere di molestarlo e, anzi, lo si dovrebbe costringere a restituire quanto ha indebitamente usurpato. Comunque sia, non è che della pace F. si rallegri particolarmente. In quanto condottiero gli vengono a mancare gli enormi introiti della guerra. Con la pace le condotte aragonesi fruttano cifre modeste; ben misera, rispetto a quella pretendibile se il contingente è in armi, la "consueta provixione". Per fronteggiare Malatesta F. dev'essere armato. E nell'impossibilità di caricare i relativi oneri sulle spalle aragonesi (in fin dei conti era questo il senso del capitolo, a lui favorevolissimo, della condotta dell'anno prima), F. ricorre alla raccolta forzosa di danaro, costringe le Comunità a fornire a loro spese un numero d'armati proporzionato a quello degli abitanti. Un incubo per F. la minaccia malatestiana. Necessitano forze per arrestarla e accorta diplomazia per isolarla. Un successo, allora, per F. l'inclusione nell'accordo venticinquennale, avviato il 2 marzo 1455, della cosiddetta Lega italica presieduta da Niccolò V, mentre il Malatesta - su pressione d'Alfonso d'Aragona, in tal senso stimolato da F. - ne viene escluso. Né certo a F. dispiace che la memoria della sospetta morte di Polissena Sforza del 1449 - corre voce il Malatesta l'abbia provocata - comprometta i rapporti del rivale col suocero. Ma non può pretendere che il malanimo di Francesco Sforza per il genero si traduca in un'impresa - politicamente azzardata e squilibrante - contro di lui. Né lo Sforza è disposto ad accettare che Alfonso d'Aragona proceda, per suo conto, contro il signore di Rimini. Non resta, pertanto, a F. che accantonare la propria animosità ed ostentare, invece, un ardente desiderio di pacificazione col nemico sino a proclamarsi pronto alla più completa delle riconciliazioni sicché - in assenza di questa - sia il Malatesta l'unico responsabile nella sua ostinata inimicizia. Una volta inchiodatolo nella disdicevole parte di signore prepotente e irriducibile ad ogni ragionevole accordo, F. si libera dalle costrizioni d'un simulato pacifismo. Senza più remore d'immagine, il 23 giugno 1457 lascia Urbino e si reca a Napoli prospettando ad Alfonso d'Aragona un'offensiva antiriminese cui avrebbe provveduto egli stesso insieme con Giacomo Piccinino, l'irrequieto capitano, allora al soldo aragonese, bramoso di costituirsi, ai danni di Malatesta, uno staterello.
Rimasto a Napoli sino ad ottobre F., qui lo raggiunge la notizia che, ad Urbino, il 27 luglio è morta sua moglie, Gentile Brancaleoni. Vissuta in silenzio, senza protestare per la presenza a corte di almeno tre figli naturali di F. Buonconte, Antonio e Gentile, quest'ultima sposa, nell'agosto del 1464, a Girolamo Malatesta di Sogliano, un ramo minore dei Malatesta contraddistinto da una scelta filourbinate -, essa scompare con discrezione, quasi preoccupata di non disturbare. Non particolarmente afflitto, infatti, F., il quale, rientrato nelle Marche, vi avvia, il 10 nov. 1457, le operazioni antimalatestiane che si protraggono sino alla metà dell'anno successivo, peraltro senza risultati di un qualche rilievo.
Imprescindibile, comunque, per quest'agire di F. l'avallo aragonese. E a sostenere i suoi interessi rimane a Napoli, durante le ostilità antiriminesi, il cancelliere Paltroni. E, a maggior sottolineatura della propria devozione aragonese, F., all'inizio dell'estate del 1458, invia pure il diciassettenne Buonconte, il primo e il prediletto dei suoi figli naturali, la cui precocità intellettuale aveva impressionato, ancora nel 1453, Bessarione, allora di passaggio ad Urbino. Stupefacente, nel fanciullo, la padronanza delle lingue classiche e tale da sbalordire anche Biondo Flavio, tale da sconcertare anche Porcelio. Orgogliossissimo di lui F. e a lui attaccatissimo: è la persona che più ama al mondo. Destinandolo a rappresentarlo presso gli Aragona da un lato F. vuole valorizzarlo, dall'altro enfatizza il proprio contare sulla protezione di quelli. Solo che, quando il giovinetto arriva a Napoli, l'epidemia imperversa. Ed anch'egli si sposta, con la corte, ad Aversa, morendovi però all'improvviso per un fulmineo malore, forse dovuto al contagio.
Straziato dal dolore il padre. Uomo duro, astuto, calcolatore, spregiudicato, dall'indomabile energia Federico. Ma ora si piega barcollante. "El nostro signore Dio", scrive l'11 ag. 1458, a Francesco Sforza, che, per punirlo dei suoi "peccati", già gli "ha tolto un occhio", questa volta lo prova assai più duramente colpendolo nel più sincero e grande dei suoi affetti. "Questo figliolo... era la vita mia", si dispera inconsolabile. Buonconte - già designato, in cuor suo, a succedergli nella signoria urbinate - era il migliore dei figli, il più promettente degli eredi. "Io non seppi mai volere - ricorda F. - cosa alcuna da lui ch'el non la fesse segondo il mio desiderio"; né, per quanto frughi nella memoria, gli sovviene "che el me dispiacesse in cosa alcuna". Sintomatico - pur nel culmine della sofferenza: la scomparsa del figlio, scriverà Paltroni, "fu un coltello al core" pel "dignissimo patre" - il protagonismo di F.: il profilo di Buonconte - che sapeva di greco e latino, che era di tratto gentile, che era provetto a cavallo e nell'armeggiare - si riassume nella sua pronta adesione, ovunque e comunque, alla volontà paterna, si compendia nel suo corrispondere alle attese di F., si risolve nell'essere stato assecondante e obbediente. Sconvolto dal dolore F., ma non annientato, non schiantato se - in questo suo pianto disperato - finisce col ribadirsi, col riaffermarsi. Buonconte è colui che ha fatto la volontà del padre. Nessuna titubanza, anche ora, da parte di F. in merito al senso di ciò che vuole. Sicché non lo tenta il desiderio della fuga dal mondo, sicché non vagheggia il raccoglimento in un eremo appartato, ma continua con determinazione nel perseguimento dei propri propositi di condottiero e di signore.
Impensabile, d'altronde, le vicende, nel loro incalzare, concedano a F. d'estraniarsi, di ripiegare nella sofferenza. Senza soste e senza requie il suo impegno. L'occupazione, da parte di Giacomo Piccinino, durante la sede apostolica vacante, d'Assisi, Gualdo e altre località pontificie costringe F. - suo alleato, promotore della sua venuta nelle Marche, sicché le mosse di quello potevano ben essergli rimproverate - ad un intensa pressione per indurlo alla restituzione. Donde, il 2 genn. 1459, l'impegno - con atto rogato ad Urbino - di Piccinino allo sgombero. E - laddove Francesco Sforza, col quale F. è di nuovo in ottimi rapporti, temendo Piccinino, anche se stipendiato dal re di Napoli, passi dalla parte dei baroni ribelli ed appoggi il ritorno degli Angiò, propende per l'eliminazione fisica dell'irrequieto condottiero - F. preferisce, a tal fine finanziato da Pio II e dallo stesso Sforza, ingaggiare soldati già militanti per quello. Troppo rischioso - così F., il 30 giugno 1459, allo Sforza - tentare d'assassinarlo, mentre è "cum tanta gente in Fossombrone". Meglio contare sulla gotta che lo tortura: come, per colpa di questa, non può "andare a femmine", così non puo avviare iniziative guerresche. Basta ridurne gli effettivi. Con 40.000 fiorini - sottolinea soddisfatto, il 2 dicembre, F. allo Sforza - "se è levato da dosso al conte Jacomo presso che el terzo de la compagnia", così diminuendo la sua forza e la sua "reputatione". In crescita, invece, quella di F. cui Pio II guarda con favore giudicandolo "clarus vir" e "in castrensibus disciplinis" nonché "in administrandis rebus bellicis" e perché uomo leale e fidato.
È Pio II che mette momentanea pace tra Malatesta e F., il quale s'acconcia ben comprendendo come il violentissimo odio pel rivale, come comandante a lui superiore, non debba trascinarlo ad una guerra meramente personale che - se non contemplata dai rapporti di forza tra i principi più grandi della penisola - rischia d'emarginarlo come turbatore della pace d'Italia. Ed è ancora il papa che il 10 ott. 1460 autorizza il vescovo di Pesaro Giovanni Paterna alla dispensa dal quarto grado di consanguineità sicché può, il 13 novembre, sposare F. con la tredicenne Battista, la figlia del signore di Pesaro Alessandro Sforza. Un matrimonio felice questo di F., in virtù del quale si stempera il dolore per la perdita di Buonconte e si rasserena l'impegno della sua fattiva energia.
Dopo l'incontro, a Gubbio, del 29 novembre tra F. e Sigismondo Malatesta - incolmabile l'odio tra i due personaggi, epperò entrambi accomunati dalla smania di trasformare con un grandioso intervento edilizio la rispettiva capitale -, il secondo si caccia, incurante della scomunica papale, nell'avventura antiaragonese con momentanei successi e non duraturi risultati. Più avveduto, di contro, il comportamento di F. che soccorre Ferdinando d'Aragona e batte, la notte dal 12 al 13 ag. 1462, nel piano della Marotta nei pressi del fiume Cesano, il Malatesta, che, con questa sconfitta, inizia la sua parabola discendente. E, con la presa di Fano del 25 sett. 1463 e la resa di Senigallia del 5 ottobre, F. trionfa sul nemico, al quale - reo d'aver trasgredito al papa e d'aver aderito alla causa angioina - non resta che Rimini con le sue immediate adiacenze, mentre cadono in mano di F. quanto deteneva in Montefeltro, Pennabilli, Maiolo, Pietrarubbia, Sant'Agata ed altre fortezze. Definitiva a questo punto - con Sigismondo rattrappito alla sola Rimini e alla modesta fascia territoriale circostante, mentre a suo fratello Domenico non rimane che Cesena - la vittoria feltresca dopo una lunga lotta che ha impegnato tre generazioni. E vittorioso politicamente prima ancora che militarmente F., il quale all'audacia di Sigismondo, al suo estro, alla sua rapidità ha contrapposto - in ciò avvantaggiato da una reputazione di lealtà che lo rende, nelle valutazioni dei contemporanei, ben più affidabile del Malatesta - una paziente politica delle alleanze mirante all'accerchiamento e all'isolamento dell'avversario. Così egli si ritrova a capo d'un territorio ingrandito ed unico signore della Romagna meridionale, in grado così di controllare un importante snodo di transito tra l'Italia settentrionale e l'Italia centromeridionale. Un organismo ora il suo Stato da difendere con un piano di costruzioni militari - affidato soprattutto a Francesco di Giorgio Martini - strategicamente consapevole. E ciò, nel frattempo, continuando a combattere, ché F. deve muovere contro Everso dell'Anguillara. E, morto questi il 4 sett. 1464, la lotta di F. prosegue, per conto del nuovo papa Paolo II, contro i suoi figli sicché, con la loro sconfitta, finisce la signoria degli Anguillara, i cui castelli passano sotto il diretto dominio pontificio. Altra benemerenza - agli occhi del papa - di F. il passaggio indolore di Cesena alla Chiesa dopo la morte a Bellaria, del 20 nov. 1465, di Domenico Malatesta, mentre Roberto Malatesta - il figlio di Sigismondo aspirante a subentrare allo zio - deve accontentarsi di Meldola, un minuscolo spazio per lui voluto da F., di contro, par di capire, la volontà di Paolo II, il quale, comunque, glielo concede, con Sarsina e altre terre di poco conto, in vicariato il 21 genn. 1466. Certo che, senza più i Malatesta, Cesena ingrigisce d'un tratto, destituita d'ogni principesco splendore. E vieppiù brilla Urbino. Ma già tra i contemporanei c'è chi non trova gran che lungimirante la facilitazione, fornita da F., ad una devoluzione che tanto rafforza il diretto dominio ecclesiastico e che tanto incoraggia la S. Sede nella tendenziale fagocitazione degli Stati vassalli, nel tendenziale loro incameramento.
Morto, l'8 marzo 1466, Francesco Sforza, F., chiamato dalla vedova Bianca Maria, si porta prontamente a Milano per concorrere, con la sua presenza, al tranquillo insediamento del successore, il ventiduenne Galeazzo Maria che F. ha rilevato al fonte battesimale e di cui, con le seconde nozze, è diventato cugino. Indubbia l'autorevolezza di F. gonfaloniere della Chiesa e capitano generale della Lega italica. E di per sé stabilizzante - ché frena le interne inquietudini, ché funge da avvertimento alle mire veneziane e alle ingerenze francesi - la sua permanenza a Milano donde riparte l'8 giugno rientrando ad Urbino il 22. E, quando si delinea l'avventurosa alleanza tra Alessandro Sforza in rotta con Ferdinando d'Aragona, l'ambizioso Bartolomeo Colleoni e la sobillatrice Venezia, è F. il più qualificato a fronteggiarla militarmente. Raccolte, il 2 apr. 1467, le sue genti attorno a Fossombrone, ai primi di maggio è tra Imola e Faenza e poi tra Castel San Pietro e Bologna quivi in attesa dei rinforzi dal Napoletano e dal Milanese. E, non appena a lui s'uniscono, il 20, gli effettivi del duca di Milano, è in grado di indurre Colleoni a desistere dall'assedio di Imola. Vani, però, gli sforzi di F. per provocarlo ad una battaglia campale: all'"aproximarci" di F. e dello Sforza - così questi il 31 alla madre - il condottiero bergamasco arretra "molto imprescia" alla volta di Faenza e Forlì, avendo "poca voglia de fare pruova de sua gagliardia". E così giugno e gran parte di luglio trascorrono in reciproco avvistamento movimentato da schermaglie e scaramucce. Elusivo Colleoni, maestro nel "campeggiare", nella speranza la Serenissima, attaccando in Lombardia, apra un secondo fronte. Deciso allo scontro, invece, Federico. Finalmente, il 25 luglio, nei pressi di Molinella in località Riccardina, i due eserciti s'affrontano in una battaglia che dalle 18 oltrepassa la mezzanotte per prolungarsi sino alle due di notte. Gravi le perdite d'ambo le parti e incerto l'esito. Poiché - come scrive a F. Antonio Ivani - "maxime constat quod, post cruentuin illud proelium, conatus hostiles irriti remanserunt", i contemporanei propendono a ritenere F. vincitore sotto il profilo operativo. In effetti alla battaglia segue, da parte di Colleoni, l'arretramento; ed il successivo graduale disimpegno porta alla rinuncia a reinsediare a Firenze gli esuli antimedicei.
Nel contempo, come già evidenzia la tregua sottoscritta l'11 agosto, nessuno dei due contendenti punta ad un rinnovato scontro frontale; e gli eserciti si sciolgono mentre circolano voci di pace. Già il 2 febbr. 1468 c'è un proclama di pace pontificio, ma in termini insoddisfacenti per la lega. Sicché alla pace si giunge solo col testo, riformulato, dell'8 maggio. Quanto a F., il 13 viene ricondotto, non già, come antecedentemente, anche "in nome" del papa, ma solo della lega. E qualifica la ricondotta un articolo segreto che non esclude, se necessario, egli combatta contro il pontefice, nei confronti del quale i collegati - Napoli, Firenze, Milano- sono ormai sempre più insofferenti. Presente, il 7 luglio, alla protesta di fedeltà alla Francia del duca milanese in occasione della conferma delle sue nozze colla cognata di Luigi XI Bona di Savoia, F., all'inizio di ottobre, entra nel Novarese al comando dell'esercito ducale. E, oltrepassata la Sesia, muove contro Filippo di Savoia che, alleato con Carlo il Temerario s'oppone alla cessione di Vercelli pretesa dallo Sforza come dote della moglie. Ma non occorre - pel sopraggiungere della pace di Peronne del 14 ottobre - F. spinga a fondo le operazioni. Ad ogni modo la sua mossa dev'essere stata un efficace elemento di pressione, se - per ringraziamento -, il 15, lo Sforza gli dona un palazzo a Milano. Accorso al capezzale della morente Bianca Maria Visconti - in urto col figlio che non le riconosce la piena sovranità su Cremona, suo appannaggio dotale -, il 19 F. è tra i testi presenti alla stesura dell'atto pubblico coi quale il duca, anche a nome dei fratelli, respinge qualsiasi impegno materno eccedente Cremona. Evidentemente il lutto non mette a tacere, nemmeno per un attimo, le preoccupazioni politiche. E la duchessa è appena - il 23 - morta, che iniziano, sotto la guida di F., le operazioni per la conquista di Brescello. Questa s'arrende l'11 novembre e Niccolò da Correggio - troppo tardo nel fare atto di sottomissione allo Sforza - decade da ogni relativo diritto.
Preposto all'ambasceria a Federico III - per ottenerne l'investitura dello Sforza -, peraltro volutamente non incontrata dall'imperatore diretto a Roma, F., nel marzo del 1469, ispeziona, sempre per conto dello Sforza, le fortezze in Lunigiana rientrando, quindi, a Milano dove il duca lo tiene in gran conto. Ma, coll'aggravarsi della crisi successiva alla morte, del 9 ott. 1468, del signore di Rimini Sigismondo Pandolfo Malatesta, la sintonia dei due si guasta. Stando ai patti sottoscritti, ancora nel 1463 essendo papa Pio II, dal Malatesta, la sua signoria, al pari di quella cesenate, doveva, lui morto, tornare alla Sede apostolica. Un impegno di cui Paolo II esige il rispetto. Solo che F. - questa volta, al contrario di quanto s'è verificato con Cesena, preoccupatissimo per un così notevole ingrandimento ecclesiastico - intende evitarlo, mentre il duca sforzesco paventa l'urto col pontefice sostenuto da Venezia. Astutamente il papa aveva inviato come capitano pontificio a Rimini Roberto Malatesta, il primogenito di Sigismondo Pandolfo, coll'intesa che, una volta insediato, questi avrebbe devoluta la signoria alla Chiesa. Ma ancor più astuto Roberto Malatesta che, alleatosi col fratello (per parte di padre) Sallustio e la vedova del padre Isotta degli Atti, non mantiene la promessa. Energica la reazione del papa che - contando sull'appoggio della Serenissima, fiducioso nel non intervento della lega - fa piombare il suo esercito, guidato dal signore di Pesaro Alessandro Sforza, su Rimini che, colta di sorpresa, l'8 giugno 1469 viene parzialmente occupata. F. - il quale non è paralizzato dai riguardi e dalle titubanze del duca di Milano - non vuol essere spettatore inerte. Urge un intervento rapido e deciso. Quanto capita a Rimini lo minaccia direttamente. "Cognosco - scrive il 4 luglio allo Sforza - che, spacciato Arimino, le vele si dirizeranno verso di nui". Dall'"exemplo de Arimino - insiste - posso molto bene coniecturare commo passariano li facti miei". Roberto Malatesta va soccorso "senza più dilatione". E se il duca "non delibera de aiutare Arimino", dia almeno a F. "libertà" di movimento. Lo esenti, insomma, dai vincoli della condotta sì che "possa pigliare qualche remedio al facto" suo, per non essere - agendo sinché è in tempo - costretto ad "andare", in futuro, "mendicando". Ma lo Sforza antepone l'amicizia con Paolo II ad ogni altra considerazione. Inutile il perorare di Federico. L'arrivo di forze aragonesi lo mette, nel contempo, in condizione d'intervenire. Ma non può passare all'attacco, ché i commissari fiorentini l'ammoniscono che - in quanto capitano della lega - ogni suo intervento dev'essere, in quel frangente, solo difensivo. Sagacemente, allora, F. suggerisce a Roberto Malatesta d'indurre Alessandro Sforza all'attacco. In tal caso egli si muoverà quale difensore. E la trappola scatta. Il signore di Pesaro, che, avendo dalla sua un robusto rinforzo veneziano, è, per numero d'effettivi, in vantaggio sul Malatesta, l'aggredisce baldanzoso. Donde l'imprevisto intervento di F. che, il 30 agosto, a Mulazzano sbaraglia le truppe pontificie. Peccato - scrive F. trionfante a Tristano Sforza, il fratello del duca a capo dei contingenti milanesi il quale, invece, non era potuto intervenire - "che la Signoria Vostra non s'è ritrovata qua ad havere la parte sua et del honore et del utile". La vittoria - esulta - è stata piena: "rotti et frachassati" i nemici e "guadagnato" sin "le bandiere de la Chiesa".
Saldo e inamovibile ora, dopo tanta vittoria di F., Roberto Malatesta, il quale ne approfitta recuperando il distretto di Fano e il vicariato di Mondavio; furibondo con la lega accusata di slealtà il papa; e colmo di rancore con F. il duca di Milano per essere stato da lui beffato. Entusiastico, in compenso, il plauso a F. da parte dei letterati e dei dotti che così attestano la loro preferenza per un principe mecenate laddove Paolo II cogli uomini di cultura non è particolarmente riguardoso. E nel coro delle lodi non mancano quelle di provenienza milanese. E gradito a Napoli e Firenze il successo di F. incitato da entrambe a proseguire l'offensiva essendo quella della "victoria" militare l'unica "via" per conseguire una "pace hoporevole". Ma sono proprio siffatti incitamenti ad evidenziare quanto ormai sia logora la lega incapace d'un programma in cui si riconoscano le tre componenti. Palese la spaccatura con Milano. Ne approfitta con astuzia sin volpina F. rinunciando al comando dei contingenti milanesi. Perciò, il 13 genn. 1470, invia un suo uomo a restituire al duca "el bastone che, per sua gratia, me commesse sopra le genti suoe". Ma mentre, l'8 marzo, Firenze assicura a F. l'appoggio proprio e di Napoli, lo Sforza rimane ostile: non ci sono - così lo stesso, in una lettera del 3 luglio, a Camillo de' Barzi, il rappresentante di F. presso il duca - parole adeguate ad esprimere "quanto siamo mal contenti" e quanto "ne trovamo ingannati dal conte di Urbino". Ma l'incubo turco gioca, in compenso, a favore di F., ché non solo nel luglio si rinnova la lega tra Milano, Napoli e Firenze, ma a questa aderiscono pure la Serenissima e il papa. Laddove l'Infedele s'impadronisce di Negroponte, si spinge oltre atterrendo tutte le popolazioni adriatiche, non è il caso lo Sforza coltivi i suoi rancori con Federico. Sicché questi è riconfermato come capitano generale della lega.
F. è senz'altro l'uomo d'armi più prestigioso e meglio pagato d'Italia. Donde l'animante flusso dell'oro che permette la possente risemantizzazione urbanistico-architettonica d'Urbino, il fervore dell'ererezione di rocche e fortificazioni, lo star "bene" di "tutti i sudditi" che, a detta di Vespasiano da Bisticci, diventano, col "lavorare a tante fabbriche" promosse dal "governo" di F., "ricchi". Tratto caratterizzante, in effetti, la febbre edilizia d'un risveglio economico lungo il quale alle tradizionali agricoltura e zoocoltura s'aggiungono la ripresa delle attività artigianali e dell'industria della lana, l'affermarsi della cartiera di Fermignano, mentre s'intensifica la circolazione del denaro, mentre il prestito e il cambio sono affidati ad operatori ebraici. Prospero, insomma, il dominio feltresco anche grazie ai proventi della milizia di F. e alonata, nel contempo, la sua eminenza di condottiero dal tangibile riscontro delle sue ulteriori capacità di statista. Sicché la figura di F. da Urbino si staglia come quella di colui che come più sa farsi temere in guerra, così, insieme, sa meglio costruire in pace.
Ed è da un'Urbino pacificamente operosa che F. s'allontana chiamato dalla guerra. Ecco così che, dopo 40 giorni d'assedio, a lui s'arrende, il 18 giugno 1472, Volterra ribelle a Lorenzo de' Medici. Una presa cantata in versi da Naldo Naldi; quanto all'orrendo saccheggio che ne segue, questo non è più che tanto addebitabile a F. che, anzi, punisce con la morte i principali responsabili del suo protrarsi. Per ciò che lo concerne il sacco deve essere di corta durata. Stando ai suoi ordini non deve oltrepassare la mezza giornata. Comunque ne trae anch'egli dei vantaggi se s'impadronisce d'un leggio bronzeo con un'aquila ad ali spiegate e d'una Bibbia ebraica manoscritta del sec. XIII. Oggetti entrambi di straordinario valore. Ed emblematico, nella festa a Firenze per la vittoria, l'incontro di F. con il Magnifico. Per un momento fisicamente insieme le due personalità forse più forti dell'Italia del tempo. E al culmine della gloria F. festeggiato a Firenze e forse, anche, al culmine della felicità ché finalmente. dopo sei femmine - Elisabetta, sposa, il 5 giugno 1475, al signore di Rimini Roberto Malatesta; Giovanna, promessa nell'ottobre del 1474 al signore di Senigallia Giovanni Della Rovere e da questo sposata nel 1478; Costanza, sposa al principe di Salerno Antonello Sanseverino; Agnese, sposa prima del 1490 a Fabrizio Colonna; Violante; Chiara -, la moglie ha dato luce, a Gubbio, il 24 gennaio, a Guidubaldo, il tanto sospirato e tanto atteso erede maschio. Sciaguratamente, sempre a Gubbio, il 7 luglio Battista Sforza muore appena venticinquenne, sfiancata dalle gravidanze troppo ravvicinate, stremata dai parti troppo travagliati.
Ancora una volta - come già con la scomparsa di Buonconte - F. è colpito nella sfera dei suoi affetti più intimi e intensi. Ancora una volta la sofferenza lo segna per sempre nell'animo e una nota di tristezza vela la sua indefettibile energia, una sensazione angosciante di precarietà mina la sua febbrile attività. La virtus del guerriero vacilla sgomenta. Se la prima moglie è stata comparsa sbiadita vissuta nell'ombra e poi sparita senza lasciare traccia, non così la seconda. Coinvolgenti per F. i dodici anni di matrimonio con lei. Forte e intenso, in questo caso, il legame nuziale. Indubbia la personalità della giovane sposa, capace d'autonoma individualità rispetto allo stesso F., come dimostra il gusto tardogotico improntante il suo appartamento nel palazzo ducale urbinate. E, proprio perché da lui non soggiogata, ha contato nella vita di Federico. Non per niente questi, fedele alla sua memoria, esclude ogni eventualità di nuove nozze. E, all'ambasciatore mantovano ventilante l'opportunità d'un accasamento con una delle figlie del re di Napoli, F. replica manifestando seccamente la sua determinazione a "non torre più mogliere", a "stare senza". Insostituibile Battista Sforza.
Ma a F. non è dato d'isolarsi nel dolore. Se mai l'ha sfiorato l'impulso del ritiro dal mondo, è anzitutto Sisto IV - il successore di Paolo II, la cui scomparsa, del 26 luglio 1471, non è certo spiaciuta a F. - a volerlo mondanamente attivo. È ben il papa, nell'agosto del 1474, a nominarlo gonfaloniere della Chiesa e ad investirlo del titolo, già ottenuto il 23 marzo, ducale, in concomitanza col fidanzamento di Giovanna, la secondogenita di F., col proprio nipote Giovanni Della Rovere. Subito operativa l'autorità conferita a F. che, portatosi il 29 agosto a Città di Castello, di lì raggiunge, il 3 settembre, Perugia persuadendo in breve Nicolò Vitelli a rinunciare alla prima. Dopo di che F. è a Napoli dove, l'11, viene insignito, con fastosa cerimonia, dell'Ordine dell'Ermellino, la più alta onoreficenza aragonese. Ancor più pomposo a Roma il successivo conferimento ufficiale della dignità ducale; e di gran soddisfazione: per F. la consegna a Grottaferrata delle insegne dell'Ordine della Giarrettiera concessegli dal re d'Inghilterra Edoardo IV. Un riconoscimento di cui F. è particolarmente orgoglioso e che fa ricordare il più possibile, a cominciare da un quadro fatto dipingere a P. Berruguete. Ciò non toglie che la sofferenza per la scomparsa della moglie rimanga. E ben del 1474 la Comunione degli apostoli di Giusto di Gand: quivi F. figura, con accanto ottaviano degli Ubaldini, come committente mentre sullo sfondo si scorge l'erede, Guidubaldo, in braccio alla nutrice piangente. Un pianto per la morte, appunto, di Battista Sforza.
Né certo rasserena la vita di F. l'incidente occorsogli, il 23 nov. 1477, a San Marino, dove, ospite d'un "cittadino castellano", messo piede su d'una tavola marcia d'un "solaro" (ma corre anche voce ci sia stato del dolo), precipita "giuso" per 8 o 9 "braccia" sino alle "pietre" sottostanti, sicché gli esce "un osso dal tallone", come racconta, il 3 dicembre, Matteo Contugi da Volterra al marchese di Mantova Ludovico Gonzaga (Tommasoli, Vite..., p. 275). C'è il rischio di cancrena; pare gli si debba amputare la gamba. Di fatto F. è immobilizzato per mesi. Permanente la lesione provocata dalla "caduta": la "dislocatione" del piede sinistro. Già guercio, già sofferente atrocemente di gotta, è ora stabilmente zoppo. S'è fatto fare - così Matteo Contugi da Volterra il 1º apr. 1478 al Gonzaga - "una scranna grande cum due stanghe", colla quale 12 staffieri lo portano mentre poggia "la gamba et el pede" su d'un "parapetto". E se si compiace nell'apprendere che il Gonzaga sta meglio (per poco: questi morrà il 12 giugno), emette - pensando al suo misero stato - un "sospiro" che muoverebbe "una galeazza". Dura, per un uomo del suo stampo, la coatta inazione dell'infermo. Tale, comunque, la sua condizione quando, nella congiura dei Pazzi, viene ucciso a Firenze, il 26 aprile, Giuliano de' Medici. Ne segue la rottura tra Firenze e Roma, senza che F. possa svolgere appieno le proprie capacità di mediazione e senza che - nel costituirsi di due opposti blocchi - possa scendere tempestivamente in campo come capitano generale delle forze ecclesiastiche e napoletane.
Ormai le circostanze lo contrappongono al Magnifico, scomunicato il 1º giugno. Viva l'attesa si muova. Ma può "cavalcare"? Questo l'interrogativo circolante nelle corti d'Italia. S'è fatto fare - informa Matteo Contugi da Volterra - "una sella da cavalcare colli piedi al collo del cavallo"; ed ogni giorno si fa trottare per le vie d'Urbino un cavallo bardato con "dicta sella". Ciò a dimostrazione che "vuole cavalcare", anche se solo "due volte" s'azzarda a far prova di questa particolare sella. Pel momento si limita a far partire il genero Giovanni Della Rovere a mo' di suo rappresentante. E, pur nell'arroventarsi delle temperie, sul piano personale il rapporto di F. con il Medici rimane inalterato; continuano a vigere tra i due stima e cortesia. Tant'è che il Magnifico, appreso che F. sta trepidando per la sorte del secondo tomo d'una Bibbia da lui commissionata - è quella che Vespasiano da Bisticci descrive come "libro excellentissimo in due volumi istoriati..., coperto di broccato d'oro, fornito d'argento ricchissimo" -, si preoccupa di farglielo recapitare da Firenze. Ed il 21 gillgno F. lo ringrazia di tutto cuore, mentre Lorenzo, il 25, gli scrive rallegrandosi del felice arrivo d'un tomo tanto prezioso. Purtroppo F. non ha molto tempo per assaporarlo se il 2 luglio è già "apud Biscinam". Inizia così una campagna che si prolunga sino a dicembre, senza alcuno scontro di qualche rilievo. Si sommano - in una sorta di lentissima marcia alla volta di Firenze - assedi a piccole località (e quello a Castellina dura più degli altri), durante i quali prevalgono in F. preoccupazioni d'approvvigionamento, timori pel serpeggiare d'epidemie, sollecitudini perché non manchi la polvere da sparo, accorgimenti perché le palle siano idonee alle bombarde prestate da Siena. Guadagnati Monte San Savino e Buonconvento, F. si concede, all'inizio del 1479, il sollievo d'una cura termale ai bagni di Petriolo. "Se bagna quel piè", scrive il 5 febbraio Matteo Contugi da Volterra. E, nella stasi delle operazioni militari, passano al campo avverso, rispettivamente il 28 gennaio e il 17 febbraio, suo genero Roberto Malatesta e suo cognato Costanzo Sforza. Una grave defezione per le forze napoletano-pontificie capeggiate da F. che, per fortuna, può, invece, contare su Siena delle cui truppe è capitano Antonio da Montefeltro, suo figlio naturale. Comunque F. persiste nella strategia dell'avanzata lenta verso Firenze. Una diversione, perciò, per lui disturbante la difesa di Perugia dalle minacce di Roberto Malatesta e di Carlo di Montone, ché solo in agosto può riprendere il suo disegno d'avvicinamento. Un successo a tal fine la sorpresa, del 7 settembre, del campo fortificato fiorentino di Poggio Imperiale seguita dalla presa di Poggibonsi e Certaldo. Ma non è che poi F. punti con decisione alla volta della capitale medicea. Invece retrocede per assediare Colle di Val d'Elsa che capitola il 13 novembre. E, a questo punto, ancora una volta F. - poiché non sferra un'offensiva, poiché non sfrutta il successo - dà l'impressione d'un voluto rallentamento. Tacciabile perciò d'ambiguità la sua condotta. Certo è che non ritiene politicamente conveniente una disfatta medicea. Energico uomo d'armi che con straordinaria forza d'animo dirige - "eger ... pedibus" - le operazioni in lettiga, è anche "vir magno consilio" capace d'una valutazione complessiva, interessato a creare situazioni d'equilibrio entro le quali possa rafforzarsi l'autonomia del suo Ducato. Di qui la lungimiranza ponderata colla quale stimola e asseconda il riaccostamento tra il Magnifico e Ferdinando d'Aragona.
Uno smacco, di contro, per Sisto IV e il suo prevaricante nipote Girolarno Riario la conciliazione tra Firenze e Napoli avvio d'un rimescolamento esitante nella lega tra, appunto, la capitale medicea e quella aragonese nonché Milano cui si contrappone l'accostamento tra il papa e la Screnissima. Imbarazzante e dilemmatica in tal frangente la posizione di F.: condotto sia del papa che del re di Napoli, imparentato col primo e, nel contempo, con una ormai trentennale milizia per gli Aragona alle spalle, è cacciato - così Matteo Contugi da Volterra - in un "laberinto", è "intra incudine e martello", ora che Roma e Napoli si divaricano e si contrappongono. E, nella divaricazione, aumenta il valore della sua compagnia - per la messa a disposizione della quale può pretendere un compenso annuo che s'aggira sui 120.000 ducati - che costituisce un affiatato e collaudato meccanismo di guerra di, circa, 4.000 cavalli, 1.500 uomini d'arme e 4.381 corazze e con 260 capitani, dei quali una settantina sono suoi sudditi, provengono dal suo Ducato. A Napoli si vorrebbe affidare a F. il comando delle operazioni per la riconquista di Otranto caduta in mano turca, ma un breve papale blocca F. nei pressi di Recanati proprio quando s'accinge a partire coi suoi uomini. Sempre più arduo per F. mantenersi in bilico tra Roma e Napoli mentre lo cruccia l'esigenza di predisporre un avvenire sicuro per l'erede Guidubaldo. Sempre più indifferibile la scelta - così, nel novembre del 1481, Matteo Contugi da Volterra - tra "la inimicitia del papa et veneziani" e quella del "re et legha". Riprovevole per lui che "due giovinastri" come Girolamo Riario, ciecamente assecondato dallo zio Sisto IV, e suo genero Roberto Malatesta compromettano, colla loro scriteriata ambizione, la "libertà d'Italia". Ma vano il suo adoperarsi presso il pontefice per sottrarlo all'influenza dei due, specie per metterlo in guardia nei confronti del nipote incitante Venezia contro Ercole I d'Este. Fatto sta che la Repubblica, quando il trattato di pace, del 12 genn. 1482, con Bajazet II allontana, pel momento, la minaccia ottomana, si fa esplicitamente ostile col duca estense. E, a questo punto, F. è costretto a scegliere. Dopo aver, come proclama a gran voce egli stesso, "cercato con ogni ... industria" ci siano "pace et unione in Italia", dopo essersi prodigato per "pacificare" papa e Aragona, non gli resta che constatare, "disperato", quanto i suoi moniti siano inascoltati. Ogni "homo grida guerra guerra". Sordo il pontefice ai suoi appelli alla ragionevolezza. Ma a lui - visto il precipitare della situazione -, allora, compete la legittima "conclusione" di militare per "la legha". Di qui la condotta, ratificata e resa esecutiva il 12 aprile, la quale segna il punto più alto in fatto di retribuzione da lui conseguito e include condizioni da lui espressamente dettate: una di queste l'esenta, in quanto vassallo della Chiesa, dal combattere direttamente contro questa; un'altra impegna i collegati, qualora egli muoia, alla "tutela, protectione et defensione" dell'erede appena decenne la cui sorte è per F., che si sente ed è vecchio, motivo costante d'apprensione.
La guerra scoppia il 2 maggio dichiarata da Venezia contro Ferrara. Sollecito F. il 4 è a Mantova, il 13 a Pizzighettone dove s'incontra con Gian Giacomo Trivulzio e Ludovico il Moro. Già la sua presenza - dato il prestigio di cui gode - nel teatro delle operazioni incute soggezione all'attaccante. E l'uso sistematico dell'artiglieria - F. confida in questa conscio possa prevalere sull'arma bianca; propenso a sperimentare le più aggiornate tecniche militari, non a caso tra le "imprese" da lui adottate (e, tra queste, lo struzzo, l'ermellino, l'olivo) figura pure la granata, "moderno" strumento di guerra - blocca la baldanza nemica. F. - che tramite Giuliano Della Rovere continua ad insistere coi papa perché prenda le distanze da Girolamo Riario -, ad ogni buon conto, esorta Giovanni Bentivoglio e Galeotto Manfredi a recar "guasto ... ad Imola" (di questa e di Forlì il nipote del papa è signore), sicché quello cominci a "gustare" i "fructi" della guerra cui costringe quanti desiderano "starsene in pace". E tra questi c'è ben F. che, senza l'occhio destro, storpiato nel piede sinistro, sollevato di peso per salire a cavallo, sente tutto l'onere dei suoi 60 anni. In vantaggio Venezia con la conquista di Ficarolo, peraltro faticatissima, sicché - si consola F. - non può approfittarne. Ma nemico ancor più esiziale della Repubblica è - nel tormento della calura estiva in zona paludosa - il diffondersi dell'epidemia; sicché F. è costretto ad assistere impotente all'infierire falcidiante di questa sulle truppe. Né, per quanto sollecitato, pensa ad allontanarsi dai miasmi. Ritiene suo dovere prodigarsi pur d'arginare lo strapotere della Repubblica così dannoso a quel concertato equilibrio della penisola che gli sta tanto a cuore. Rallentate dalla malsana afa di luglio le operazioni, queste riprendono ad intensificarsi in agosto per iniziativa veneziana. Le truppe di S. Marco conquistano il Polesine, si spingono sino a Comacchio, mentre il 21, a Campomorto, il Malatesta ha la meglio su Alfonso duca di Calabria. Purtroppo F. sta sempre peggio. Infermatosi ancora all'inizio di giugno, non riesce a riprendersi. Ormai stremato dalla febbre viene ricoverato a Ferrara, presso la corte, dove, generosamente assistito dalla sorella Violante (vedova di Domenico Malatesta, questa è allora badessa del convento ferrarese del Corpo di Cristo) spira, dopo aver dettato le sue ultime volontà, il 10 sett. 1482, lo stesso giorno in cui muore a Roma il Malatesta. Trasportata ad Urbino la salma, dove - dopo le esequie solenni nelle quali l'orazione commemorativa è pronunciata dall'umanista padovano Ludovico Odasio - viene sepolta nella chiesa di S. Donato degli zoccolanti.
Professionista della guerra F., "el primo capitano de gente d'arme d'Italia", come assicura un anonimo cronista volterrano, epperò non solo tale agli occhi dei contemporanei ché Cristoforo Landino ne esalta la magnanima clemenza, lo celebra come latore di giustizia e di pace. Dalla guerra, comunque, i guadagni e nella guerra il parziale investimento degli utili ai fini dell'ampliamento dei guadagni. Certo che - alla fine della carriera - F. può contare su d'una remunerazione annua di 45.000 ducati d'oro se in attività, di 25.000 nei periodi di pace. Una professione, questa militare, affrontata, avendo nel proprio territorio una base d'appoggio e l'area di reclutamento sempre utilizzabile, con piglio imprenditoriale, a veder del quale la pace vale anche come addestramento per la prossima guerra. Ed in certo qual modo Urbino diventa una sorta di scuola a tal fine, quasi centro di formazione per quadri specializzati, quasi vivaio di condottieri. Tant'è che per Annibale da Cagli, Contuccio della Genga, Trivulzio, Francesco da Sassadello, Matteo Grifoni e lo stesso genero di F. Giovanni Della Rovere non è improprio parlare di formazione urbinate. E il contado, d'altro canto, è area di reclutamento per la costituzione di bellici contingenti, è costante fornitore di truppe. Ciò lungo il costituirsi d'uno Stato fra San Marino e Gubbio, la valle della Marecchia e Senigallia, tre volte più grande di come, nel 1444, F. l'ha ricevuto. E il suo governo esordisce utilizzando dapprima in senso antinobiliare le autonomie comunali per poi, a mano a mano, svuotarle, pur senza sopprimerle, sì che la sua volontà sussista incondizionata.
È frutto di volitiva determinazione la costruzione del centro, l'enfatizzazione della capitale concependo una "città in forma di palazzo" a realizzare la quale si sommano le aspirazioni di F. d'architettura intendente, la consulenza albertiana, le suggestioni dei "modelli formali" di Piero della Francesca, l'apporto teorico di Francesco di Giorgio Martini, l'assidua applicazione di Luciano Laurana, preposto questi, nel 1468, ai lavori perché provvedeva - così F. - all'erezione d'"una habitazione bella e degna quanto si conviene" al principe e all'illustre tradizione dei suoi "progenitori". Subito ammirato per i suoi "membri" tutti "ben composti" nonché "richi e ornati", il palazzo ducale assurge a perentorio segno feltresco su quello che sino allora è stato un modesto borgo che, nel gravitare sul palazzo, si risemantizza. Fulcro e perno, allora, il palazzo della città, suo momento catalizzante, sua lievitazione. Come soggiogato il medievale agglomerato urbano dalla sua irresistibile carica centripeta e, nel contempo, non disdetto ché, nella forma a sella tra due colli diseguali, la collocazione del palazzo su quello più basso e più stretto ha un effetto riequilibrante, mentre l'esaltazione del dislivello della facciata verso la spianata del Mercatale vale ad innalzare la città sulla campagna. Possente l'impeto edificatorio nel giro di nemmeno un ventennio su di un contesto dalla plurisecolare lenta sedimentazione; ma non di brutale sconvolgimento si tratta, ché l'intervento riordinante è attento, pur innovando, anche a valorizzare la continuità. Rispettato e rilanciato, infatti, l'organismo medievale dai "menumenti" fatti cogli stessi mattoni, mentre l'applicazione, negli snodi più importanti, di "ornamenti" moderni esprime la riscoperta degli ordini classici. Accettato, insomma, realisticamente il passato urbano e, insieme, reinterpretato per un deciso salto di qualità che visualizzi dispiegatamente e articolatamente il respiro ambizioso del dominio federiciano, di cui l'esaltazione monumentale e la simbolizzazione paradigmatica costituiscono, d'altronde, l'esito più alto, il risultato più duraturo.
Sapiente la bivalenza del palazzo: integrata la facciata verso l'interno, collegata alla città; contrapposta l'altra, con la sua esasperata verticalità, alla campagna dominata dall'alto d'un acuito dislivello. Così l'architettura esplicita il modo d'essere di F. che guarda vicino e lontano, sollecito del buon governo in loco e, insieme, ansioso di vasti orizzonti. Un dentro (la facciata interna) e un fuori (l'esterna) riconducibili alla sua personalità di governante il proprio Stato e di guerreggiante altrove per conto altrui. All'esterno le opere di guerra, all'interno quelle di pace. Non compresenza, usuale nelle altre città, di belliche devastazioni e civiche edificazioni, ma solo operosità costruttiva nel pacifico spazio urbinate rispetto al quale la guerra è evento lontano, i cui rumori giungono attutiti. Di fatto gli ingentissimi proventi di quella si traducono in armoniosa bellezza alla stessa sottratta. In tempi brevi una piccola città - che piccola resta - si trasforma in una splendida gemma urbana che si incardina nel paesaggio mentale europeo quale culmine di scenario cittadino rinascimentale. Muore F., muore suo figlio, scompaiono i Della Rovere, epperò Urbino resta inchiodata al suo destino di bellezza. Di fatto - a mano a mano s'allontana nel tempo il fulgore della "cortegiania" (non sarà certo causale l'ambientazione del Cortegiano castiglioneo) - la bellezza diventa sin rimorso del perduto, e, coll'assorbimento nello Stato pontificio, anche rampognante persistenza che vieppiù contrasta col rattrappimento depauperante d'un precipite ingrigimento. Certo che, col nefasto inglobamento da parte della Sede apostolica, il palazzo da fulcro propositivo decade a residuato ingombrante, troppo illustre per un contesto immeschinito. Augusto l'edificio, epperò dissociato, irrelato, memoria d'un momento irripetibile di gloria troppo grande e troppo breve, oggetto d'impotente nostalgia.
Creatura di F. - a rammentare il quale vale anche la collocazione, del 1606, nello scalone della statua di Girolamo Campagna, costretto, suo malgrado, a tener conto del disegno di Federico Barocci -, il palazzo. Stupefacente la realizzazione d'un cantiere trasformante in splendor civitatis il lucroso esercizio delle armi. Alla valentia in queste è affidata nelle memorie, nelle cronache, nelle storie del tempo l'immagine di F., sia egli detestato o, di contro, celebrato. Ma al di là delle armi l'idea di sé di cui F. si compiace. Per tal verso il ritratto - ora ai fiorentini Uffizi - di Piero della Francesca può valere a mo' d'autorappresentazione. Visto da sinistra, a celare la mancanza dell'occhio destro, il profilo di F. campeggia sin giganteggiante sullo slontanarsi d'un paesaggio allusivamente sfumato. Rosse berretta e giubba, gibboso il naso, netta la mascella, umanistica la veste senza insegne di comando militare, senza connotazioni principesche. Spirante un'autorevolezza da antico romano il profilo, esprimente una concentrata fermezza e, nel contempo, privilegiante - dando, quasi, per sottinteso il condottiero e il principe - l'uomo di cultura.
Evidentemente è anche su questo versante che F. si colloca. Sotto di lui, in effetti, Urbino intellettualmente esplode. Centro che conta, al più, 7.000 abitanti, tra questi i cortigiani sono almeno 500 e se ne possono ipotizzare sin 800. Sono, allora, la categoria più numerosa, la presenza più compatta e connotante. Tante - lo sottolinea Vespasiano da Bisticci - le "bocche" che pesano sulle "spese" di Federico. Ma, altrettanti, in questo caso, i cervelli. Musici, architetti, ingegneri, copisti, cantori, intarsiatori, miniatori, pittori, arazzieri, ricamatori, stuccatori, lapicidi, scultori, orafi, filosofi, medici, letterati, dotti, scienziati. Un'impressionante concentrazione d'intellettuali e d'artisti, un eccezionale convergere d'ingegni e competenze in uno spazio circoscritto e, di per sé, fuori mano, trasformato così - agli occhi dell'Europa del tempo - in capitale della cultura e dell'arte. E F., signore di questa, ama essere supposto in meditabondo raccoglimento e in assorta lettura nello "studiolo del principe". Gioiello del palazzo questo che - nella sua forza evocativa e nella sua correlata logica distributiva; nella scelta consapevole dei simboli da convocare, dei motivi da ricalcare; coi suoi libri, i suoi strumenti musicali e scientifici, col suo calamaio proposti dalla modulazione dell'intarsio - esprime al massimo più che le effettive propensioni di F. le intenzioni colle quali provvede alla costruzione della propria immagine.
Meditata, calibrata, mirata la pinacoteca dei 28 uomini illustri convocati da F. - che spesso, nelle figure, si nomina come colui che "dicavit" o "dedit" o "posuit" o "curavit" o "dedicat" - ad attorniare suggestionanti il proprio pensoso appartarsi: Platone, Aristotele, Tolomeo, Boezio, Gregorio, Girolamo, Ambrogio, Agostino, Euclide, Vittorino da Feltre, Solone, Bartolo, Pio II, Bessarione, Alberto Magno, Sisto IV, Cicerone, Seneca, Omero, Virgilio, Mosè, Salomone, Tommaso d'Aquino, Scoto, Ippocrate, Pietro d'Abano, Dante, Petrarca. Prevalenti gli autori; ma anche se è insupponibile un F. lettore dell'opera omnia di ciascuno, la sua biblioteca offre, quanto meno, il riscontro dell'effettiva loro presenza. Come ricorda Vespasiano da Bisticci, F. possiede di Boezio "tucte l'opere ... così in loica come filosofia et in musica"; e non mancano, tra i suoi libri, "tutte le letture" di Bartolo "in cavreti". Non dimenticata, nello studiolo, la vita attiva: la ricordano e la valorizzano le armature, Ercole, Atlante. Come dichiara il testo accompagnante lo spartito del libro di musica ben visibile nella parete occidentale, "bella gerit musasque colit Federicus orrmium maximus italorum dux foris atque domi". Il topos delle due vite, l'attiva e la contemplativa, più volte richiamato nello studiolo e qui felicemente sintetizzato dall'esistenza dello stesso F., si risolve nella coniugabilità d'entrambe esemplata, appunto, da F. che, così, assurge ad espressione dell'eccellenza umana. E in tal senso insiste pure il suo ritratto intarsiato nella parete settentrionale: è armato di lancia, con al collo il collare dell'ermellino conferitogli da Ferdinando d'Aragona in riconoscimento del suo valore guerriero; ma, nel contempo, indossa la toga umanistica. Un riscontro visivo, allora, questo ritratto di quanto riconosce a F. Vespasiano da Bisticci: "lettere coniuncte coll'arme", "disciplina militare" e, insieme, "peritia ... della lingua latina".
Di per sé divaricante la supposizione delle due vite, di per sé non conciliabili le due opposte direzioni esitanti nell'unidimensionalità o dell'attivismo frenetico o del rapimento mistico. E F. - che per tutta la sua esistenza ha guerreggiato, calcolato, intrigato, lucrato, appetito - è senz'altro collocabile nella prima, anche se questa è stata turbata da trasalimenti di disgusto, di stanchezza, di disincanto, d'abbattimento. Solo che - una volta identificata la vita contemplativa coll'otium umanistico e una volta assimilato a questo il ruolo di per sé propulsivo di F. (che, volendo essere precisi, rientra pur sempre nell'ambito dell'attività) - non è difficile, per l'attivissimo F., proporsi ed essere proposto come compiuta fusione del fare e del pensare, come armoniosa integrazione e compenetrazione di fattività e di riflessione. "L'età sua non ha avuto il simile", assicura perentorio Vespasiano da Bisticci. Ed ecco la ritrattistica ingegnarsi a fornire puntuali conferme: è a F. inginocchiato che, per Melozzo da Forlì, la Dialettica consegna un libro, quasi intrattenga con lei un rapporto privilegiato; è, pur con addosso l'armatura, che F., stando a Giusto di Gand, è intento a leggere; tutto bardato per la guerra il F. di Piero della Francesca, epperò devotamente orante. Eminente nelle armi, eminente nell'amministrazione dello Stato F. e, purtuttavia, capace, "relictis humanis negociis", d'elevarsi alla contemplazione del divino. Forza e sapienza in lui si sommano a detta dei ritratti. È "novello Marte" nonché "altro Mercurio"; così Masuccio Salernitano dedicandogli le Novelle. Indicativo, soprattutto, che Cristoforo Landino gli indirizzi le Disputationes Camaldulenses, ilcui primo libro tratta, appunto, De vita activa ac contemplativa. Un paradigma, un modello F. entrambe coniugante. È ilprincipe "virtuoso", dotato delle virtù grazie alle quali "itur ad astra". Valga a rammentarlo per sempre il palazzo dove non manca la "porta della virtù". F. "dux Montisferetri ac Durantis comes ... Ecclesiae gonfalonierus atque italicae confederationis imperator hanc domum a fundamentis erectam gloriae ac posteritati suae exaedificavit", proclama un'iscrizione ove si dice che alle sue doti di "victor" in tutte le battaglie s'aggiungono, altrettanto rilevanti, "iustitia clementia liberalitas et religio". Guerra e pace, dunque. Per accedere alla pace degli appartamenti si passa per la "porta della guerra". Opera di pace il palazzo, ma anche frutto dell'energia valorosa di un uomo che "hostem profligavit", così cogliendo "victorias".
Nel palazzo, a piano terra, si situa, tra il cortile d'onore e la piazza, il grande ambiente, la cui volta a botte è dominata dall'aquila dei Montefeltro, destinato alla biblioteca, sistemata così a sinistra dell'ingresso principale, di fronte, pure, al cortile principale. La biblioteca di F. è "tanta e tale che ad ogni ingenio è altissimo diletto / e in tucte facoltà universale. / Ivi adunò di libri un numer tanto / che ogni chiar spirto lì può spiegar l'ale". Così i rozzi, ma anche veridici, versi di Giovanni Santi, un contemporaneo di F. autore d'una sua biografia rimata. Eccezionale, in effetti, la raccolta di manoscritti, tra i quali abbondano preziosi codici miniati, voluta da F., allergico - una "barbara" novità per lui la riproduzione meccanica, sicché, lui vivo, la tipografia non viene introdotta ad Urbino -, invece, alle opere a stampa. Sin maniacale, da parte sua, la ripulsa del libro stampato: nella libreria ducale, rimarca Vespasiano da Bisticci, non ce n'è uno, ché F. "se ne sarebbe vergognato". Scatenando l'incetta di testi in tutta la penisola, mobilitando per un quindicennio tra i 30 C i 40 amanuensi, profondendo ingenti somme (che Vespasiano da Bisticci azzarda a quantificare in 30.000 ducati d'oro), F. raduna una sbalorditiva - per quantità e qualità - collezione di testi che va da oltre un centinaio di manoscritti ebraici a - come sottolinea Vespasiano da Bisticci - "tutte l'opere di Averroè e in loica e in filosofia naturale e morale", che spazia dalla teologia alla medicina, dalla poesia alla giurisprudenza. Anche se vilipesa, nel 1502, da una spoliazione di Cesare Borgia, la raccolta di manoscritti di F. sopravvive coi Della Rovere sì da poter essere trasferita in blocco a Roma nel 1657 per arricchire la Biblioteca Vaticana, appunto, dei Codices Urbinates. Una dolorosa amputazione per Urbino; ma anche così il nome di F. resiste nei secoli nel perdurare d'un'immagine nella quale al guerriero dal naso deformato si sovrappone quella del principe umanista che, deposte le armi, è assorto nella lettura del libro sul leggio. Ma non per questo F. va supposto lettore onnivoro di quanto figura nello sterminato catalogo della sua biblioteca e perciò sempre rinchiuso in quello studiolo al piano nobile del palazzo tra i vani domestici (guardaroba e camera ducale) e quelli ufficiali (la sala delle udienze e quella degli angeli) di cui va tanto fiero. E ciò a ragione: superando di gran lunga l'antecedente stanzino di Leonello d'Este, lo "scrittoio" di Piero de' Medici, lo studiolo di Paolo Guinigi, è il più elegante ambiente di studio del primo rinascimento e come tale idoneo allo sfoggio d'humanitas nutrita d'humanae litterae. Comprensibile F., attentissimo alla costruzione della propria immagine, coll'esibizione dello studiolo - nella cui selezionata pinacoteca c'è il suo maestro Vittorino da Feltre -, tenda a proporsi come principe "philosophus". E, a tal fine, vantare lo studiolo più bello giova. Tant'è che F. si preoccupa di disporre pure nel palazzo ducale di Gubbio d'un altro studiolo, quasi replica del primo. Ma sia questo che quello sono valutabili quale un'operazione d'immagine nella quale l'autostima è afimentata dal non disinteressato plauso degli umanisti da F. favoriti, peraltro più oculatamente - non concede loro una splendida sistemazione permanente; se li accoglie a corte è affidando loro mansioni precise o didattiche o in biblioteca - che munificamente. Ridimensionabili, perciò, le allargate e approfondite conoscenze attribuite a F. dai contemporanei, specie quando - è il caso, ad esempio, di Cristoforo Landino - è la sua "liberalità" ad infiammare "ogni giorno di più a celebrare le sue laude", a decantare le sue "incredibili, stupende, innumere e varie virtù" marziali, civili, religiose.
Se - quando ormai poco gli resta da vivere - Franco de' Rursi sta miniando per lui una silloge membranacea d'opere di Valla, non per questo ne va dedotto un F. su Valla meditante. Unico dato certo è il timbro del suo stemma sui codici, ad orgogliosa manifestazione di possesso. La brama concupiscente del collezionista, la gioia del raffinato bibliofilo accarezzante dorsi, ammirante l'eleganza della grafia, assaporante la bellezza delle miniature, valutante la qualità della carta è altra cosa dall'assorta lettura. Lo stemma ricorda che i codici sono stati acquistati da F. o confezionati per Federico. Del pari le iniziali F. C. ("Federicus comes") e F. D. ("Federicus dux") ripetutamente incise nel palazzo ricordano che egli ne è il signore, che egli l'ha fatto costruire. E, col palazzo e colla biblioteca, F. s'è guadagnato un primato di gran lunga eccedente rispetto ai suoi effettivi peso specifico e peso relativo.
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