DE ROBERTO, Federico
Nacque a Napoli il 16 genn. 1861. Il padre, Ferdinando, ufficiale di stato maggiore della piazza di Napoli, allora quarantenne, era discendente di illustre famiglia, dotto e chiaro spirito di soldato e di gentiluomo (Patané). La madre, donna Marianna degli Asmundo, di Trapani, apparteneva ad una nobile famiglia di origine catanese. Natole un secondo figlio, Diego, il 25 dic. 1871, e rimasta vedova, donna Marianna ritornò a Catania e qui il D. compì gli studi superiori nell'istituto tecnico, sezione fisico-matematica, conseguendo il diploma nel 1879. Nello stesso anno si iscrisse al corso di scienze fisiche, matematiche e naturali dell'università di Catania. Solo più tardi, e per suo conto, avrebbe intrapreso lo studio dei classici e in particolare del latino. Appena diciottenne, suoi scritti compaiono sulla Rassegna settimanale di Firenze (in occasione dell'eruzione dell'Etna), sulla Rivista europea di Firenze e sull'Esploratore di Milano.
Abbandonati gli studi universitari, nel 1881 il D. iniziò l'attività letteraria vera e propria con la pubblicazione e la direzione di un settimanale, il Don Chisciotte (13 febbr. 1881-12 sett. 1883), ove, seguendo la moda inaugurata dal Fanfulla, firmò gli articoli con uno pseudonimo (Cardenio o Anonimo). Frattanto ebbe modo di conoscere L. Capuana, che mostrò di apprezzarlo, stringendo con lui una duratura amicizia.
Nello stesso 1881 intervenne nella polemica sorta tra Mario Rapisardi e Giosuè Carducci curando, per i tipi dell'editore catanese Giannotta, un libretto, GiosuèCarducci e Mario Rapisardi. Polemica, Catania 1881, nel quale auspicava una pronta riappacificazione. Ma la prefazione non piacque al Carducci che se ne risenti tanto che essa scomparve nelle edizioni successive senza che per questo il D. desistesse nel suo tentativo di riconciliare i due.
All'inizio dell'82 diventò il corrispondente da Catania del Fanfulla di Roma, con una serie di lettere intitolate "Echi dall'Etna" che firmò con lo pseudonimo HamIet. Nella primavera dell'83 inviò al Capuana, direttore a Roma del Fanfulla della domenica, una novella, La malanova, che fu però rifiutata perché giudicata troppo irta di sicilianismi. Divenuto quindi collaboratore della casa editrice Giannotta, il D. fondò la collana narrativa dei "Semprevivi", avendo così modo di frequentare da vicino non solo il Capuana ma anche - tra gli altri - Giovanni Verga, con il quale iniziò un'amicizia continuata fino alla morte di questo. Appartengono a tale periodo numerosi articoli critici di letteratura e arte su autori quali Flaubert, Zola, Capuana, Serao e Cesareo, poi raccolti in volume col titolo Arabeschi (Catania 1883). Nel 1884 iniziò la sua collaborazione al Fanfulla della domenica, che continuerà fino al 1890. Qui pubblicò un gruppo di novelle di carattere psicologico e mondano che saranno ripubblicate nella raccolta Documenti umani (Milano 1888), nelle quali già si ravvisano con chiarezza quella scrupolosità della osservazione, quella sincerità di espressione e impersonalità di esecuzione che guideranno le sue scelte letterarie ed estetiche anche nella maturità. Leggeva e traduceva poeti e narratori stranieri, soprattutto francesi, e si cimentava pure nella poesia con i sonetti, enfatici e acerbi, di Encelado, che pubblicò solo qualche anno più tardi (Catania 1887). Sempre a Catania vide la luce la raccolta di novelle La sorte (1887), che Treves gli aveva rifiutato.
Praticamente ignorati dalla critica, i racconti furono apprezzati dal Capuana, che ne lodò "la fermezza della mano, la precisione del tocco, la giusta misura". Di ispirazione prevalentemente verghiana, in La sorte l'obiettività e l'impersonalità sono programmatiche, la scrittura essenziale, spoglio il linguaggio delle cose. In La disdetta, il migliore di essi, la figura della protagonista è tracciata con sicurezza ed efficacia e la passione morbosa per il gioco adombra la fatalità della sorte che l'attende, incarnata nella decadenza fisica e poi nella morte, motivi che troveranno piena espressione nei Viceré.
A questo periodo risale la prima idea di Ermanno Raeli (Milano 1889), inizialmente concepito come uno dei Documenti umani, romanzo fortemente autobiografico nel quale è narrata la storia di un uomo e dei fallimenti che lo conducono al suicidio.
Alle suggestioni contenutistiche e formali connesse al non rifiutato magistero verghiano si affianca ora uno studio analitico dell'anima, e ciò contribuisce a proiettare Ermanno Raeli, personaggio individualistico ed egocentrico, irresoluto e incapace di autodeterminazione, nel mondo dei vari Andrea Sperelli, Daniele Cortis e Des Esseintes, accanto cioè a quelle figure tipiche del decadentismo europeo nelle quali si rivela la malattia dello spirito, quelle in cui - secondo la definizione dell'autore - "il pensiero precede l'esperienza, invece di assoggettarvisi".
Seguì un periodo di alternanza tra novelle naturalistiche di argomento siciliano (come già La sorte e i successivi Processi verbali, Milano 1890) e novelle di carattere psicologico-sentimentale (Documenti umani, cit., e L'albero della scienza, ibid. 1890). I Documenti umani (come pure le più tarde note psicologiche de Gli amori) sono sempre percorsi e talvolta soffocati da una struttura riflessiva che non permette quasi mai la simpatia con personaggi e situazioni.
Aprioristici e raziocinanti nel delineare figure malinconiche di vinti da un destino avverso, descrizione di anime fragili, dominate da una perpetua crisi di inquietudine, questi racconti si avvicinano visibilmente allo psicologismo bourgettiano e alla "maniera" del Verga di Eros e di Tigre reale. Con L'albero della scienza il documento, elemento cui il D. non rinuncia e che resta comunque al centro della sua narrazione, è ravvivato da un'indagine psicologica che spesso si avvale della tecnica del discorso indiretto. Compare la figura innovativa dell'uomo alienato che assiste sorpreso e impotente al compiersi tragico del suo destino. A questo periodo si può ricondurre il trapasso del D. dal verismo come ispirazione diretta della realtà ad una prospettiva più ampia, che accoglie notevoli elementi di soggettività di fronte ai quali il documento non è più il solo depositario del vero. Ora l'attenzione dello scrittore si estende anche ai sentimenti e alle loro complesse interazioni, e viene riconosciuto loro un ruolo sempre più determinante. La lezione dei romanzieri francesi - decisiva per intendere questo ampliamento d'orizzonte - indirizza la sua indagine che si fa più intellettualistica, più attenta alla casistica erotica dei personaggi d'eccezione e alla loro trama psicologica, anche se il tutto non si allontana mai dalla percezione e dalla consapevolezza della gratuità del gioco intellettuale.
In questi anni, intensi e ricchi sotto il profilo sia umano sia intellettuale, si rivelò importante per lo sviluppo della personalità letteraria del giovane D. l'incontro con Paul Bourget (dicembre 1890), del quale proprio in questa occasione tradusse alcuni degli Aveux. Continuava la frequentazione (con il piacere della conversazione e di lunghe passeggiate per certi versi "rituali") di una cerchia ristretta di amici, tutti scapoli: Clerle, segretario di prefettura, il conte Guido Viani, Sabatino Lopez, che aveva ottenuto la cattedra di letteratura italiana a Catania, e Giovanni Verga, il più illustre della brigata, al cui fianco il D. camminava "adorante e riamato" (Lopez). Se il D. riconobbe sempre in Capuana e Verga i suoi maestri, è certo però che al secondo in particolar modo andarono oltre che l'ammirazione anche una vivissima devozione e un caldissimo affetto. Instancabile intanto continuava la sua collaborazione a giornali e riviste: tra i più importanti, la Nuova Antologia, L'Illustrazione italiana, La Rivista d'Italia, La Lettura, Il Giornale d'Italia, Il Secolo XX, Il Giornale di Sicilia.
Nel 1890 lavorò a L'illusione, che pubblicò nel giugno dell'anno successivo presso la casa editrice Galli di Milano. Il romanzo tende a conciliare le due esigenze che più gli stanno a cuore: quella, primaria, dell'assoluta fedeltà al vero, e quella dell'indagine psicologica del personaggio. La soluzione è un romanzo psicologico nel quale però l'autore si faccia, secondo le sue stesse parole, "storiografo del vero".
La nuova formula gli dà più ampio respiro e gli consente di seguire, dall'infanzia alla morte, tutte le vicende della protagonista, la principessa Teresa Uzeda di Francalanza. Sulla linea del realismo di Flaubert e Maupassant, il narratore rinuncia a mettere in campo la propria voce (se non con rarissime eccezioni e sempre in modo ben riconoscibile), ricorrendo ad una tprospettiva ristretta" (Lavagetto), quella di Teresa: tutto ciò che si descrive risente direttamente del punto di vista della protagonista e delle cose e delle persone che attraversano la sua vita. L'autore non riferisce né da giudizi che non siano o possano essere quelli di lei, senza venire mai meno in tutto il romanzo a questa tecnica della "focalizzazione interna". Pur considerato migliore dell'Ermanno Raeli, al romanzo nuocciono la scoperta somiglianza con Madame Bovary e la monotonia con cui sono ripresentati dialoghi e situazioni tipici dell'aristocrazia: "Pare, leggendo, come se tutte le donne e gli uomini dei racconti di questa sorta di passioni e avventure amorose, sieno convenuti nel romanzo a ripetere stancamente le parti da loro innumeri volte recitate" (Croce).
Ben presto, quasi a modellare la sua stessa biografia su quella dei "maestri", si trovò a seguirne le tracce: come avevano già fatto il Verga e il Capuana, il D. lasciò Catania per Firenze, subito abbandonata per una Milano in piena espansione culturale, aperta alle novità d'Oltralpe ancor più ricca di fascino "europeo" per chi veniva dalla provincia e della provincia avvertiva acutamente e soffriva il grigiore e l'angustia culturale. Il Verga lo introdusse negli ambienti colti e favorì gli incontri con Treves, Boito, Praga, Giacosa, Camerana; cominciò insomma un periodo di intensa attività mondana e letteraria. Il nuovo romanzo, cui stava lavorando, Realtà, era però così triste che egli non riuscì ad andare oltre la metà del primo capitolo. Sempre a Milano ebbe la prima idea dei Viceré che iniziò a scrivere appena tornato a Catania e la cui stesura lo occupò interamente per tutto il '92 fino al luglio del '93 - quando consegnò il manoscritto all'editore - e che proseguì per altri otto mesi nella correzione delle bozze. Il D. si rivelò un perfezionista, infaticabile correttore di se stesso, mai veramente soddisfatto della sua scrittura. L'attenzione scrupolosa con cui controllava le fonti documentarie di cui si servì per conferire alla narrazione l'auspicato statuto di "vero" (parzialmente negato dal Grana proprio per quanto riguarda i Viceré) diventa quasi ossessiva necessità di ordine e di chiarezza. Non più biografia di un singolo ma osservazione di un'intera famiglia attraverso tre generazioni; il D. passa al romanzo storico, pienamente consapevole di tutti i mutamenti di stile, struttura e tono narrativo conseguenti a tale mutato obiettivo.
Dai moti del '59 alle elezioni politiche dell'82, i Viceré, opera tra le più significative del verismo italiano, tracciano la storia degli Uzeda di Francalanza, aristocratica famiglia siciliana discendente dei viceré spagnoli che riesce a fronteggiare e a superare tutti gli ostacoli derivanti dai moti risorgimentali e dal mutato assetto politico italiano. Ne risulta che dopo più di un ventennio di rivolgimenti storici all'apparenza eccezionali, la situazione della Sicilia si presenta in sostanza immutata: il dominio delle aristocrazie viene riconfermato e sancito dal successo elettorale di Consalvo, il rampollo degli Uzeda, un arrivista ambizioso e senza scrupoli che per puro calcolo politico si fa sostenitore dei più attuali ideali di democrazia e di socialismo. L'autore descrive analiticamente tutti i pur numerosi personaggi senza perdere mai l'occasione per ribadire quella sottile ma ineludibile continuità spirituale - e perfino somatica - che segna il trionfo delle leggi naturalistiche anche nell'ambito della storia umana, dove al di là di ogni apparenza di rivoluzione o di cambiamento politico resistono e vincono solo i più forti, coloro che più presto e meglio sanno adattarsi alle circostanze, quali che siano, per poi servirsene. Su tutti gli altri della famiglia (Consalvo, don Blasco, Lodovico, Raimondo, don Gaspare, Lucrezia, donna Ferdinanda e molti altri) incombe la figura della vecchia Teresa, principessa di Francalanza, la cui morte, che pure apre il romanzo, non rende la presenza meno ossessiva. Orgogliosa, dispotica, avida, calcolatrice e ingiusta anche verso i suoi figli, questa matriarca assomma in sé tutti i caratteri negativi della famiglia, sui quali l'autore indugia con sguardo freddo, ironico quando non deformante fino al grottesco, con l'intento di mostrare la decadenza, la corruzione, la follia che il sangue degli Uzeda, inevitabilmente contaminato da un potere troppo a lungo esercitato, trasmette ereditariamente. Ciascuno dei personaggi sembra infatti chiuso dentro i confini di questo patrimonio che è genetico e spirituale insieme, imprigionato nelle sue stesse ambizioni, nei suoi pregiudizi e nelle sue meschinità. Espressione tra le più significative del pessimismo dell'autore è il feto mostruoso partorito da Chiara Uzeda. Talora non compresa appieno dalla critica (sono note le stroncature del Croce e del Russo), tutta l'opera del D., e i Viceré in particolare, documentano due crisi: quella della letteratura verista e della cultura positivista da una parte e quella della borghesia postrisorgimentale dall'altra (Tedesco). In questa prospettiva il pessimismo storico, il cerebralismo e il criticismo che caratterizzano tanta parte della lezione derobertiana sono da considerare tra i diretti antecedenti delle problematiche di Pirandello, Jovine, Brancati, Tomasi di Lampedusa e di altri autori fondamentali del Novecento italiano (Spinazzola).
Nello stesso 1893 egli iniziò a scrivere L'imperio, al quale attenderà per lungo tempo e che lascerà incompiuto (Milano 1929; ma si veda l'edizione curata da C. A. Madrignani, ibid. 1981): terzo romanzo del cosiddetto "ciclo degli Uzeda", è imperniato sulle vicende politiche di Consalvo a Roma e costituisce dunque la diretta continuazione dei Viceré; non è però fra i migliori del D., privo com'è di quel vigore e di quella tensione narrativa che invece animano - il confronto è inevitabile - i Viceré.
Consalvo Uzeda ha perduto i suoi tratti caratteristici di cinico, padrone di sé e delle situazioni; a confronto con l'ambiente politico della capitale la sua figura finisce con lo scadere e l'immiserirsi in quella di un avventuriero, mentre la narrazione si fa disorganica e si perde tra divagazioni e annotazioni cronachistiche. Il punto di partenza, il rimpianto per gli ideali del Risorgimento traditi da un ceto parlamentare sollecito unicamente dei propri interessi di carriera, diventa in realtà un pretesto per dare sfogo a una concezione cupamente pessimistica, fino ad intrecciare il tema del suicidio individuale con un nichilismo cosmico che vede nella prospettiva dell'autodistruzione della specie umana l'unica soluzione del problema dell'esistenza.
Nell'agosto del '94 uscì Iviceré (Milano), mentre a Lipsia venne tradotto l'Ermanno Raeli. Nel luglio del '95 il D. era a Milano, dove l'anno successivo vide la luce L'amore. Fisiologia, psicologia, morale, saggio che gli valse l'ammirazione di C. Lombroso e P. Mantegazza. Tornò poi a Catania per una vita sempre più insofferente; lavorò a Spasimo, un romanzo pubblicato a Milano nel 1897, l'anno stesso in cui iniziò la sua collaborazione al Corriere della sera, durata fino al 1910; collaborò saltuariamente a Roma di Roma. Giornale politico-letterario quotidiano (1896-97), che dal marzo 1897 si trasformò nel settimanale Roma. Rivista politica parlamentare, con articoli di letteratura. Soggiornò di nuovo a Milano per qualche mese, scrisse articoli per L'Illustrazione italiana di Treves, lavorò alla monografia Leopardi (Milano 1898) e al rifacimento di Spasimo che aveva accettato di adattare per il teatro (da allora venne spesso chiamato o citato scherzosamente col nome di uno dei personaggi, Zakunine).
In questo romanzo il protagonista, l'intellettuale ginevrino Roberto Vérod (evidente allusione ad Edouard Rod, scrittore svizzero-francese amico del D.), ripropone alcuni dei tratti di Ermanno Raeli: anche per lui la vita è una morte continua, oppressa da un'incessante tensione autoanalitica e raziocinante che gli fiacca la volontà e gli preclude ogni possibilità di azione. Il sentimento amoroso è rappresentato come esperienza eccezionale, acceso da una morbosa sensibilità erotica che la protagonista, Fiorenza d'Arda, esaspera nel rispetto di canoni tardoromantici della donna dai tratti angelicati, pallida e astratta.
Sono questi gli anni nei quali affiorò con maggiore vivezza la passione segreta e sfortunata del D. per il teatro, confessata in una lettera spedita a Lopez da Milano nel maggio 1897 e testimoniata dalla cura straordinaria che pose a Spasimo, protratta infaticabilmente e puntigliosamente per lunghi mesi. Il ritorno a Catania, dovuto all'imminente matrimonio del fratello Diego (annunciato per settembre), non fu dei più felici anche perché veniva a coincidere con un momento di stanchezza intellettuale e di sconforto; fu certamente solo atto di obbedienza e devozione verso la madre, alla quale avrebbe sacrificato il suo tempo e i suoi sogni di carriera, nonché la sua stessa vita affettiva (significativo a questo proposito l'abbandono di Renata, una donna conosciuta a Milano e da lui molto amata). Tornato a casa, continuò a lavorare a Spasimo, che ristrutturò specialmente per quanto riguarda i dialoghi, con l'occhio attento alla scrittura di Dumas figlio, a proposito del quale confessò a Lopez: "mi ha aperto gli occhi" (lettera del 13 ott. 1898).
L'insofferenza per l'ambiente siciliano si rifletté nello stato di abbandono cui si lasciò andare: quello stesso D. che fino ad allora si era sempre distinto per l'eleganza e la fierezza del portamento "a Catania apparve disadorno e negletto" e a chi gliene chiedeva ragione rispondeva: "qui siamo in campagna" (Villaroel, 1954). Comunque, la vita di provincia non affievolì del tutto la sua vena letteraria (come era invece accaduto per Verga): continuava a scrivere con l'impegno e l'amore di sempre, anche se la vita appartata contribuiva all'indebolimento della sua fama nel continente. Di fronte ad una vena creativa che sembrava esaurirsi e non riusciva più ad attingere agli esiti delle prime prove, la critica fu concorde nel considerarlo ormai ben oltre la sua stagione migliore. Accanto alla raccolta Gli amori (Milano 1898), lettere immaginarie indirizzate a un'aristocratica lettrice, o ai saggi di Come si ama (Torino 1900), nei quali la riflessione si appunta sugli amori di grandi personaggi della storia - Bismarck, Napoleone, Lassalle - o della letteratura - Rousseau, Balzac, Goethe, ecc. - egli continuava una narrativa condotta ancora secondo i canoni dell'indagine psicologica, anche se priva ormai di novità d'ispirazione e di freschezza d'immagini. Cominciava a sentire con particolare amarezza il decadere della sua fama, che pure era stata sempre associata e necessariamente subordinata a quella del Verga e del Capuana. In un'intervista fattagli da Lucio D'Ambra però affermava: "ci sono due modi di servire la letteratura: darle orgogliosamente capolavori o sacrificarle modestamente la nostra vita ... a noi appartiene il dovere di onorare di per dì la professione letteraria" e ancora: "dicono tutti che io debba a Verga la mia arte. Può essere e può anche non essere. Ma devo certamente a lui la dignità della mia vita di scrittore e il mio silenzio".
Nel 1901 pubblicò a Torino L'arte e, a Milano, la seconda edizione dell'Illusione. Nel settembre si recò per un breve tempo a Milano e vi tornò nel marzo successivo. Nel gennaio del 1903 era a Roma, ma lo stato di prostrazione successivo a una grave crisi di natura psicologica lo spinse a cercare sollievo nell'aria salubre di Zafferana Etnea. Tuttavia né questo rimedio né i consulti con i più illustri specialisti di malattie nervose riuscirono a liberarlo - se non per brevi periodi - da un disturbo che gli impediva di lavorare e di studiare e gli toglieva ogni interesse. Nominato sopraintendente onorario per i monumenti della provincia, scrisse articoli e monografie di carattere storico e artistico, e per questi lavori, nonostante le ristrettezze economiche, non accettò mai compenso. Pubblicò Catania (Bergamo 1907), una guida artistica con fotografie; la fotografia fu infatti un'attività nella quale sempre si produsse, anche se mai con troppo impegno. Nel 1909 pubblicò un'altra guida, Randazzo e la Valle dell'Alcantara (Bergamo), mentre nel 1927 raccolse gli articoli dedicati alla sua città col titolo Il patrimonio artistico di Catania (Catania). Nella speranza di riprendere a lavorare all'Imperio e con l'intento di documentarsi ulteriormente sulle abitudini e sui costumi dei parlamentari, nell'autunno del 1908 si recò a Roma. Continuò la sua collaborazione a periodici quali La Lettura e la Nuova Antologia. Nel 1911 terminò e pubblicò un nuovo romanzo, La messa di nozze (Milano), che sottopose - con esito favorevole - al giudizio di S. Lopez (peraltro adombrato nella figura di Domenico Perez).
Nominato direttore della Società degli autori al posto del dimissionario Marco Praga, il Lopez gli propose di adattare il nuovo romanzo per le scene. Il ritorno di fiamma per il teatro è immediato e il D. ne ricavò una commedia, L'anello ribadito, che spedì all'amico insieme al copione di un atto unico, Il cane della favola. Sembrava arrivato anche per lui il momento del successo, ma gli attori del teatro Stabile di Milano accolsero senza entusiasmo la commedia. Insoddisfatto del lavoro, il D. lo sottopose a numerosi rifacimenti: "credevo di poter foggiare la commedia sullo stampo del romanzo" è l'espressione della sua autocritica. La lettura di Ch.-M. Donnay, M. Bernstein, P.-E. Hervieu, O. Mirbeau sembrò giovargli; seguì il consiglio di Verga di leggere e studiare E. Augier. Ma nonostante tutti i rifacimenti La strada maestra (questo il nuovo titolo della riduzione della Messa di nozze) non verrà mai portata sulle scene né dalla compagnia Praga, con la quale aveva perfezionato un accordo, né dalla compagnia di Virgilio Talli, con il quale pure aveva preso contatti. Pure in quello stesso anno il D. coronò il suo sogno: al teatro Manzoni, con la compagnia Talli-Melato, venne rappresentato Ilrosario, riduzione teatrale di un racconto pubblicato nel 1899 sulla Nuova Antologia, che era stato fatto precedere, quasi a bilanciarne l'inconsueta asprezza, da una pièce del tutto convenzionale e leggera come Ilcane della favola.
Il rosario delinea con brevi tratti la figura di una madre che spadroneggia sulle figlie, mature zitelle, alle quali impedisce di portare aiuto a un'altra figlia che si è svincolata dal suo giogo e che per questo è stata ripudiata. La prima, del 29 nov. 1911, segnò un grave insuccesso di pubblico, mentre generalmente favorevole fu il giudizio, della critica; la terza sera Ilrosario venne tolto dal cartellone.
Per il D. fu una delusione amarissima e, affranto, si rifugiò a Roma, in casa del fratello. Ma la passione per il teatro lo tentava ancora: il mese successivo scrisse al Lopez di un altro suo lavoro drammatico, La prova del fuoco, di cui però non si saprà più nulla (Barbina). Il fascino della scena tuttavia rimaneva immutato: il teatro è - aveva dichiarato ad Ojetti (1895) - "una forma inferiore d'arte", ma nei Processi verbali ammetteva: "l'ideale della rappresentazione obbiettiva consiste nella scena ... l'impersonalità assoluta non può conseguirsi che nel puro dialogo". Il 30 maggio fu ripresa la rappresentazione del Rosario che suscitò ancora dissensi e venne ritirata. Nel 1913 pubblicò a Milano Le donne, i cavalier..., che raccoglie saggidi carattere erotico-moralistico. La vigilia della guerra lo vede affaccendato intorno al Leopardi, al quale lavorò con estrema faticosità, facendolo e disfacendolo più volte. Nel luglio del '17 venne colpito dalla flebite, un male dal quale non riuscirà più a guarire e che gli procurò dolorosi disagi. Nei periodi trascorsi a Zafferana Etnea mantenne una fitta corrispondenza, specialmente con la madre, che quotidianamente metteva al corrente del suo stato di salute e della sua attività artistica, confidandole dubbi e amarezze. Biglietti affettuosissimi scriveva anche alla nipotina Nennella, che lui e donna Marianna avevano accolto in casa dopo la morte di Diego.
Nel 1918 fu nominato bibliotecario della Biblioteca civica di Catania. Nello stesso anno Nino Martoglio gli manifestò l'intenzione di rappresentarlo in dialetto siciliano e il 25 gennaio successivo la compagnia del teatro Mediterraneo, diretta dallo stesso Martoglio, presentò Ilrosario insieme a Ilciclope di Euripide. Il dramma venne accolto favorevolmente, soprattutto da parte della critica. Compose quindi una serie di racconti, indicati generalmente come "novelle della guerra". Questo "secondo sperimentalismo" derobertiano (Tedesco, 1972) che va dal '19 al '23 si concretò nelle raccolte Alrombo del cannone (Milano 1919), All'ombra dell'ulivo (ibid. 1920), di carattere saggistico, La "cocotte" (ibid. 1920) e L'ultimo voto (ibid. 1923), nonché La paura, edita postuma nel 1929 sulla Fiera letteraria.
Queste "novelle della guerra" sembrano testimoniare un ritorno alla narrazione di tipo naturalistico, e il dato di maggior rilievo è rappresentato dall'adozione di una pluralità di linguaggi, a loro volta espressioni della pluralità degli antagonismi sociali (come nella Paura). Il pastiche linguistico - variamente ripreso nell'espressionismo novecentesco - permette pure di intravvedere una qualche sfasatura tra il conservatorismo e il nazionalismo professati dal D. (che accolse con simpatia il fascismo come apportatore del "nuovo") e la sincera comprensione delle sofferenze dei proletari in guerra (Tedesco, 1981).
Nel 1923 ripubblicò l'Ermanno Raeli in un'edizione riveduta e accresciuta di un avvertimento, di un'appendice di carattere autobiografico, delle sue poesie giovanili e di alcune traduzioni dal francese. Tra il 20 e il 21 febbr. 1923 la madre fu colpita da un grave malore che la rese inferma e sofferente fino alla morte (22 nov. 1926): il D. l'assistette con le cure più amorevoli, trascurando ogni altra attività. La sua morte fu per lui uno strazio irreparabile: "quattro anni vissi sotto la minaccia di questo colpo, ma tanto tempo non bastò, e non sarebbe bastato neanche uno più lungo, a prepararmi". Da quel dolore non si riprese più. Pochi mesi dopo, colpito da lipotimia, morì a Catania coi conforti religiosi (in precedenza si era professato e dimostrato scettico e agnostico in fatto di religione) il 26 luglio 1927. Per contrasti sorti tra Sabatino Lopez e le autorità fasciste, la commemorazione pubblica che gli amici catanesi avevano richiesto non ebbe luogo.
Oltre alle opere citate nel testo, si ricordano: La morte dell'amore, Napoli 1892; Una pagina della storia dell'amore, Milano 1898; Il colore del tempo, Palermo 1900; La lupa (in collaborazione con G. Verga), ibid. 1919; Ironie, ibid. 1920; Nella vetrina, in Due lire di novelle, 20 ott. 1927; L'ebbrezza. Novella postuma, in La Fiera letteraria, 15 e 22 genn. 1928; L'arcipelago della fortuna, ibid., 1º luglio 1928; Come Malta divenne inglese, in Nuova Antologia, 16 luglio 1940, pp. 114 ss.; Giustizia, a cura di A. Di Grado, Catania 1975, Leopardi, con una prefaz. di N. Borsellino, Roma 1980. Dell'epistolario del D. sono state pubblicate, a cura di S. Zappulla Muscarà, le lettere alla madre e a L. Albertini: Lettere a donna Marianna degli Asmundo, Catania 1978, e F. De Roberto a Luigi Albertini, Roma 1980.
Fonti e Bibl.: U. Ojetti, Alla scoperta dei letterati, Milano 1895, pp. 132-138; L. D'Ambra, F. D. illustre sconosciuto, in Trent'anni di vita italiana, III, Milano 1929, pp. 309-321; O. Profeta, D. e Pirandello, Catania 1939; B. Croce, La letter. della nuova Italia, VI, Roma-Bari 1974 (1 ed. 1940), pp. 133 s.; G. Patané, Crepuscolo derobertiano, in Sicilia amorosa, Milano 1946, pp. 211-234; V. Brancati, Un letterato d'altri tempi, in Il Tempo, 18 dic. 1947; L. Russo, Ritratti critici di contemporanei. F.D., in Belfagor, VI (1950), pp. 668-675 (poi in Opere di F. D., a cura di L. Russo, Milano 1950, pp.VII-XIX); G. Mariani, F. D. narratore, Roma 1950 (poi in Ottocento romantico e verista, Roma 1972, con appendice di lettere ined. a D. Oliva); L. Baldacci, Una narrativa esemplare, in La Fiera letter., 7 ott. 1951, pp. 4, 7; L. Russo, Inarratori (1850-1950), Milano-Messina 1951, pp. 109-116; L. Baldacci, F. D., in Studi urbinati di storia, filosofia e letteratura, XXXVI (1952), poi in Letter. e verità, Milano-Napoli 1963; G. Lopez, Un terzetto d'altri tempi. Lettere di G. Verga e F. D. a S. Lopez, in Lo Smeraldo, maggio 1953 (poi in L'Osservatore politico letterario, VI [1969], 6, pp. 65-90); S. D'Amico, Storia del teatro drammatico, III, Milano 1953, ad Ind.; G. Villaroel, F. D., in Gente di ieri e di oggi, Rocca San Casciano 1954, pp. 37-43; E. Scuderi, D. oggi, in L'Osservatore politico letterario, VI (1960), 9, pp. 49-61 (poi con modifiche in Atti dell'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, CXXIII [1964-65], e in Scrittori e critici di Sicilia, Padova 1970); L. Baldacci, Il "mondo" in F. D., in Il Veltro, V (1961), 9-10, pp. 5-14 (poi in Letter. e verità, Milano-Napoli 1963); V. Spinazzola, F. D. e il verismo, Milano 1961; A. Navarria, Due capitoli della biografia letteraria di D., in L'Osservatore politico letterario, VIII (1962), 8, pp. 33-42; G. Grana, F. D., in Letter. ital. I minori, IV, Milano 1962, pp. 3295-3371; E. Falqui, D. e il gattopardismo, in Incontri e scontri. Novecento letterario, s. 7, Firenze 1963, pp. 16-20; N. Tedesco, La concezione mondana dei "Viceré", Caltanissetta-Roma 1963; G. Cattaneo, F. D., in Storia della letter. ital. (Garzanti), a cura di E. Cecchi - N. Sapegno, VIII, Dall'Ottocento al Novecento, Milano 1965, pp. 327-333; E. Scuderi, F. D. e la letter. d'oggi, Catania 1968; S. Zappulla Muscarà, F. D. critico di letter. francese, in Orpheus, XVI (1969), 2, pp. 147-180; T. O'Neill, Lampedusa and D., in Italica, XLVII (1970), 2, pp. 170-183; A. Barbina, L'amara vocazione teatrale di F. D., in La Rass. della letter. italiana, LXXVI (1972), pp. 384-394 (poi in La mantellina di Santuzza, Roma 1983, pp. 219-242); C. A. Madrignani, Illusione e realtà nell'opera di F. D., Bari 1972; N. Tedesco, Strutture conoscitive e invenzioni narrative dal Manzoni ad oggi, Palermo 1972, pp. 207-222; A. Briganti, Il Parlamento nel romanzo italiano del secondo Ottocento, Firenze 1972, pp. 118-129; S. Zappulla Muscarà, F. D. critico e traduttore, Catania 1973; S. Briosi, F. D., in Dizionario critico della letter. ital., I, Torino 1973, pp. 710 ss.; A. Navarria, F. D. La vita e l'opera, Catania 1974; J.-P. De Nola, F. D. et la France, Paris 1975; M. Lavagetto, Introduzione aiViceré, Milano 1976, pp. VII-XXII; A. Di Grado, L'ultimo D., in Società e letteratura a Catania tra le due guerre, Palermo 1978, pp. 207-222; F. Erbani, Il trasformismo politico nella Sicilia di D. in Nord e Sud, XXVI (1979), pp. 110-120; F. D., in Galleria, XXXI (1981), 1-4, numero unico a cura di S. Zappulla Muscarà (con contributi di G. Grana, C. A. Madrignani, G. Santangelo, R. Scrivano, N. Tedesco, E. P. Burrows, J.-P. De Nola, R. Perrould, I. P. Volodina, S. Zappulla Muscarà); N. Tedesco, La norma del negativo. D. e il realismo analitico, Palermo 1981; G. Giudice, Introd. a F. De Roberto, Iviceré e altre opere, Torino 1982, pp. 9-51; G. Grana, "Iviceré" e la patologia del reale, Milano 1982; A. Di Grado, F. D. e la "scuola antropologica", Bologna 1982; G. G. Mandalà, La Sicilia nell'opera di D. e di Tomasi di Lampedusa, Palermo 1982; F. D., a cura di S. Zappulla Muscarà, Palermo 1984 (con contributi di M. Guglielminetti, S. Campailla, G. Grana, E. Scuderi, J.-P. De Nola, G. Nicastro, A. Di Grado, G. Congiu Marchese, M. Maugeri Salerno, F. Gallo, E. Bacchereti, E. Pellegrini, M. Francalanza, S. Zappulla Muscarà); S. Zappulla Muscarà, Capuana e D., Caltanissetta-Roma 1984; C. A. Madrignani, Introduzione a F. De Roberto, Romanzi, novelle e saggi, Milano 1984, pp. IX-LXVII; G. Borri, Invito alla lettura di F. D., Milano 1987; P. M. Sipala, Introduzione a D., Roma-Bari 1988; V. Brancati, D. e dintorni, a cura di R. Verdirame, Catania 1988.