DELLA SCALA, Federico
Figlio di Alberto detto Piccardo (e dunque nipote di Federico detto Bocca, il fratello di Mastino [I] morto nel 1269 combattendo gli estrinseci veronesi) e di Margherita Pallavicino, nacque a Verona fra il 1286 e il 1288 (il matrimonio del padre con la figlia del marchese è del 1285). Il padre Piccardo, testando nel novembre 1288, lo lasciò erede universale, insieme con il figlio allora nascituro (Alberto Novello, che morì bambino avanti il 1297), istituendo come esecutore testamentario Alberto Della Scala, il signore di Verona, al quale lasciò i propri diritti sull'importante castello di Peschiera. Il testamento di Piccardo non elenca i diritti e i beni così pervenuti al D., ma da fonti più tarde risulta che essi già comprendevano cospicui interessi in Valpolicella, a Gazzo Veronese, l'importante castello al confine con il Mantovano (un atto del 1291 è rogato a Gazzo "in chastelario filiorum q.d. Pichardi a Scallis"), e a Cavalpone verso il confine vicentino: le future basi della potenza fondiaria e signorile del Della Scala.
I buoni rapporti di questo ramo della famiglia scaligera con Alberto Della Scala, in quegli anni ormai definitivamente consolidatosi come dominus di Verona, sono attestati dall'investitura a cavaliere, ricevuta dal D. nel 1294 quando aveva sette-otto anni, insieme con i figli dello stesso Alberto, Bartolomeo e Cangrande, con un Pietro Della Scala e con altri uomini di corte. Nel 1297 il D. figura ancora sotto la tutela della madre, attenta amministratrice del patrimonio familiare, mentre sino al 1310 appare un suo curatore. La posizione del giovane D. nell'entourage di Alberto Della Scala non subì scosse: nel 1301egli era presente al testamento del dominus (a differenza dei tre figli ed eredi di costui), insieme con i più illustri collaboratori di governo.
Il D. iniziò a svolgere un'autonoma attività politico-amministrativa verso i vent'anni. Sotto il profilo del consolidamento patrimoniale va segnalata una serie di atti del 1307. In tale data ottenne dall'abate di S. Maria in Organo la conferma dell'investitura del castello di Gazzo (con diritti giurisdizionali); un'investitura precedente è del 1300. Dal mese successivo (febbraio del 1307) è documentato anche l'esercizio di diritti pubblici a Cavalpone, già spettanti ai Crescenzi, una delle principali famiglie della sconfitta "pars Comitum". Anche i diritti goduti in Valpolicella, del resto, spettavano in origine ai conti di Sambonifacio. È noto come il D. tutelasse con estrema attenzione i suoi titoli di legittimità al riguardo: proprio nel gennaio del 1307 egli fece trascrivere il bando con cui Federico II, nel 1239, aveva espulso la "pars Comitum" da Verona.
Nel 1307-1308 presenziò anche, come testimone, ad atti pubblici di rilievo (come la nomina di procuratori o di legati) a fianco di autorevoli personaggi (come Bailardino Nogarola) legatissimi ai giovani domini. In quest'epoca e anche negli anni successivi almeno fino al 1313, egli risiedeva in una sua propria "domus habitationis" nella contrada "scaligera" di S. Maria Antica, domus che va probabilmente distinta da quel "palatius d. Friderici de la Scala" attestato da fonti successive alla morte del D. ed ubicato nella contigua contrada di Chiavica.
Il 15 nov. 1310 il D. presenziò con Cangrande e Alboino Della Scala alla nomina dei procuratori veronesi inviati a Enrico VII. Non esistendo, in questi mesi, prove di sue personali iniziative politiche, va inscritta nel contesto più ampio delle trattative fra i signori veronesi ed Enrico la concessione del diploma imperiale dell'11 febbr. 1311, che confermava al D. i feudi già spettanti ai Sambonifacio in Valpolicella, fra cui le ville di Marano e Volargne. Più tardi, durante l'assedio di Brescia, al quale egli fu presente, un ulteriore diploma imperiale, poi confermato da Pisa nel 1313 dopo l'incoronazione di Enrico VII, conferì al D. tutta la Valpolicella, col "merum et mixtum imperium". Fra il 1312 e il 1313 furono di conseguenza regolamentati i rapporti fra il Comune di Verona e la nuova entità signorile territoriale, che vulnerava gravemente l'unità amministrativa del distretto veronese: si giunse, infatti, alla determinazione di confini, ed alla stipula di convenzioni in materia fiscale e giudiziaria. In seguito, Federico d'Austria (27 febbr. 1319) e Ludovico il Bavaro (3 maggio 1322) confermarono al D. i diritti sulla valle e sul castello di Gazzo.
Assicuratasi così una solida base di potere e di prestigio, il D. cominciò a ricoprire, in stretta collaborazione con Cangrande Della Scala, cariche politiche di elevata responsabilità. Nel marzo del 1312, compare, infatti, come podestà di Vicenza che dal 1311 era stata retta solo dai vicari imperiali, l'ultimo dei quali era stato Cangrande. Ripristinando la massima carica comunale vicentina, quest'ultimo intendeva evidentemente sottolineare la distinzione fra la carica vicariale e quella podestarile (ma si noti che la documentazione imperiale del 1312-13 definisce il D. "vicevicarius"). Come podestà di Vicenza il D. si trovò a dover fronteggiare, poche settimane dopo la sua nomina, un tentativo compiuto dai "guelfi" vicentini e dai Padovani di riconquistare la città. Egli non prese parte però al combattimento di Quartesolo (28 marzo 1312), che fu favorevole ai Padovani; rimasto in Vicenza, si limitò ad approfittare delle defezioni fra i congiurati vicentini per procedere ad una dura repressione, facendo impiccare sei o sette autorevoli cives e bandendone parecchi altri. Fu sostituito nella podesteria vicentina da Galassino Torniano, per ricomparirvi nel marzo 1313. Tuttavia tra il gennaio del 1312 ed il marzo 1314 ricoprì anche la carica di podestà di Verona, dato che un'attestazione a questo proposito si ha per il marzo del 1313: si deve dunque ritenere che egli abbia retto almeno per qualche tempo le due podesterie assieme. Come podestà di Verona si segnalò per l'efficacia con la quale respinse gli attacchi condotti dai Padovani contro la città nell'estate del 1313, in un momento non facile, per Cangrande e per Verona, della guerra in corso con il Comune padovano. Significativo del prestigio da lui goduto presso la nobiltà della Marca in quegli anni è il testamento del miles vicentino Aldovrandino da Arzignano, del 1313, che menziona esplicitamente come tutori dei propri figli "Grandicanem et Federicum", oltre ai "ceteri domini de la Scala". Notevole prestigio godette anche presso Enrico VII: i legati imperiali inviati a Cangrande il 6 maggio 1313 avevano l'espresso mandato di richiedere il D. come comandante dei contingenti veronesi e vicentini che il vicario doveva mandare all'imperatore per l'impresa di Toscana.
Negli stessi anni e nei seguenti, il D. assestava i suoi domini in Valpolicella (1313); nel 1317 non trascurò di far infeudare di beni, dal monastero di S. Zeno, se stesso e il giovane figlio, il "nobilis domicelus" Bartolomeo. Bartolomeo, che doveva morire di lì a poco, nel 1318, era figlio di Imperatrice di Corrado d'Antiochia, che il D. aveva sposato in epoca a noi ignota.
Poco più tardi il D. compì una ulteriore e significativa tappa del cursus honorum, ricoprendo la podesteria di Modena, ove egli fu insediato nell'agosto del 1317 da Cangrande Della Scala e Passerino Bonacolsi. Resse la città emiliana fino al gennaio 1318, quando la preminenza mantovana venne a cessare.
L'invio di questo "miles probus", accompagnato da "magna familia" (in questa, ben noti funzionari veronesi come i giudici Guglielmo da Pastrengo e Guglielmo Servidei), era finalizzato "ad reformandam ipsam civitatem Mutinae". Di che cosa si trattasse lo chiarisce il cronista de Morano, secondo il quale il D. precisò le proprie intenzioni in una "longior oratio", e provvide dopo pochi giorni a richiamare i Pio, i Mirandola e altre famiglie faziose: un impegnativo e problematico, ma proprio per questo significativo, tentativo di pacificazione cittadina, che qualifica il D. come uomo non puramente di parte e di fazione. Nel 1320-21 il D. è attestato in Verona; ma fu poi chiamato ad un altro prestigioso incarico. Nel biennio 1321-23, che si rivelò delicato anche per il trapasso dal governo di Matteo a quello di Galeazzo Visconti, governò infatti Bergamo ghibellina, nel quadro della stretta collaborazione allora operante fra Scaligeri e Visconti.
La documentazione al riguardo di questa amministrazione bergamasca è molto scarsa, ma il D. è citato in un atto come "dominus generalis", in un altro come "director rei publicae Pergamensis". Il Belotti parla di forme "mal definite" di signoria; un documento dell'11 nov. 1322 (Arch. di Stato di Verona, Alberti-Cermison, perg. 11) attesta comunque la concessione al D. dell'"arbitrium" e del "merum et mixtum imperium" da parte dell'Arengo. "Director" il D. è detto in una lettera del vescovo della città, Cipriano Alessandri, che gli concede di abitare nel palazzo episcopale e riconosce la città essere "seditiosa" e dilaniata dalle lotte di fazione. A Bergamo, il D. "magnos peritos habebat in curia sua", secondo quanto afferma Alberico da Rosciate: un elemento che concorda con quanto sopra ricordato a proposito della podesteria modenese. Lo stesso giurista ricorda anche una quaestio giuridica disputata da lui in materia penale, e lo definisce con termine alquanto indeterminato "legumlator". Con questo passo del da Rosciate è certo da riconnettersi l'affermazione (sinora non suffragata da altre prove) del Dal Pozzo, lo storico del Collegio dei giuristi veronesi, che fa senz'altro del D. un doctor.
Nel 1325 la carriera politica e la stessa vita del D., ormai maturo di età e di esperienza politica, ebbero una svolta decisiva, connessa con i dissensi nati nella famiglia scaligera a proposito di una sua eventuale successione a Cangrande, e con il provvedimento di bando che quei dissensi concluse. L'episodio è noto, in sostanza, solo per gli accenni che vi dedica il continuatore del Chronicon Veronense, dato che, sin'ora, sull'argomento non è emersa documentazione archivistica. Durante una malattia di Cangrande, mentre si dubitava della sua morte - riferisce il cronista - "dominus Fredericus de la Scala et filii domini Albuini verba de dominio civitatis inter se habuerunt", con un'espressione che significa "altercarono", "disputarono" Ce lo conferma uno dei codici che ci hanno tramandato il Chronicon, ilms. Oxoniense (Canonic. 288), che ha "verbis de dominio contendentes". Su questo dissidio, comprensibile se si pensa che i figli di Alboino Della Scala, Alberto e Mastino, avevano rispettivamente ormai diciannove e diciassette anni ed evidenti ambizioni, si inserì forse l'agitazione della guardia di Cangrande - "stipendiarii domini Canis ad arma traxerunt", prosegue, infatti, il testo cronistico. Fatto sta che il D. fu "captus" e "a Verona relegatus, cum sua familia" il 14 sett. 1325. Non meno interessante dal punto di vista politico, l'accenno che l'anonimo cronista fa circa una successiva persecuzione compiuta contro l'entourage del D.: "plures amici ipsius ... mortui et capti fuerunt, et praedati".
Nel 1327-28 il D., esule, compare per l'ultima volta alla ribalta politica, assumendo per conto di Ludovico il Bavaro la carica di vicario imperiale di Savona (cui si aggiunsero poi Noli, Albenga e Diano) e degli estrinseci genovesi. Ivi fu accolto "devote". Non è forse casuale la coincidenza fra l'assunzione di questa carica e la freddezza, se non ostilità, venutasi a creare nei primi mesi del 1327 fra il Bavaro e Cangrande. Del vicariato savonese del D. ci restano alcuni diplomi.
Nel biennio successivo il D. compì ancora qualche vano tentativo per rientrare nel gioco. Il 23 luglio 1329 - il giorno dopo quello della morte di Cangrande - il Bavaro rilasciò al D., da Pavia, un diploma di conferma dei suoi diritti sulla Valpolicella, che il D. non poté mai far valere. A partire da quei mesi, lo troviamo a Trento, presso Enrico di Carinzia, allora in urto con i domini veronesi; ma quando, nel 1330, le relazioni fra Verona e Trento migliorarono, questo fatto gli dovette far comprendere che ogni sia pur vaga possibilità di rivalsa era ormai svanita. Cionondimeno il D. restò a Trento, ove abitò in casa dei "de Castronovo", adattandosi a una modesta vita ai margini dell'ambiente di governo, dal quale gli provennero via via sovvenzioni in denaro. È attestata in questi anni (1334-36) anche la morte di un suo figlio.
Il testamento dei D., redatto in Trento il 29 nov. 1339, rappresenta un po' una summa della sua esperienza politica. Vi vengono ricordate le origini duecentesche (legate alle confische connesse con le lotte di fazione veronesi) del suo patrimonio; vi sono menzionate le pendenze aperte a seguito del vicariato di Savona; soprattutto si insiste sul comitatus della Valpolicella e sul titolo di comes, per farsi confermare il quale il D. aveva ottenuto dal Bavaro, in epoca a noi ignota, ma da porsi fra il 1329 e il 1339, un ulteriore diploma, ora perduto (una lettera del D. datata 1341 reca infatti un sigillo, con insegna corrispondente a quella menzionata in una minuta non datata di diploma, conservata all'Arch. di Stato di Verona, Antico archivio del Comune).
Dopo il 1341 non si hanno, allo stato attuale delle ricerche, ulteriori notizie sul D.; si ignora la data esatta della sua morte, che alcuni eruditi veronesi del Cinque-Seicento collocano al 1349.
Il D. resta forse il solo esponente della famiglia Della Scala che abbia avuto - astraendo dai domini della città - un suo profilo politico e un suo ruolo autonomo, sia nella fattiva collaborazione con Cangrande - la sua attività non sfigura certo nel confronto con quella di altri grandi "milites" veronesi dell'epoca, vere colonne della politica scaligera, come Bailardino Nogarola o Pietro Dal Verme - sia nella pur modesta attività svolta per l'Impero al di fuori dell'ambito locale.
Oltre al citato Bartolomeo, e all'altro figlio premortogli in Trento, il D. ebbe cinque figlie, tutte menzionate nel testamento. Una fu francescana nel convento veronese di Campomarzio; una, Sofia, sposò Azzone Castelbarco; un'altra, Beatrice, il nobile tirolese Corrado detto Trausone di Schlandersberg (Silandro); una Anna, forse, un da Caldonazzo; e una, Elisabetta, fra il 1339 e il 1341, Enrico di Steinegg.
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