DELLE SCALE, Federico
Nacque a Bologna nella prima metà del sec. XIII, da Gerardo.
Tranne l'origine bolognese nessun dato biografico concreto era noto al Diplovatazio, che lo pose al tempo di Riccardo Malombra. Ancora in pieno sec. XVI Marco Mantova Benavides, ripetendo un luogo bartoliano in cui il D. è posto fra gli" antichi dottori", non sapeva indicare né il periodo né il luogo del suo fiorire, opinando tuttavia per un probabile magistero bolognese. Solo nel primo quarto del sec. XVII il Pasquali Alidosi poteva precisare una data (il 1258) e ricordare per inciso l'episodio pubblico più importante della vita del D., cioè la sua cacciata da Bologna quale appartenente alla fazione soccombente dei Lambertazzi.
Pare in sostanza che l'erudizione storico-giuridica del Cinque e Seicento abbia conservato memoria di lui quasi unicamente in grazia della buona fama di legista che il D. si meritò presso i più celebri commentatori canonisti e civilisti: da Angelo degli Ubaldi ad Alberico da Rosate, da Giovanni d'Andrea allo stesso Bartolo.
Più copiose sono le notizie biografiche raccolte dall'erudizione settecentesca, rappresentata in primo luogo dall'abate M. Sarti, notizie alle quali si aggiungono gli importantissimi dati ricavabili dai circa quaranta documenti riguardanti il D. tratti dagli archivi bolognesi e finora pubblicati nel Chartularium Studiibononiensis.
I documenti visti dal Sarti, e ricordati anche dal Fantuzzi, lo mostrano ascritto alla matricola dei notai bolognesi per l'anno 1250, mentre nel 1258 il D. sarebbe già stato, sempre a detta del Sarti, nel numero dei giudici. Ma in nessuno dei numerosi atti registrati nel Memorialia del Comune bolognese il D. è detto iudex prima del 17 febbr. 1267, quando egli, con Guido da Marano, Borromeo da Dugliolo e lacopino Usbergo, approva "secundum fonnam statutorum communis Bononie" il contratto di prestito di una somma occorrente a pagare, a nome del Comune, i quattro banditori, il campanaio e il portinaio (Chartularium, VII, n. XLVI, p. 27). Nessun titolo, tranne quello generico di dominus, gli è invece attribuito negli atti registrati nei Memorialia fra il 29 giugno 1265 e l'i i genn. 1267- Il titolo di iudex compare saltuariamente anche negli atti relativi al 1268 trascritti nei Memorialia:così il - 14 di giugno e il 3 luglio, date nelle quali il D. funge da teste; e ancora il 10 marzo, data in cui il D. acquista un podere con casa, ed il 6 dicembre, quando il D. cede a Giovanni di Matteo de' Maffi diritti e azioni da mutuo ad laborandum (Chartularium, VII, nn. DLXXX, CCXXXII, CLXXVI; VIII, n. CLXV). È invece chiamato genericamente dominus in tutti i restanti documenti dello stesso anno 1268 (ibid., VII, nn. DXXII e CCCLXXV; VIII, n. CCCCXXIV).
Il Sarti, seguito dal Fantuzzi, arguì pertanto si dovesse collocare in una data successiva al 1268, anno in cui per l'ultima volta il D. è detto iudex tin quodarn instrumento cessionis" (cioè sicuramente nell'atto del 6 dicembre), il suo dottorato. Il Sarti ricordava inoltre un arbitrato del D. in una lite fra due studenti, compreso nei Memorialia e datato al 1269, nel quale ricorreva il titolo di doctor legum. La documentazione finora edita consente forse di restringere la data del dottorato al periodo compreso fra il 6 dic. 1268 e il 18 genn. 1269, data nella quale il D., fungendo da teste in un contratto di vendita d'un Decretum, è detto iurisperitus (Chartularium, XI, n. CCCXXXIV). Ma in un'occasione analoga, cioè la vendita di un Digestum Vetus conclusa il 30 luglio dello stesso anno, il D. è detto semplicemente dominus, cosìcome nel cenno presente in un atto del 7 ag. 1269 (ibid., n. CXCI e n. V).
Al 1269 deve, comunque, datarsi l'ascesa del D. al magistero universitario.. In quell'anno infatti egli fece parte, con Rufino d'Adalberto Principi e Borromeo di lacopo di Dugliolo, del gruppo dei giureconsulti che occuparono un posto presso lo Studio bolognese per la parte ghibellina dei Lambertazzi, mentre per la parte guelfa dei Geremei salirono la cattedra Lambertino Ramponi, Tomasino di Guido Ubaldini e Basacomare d'Alberto Basacomari. Le lotte di parte che si accesero in Bologna negli anni immediatamente successivi non potevano dunque non coinvolgere il D., che appunto come ghibellino e fautore dei Lambertazzi aveva occupato un posto nello Studio. Egli, infatti, in seguito alla vittoria dei guelfi, fu bandito dalla città con numerosi altri doctores legum:facevano parte del gruppo, con il D. e i già nominati Rufino d'Adalberto dei Principi e Borromeo di Iacopo di Dugliolo, Tommaso di Piperata, Spagnuolo Abati, Bonrecupero dal Porro, Ribaldo Fuscardo, Alberto Carrari, Giovanni Ungarelli e Scannabecco Bavosi, oltre ai figli di Accursio, e ancora Azzone dei Lambertazzi, Guglielmo Cacciti e Iacopino de' Pizzigotti (Savioli, pp. 423, 487).
Incerta rimane la data dell'espulsione del D. da Bologna: il suo nome, secondo le notizie riferite dal Sarti, risulta compreso nel Libro dei confinati per gli anni 1277 e 1282, e i Memorialia del Comune bolognese ricordano che il D. venne emancipato dal padre il 7 genn. 1275. Per di più, la quaestio Duo fratres habentes predia, nella copia del ms. Chigi E. VIII. 245, della Biblioteca apostolica Vaticana, è accompagnata da una sottoscrizione datata 15 nov. 1274. Sembra tuttavia improbabile che il D., seriamente compromesso per la sua appartenenza alla parte soccombente ed espulsa, possa aver tenuto pubbliche dispute cinque mesi dopo i fatti sanguinosi del giugno 1274, che avevano, portato alla cacciata dei Lambertazzi, e forse la data della sottoscrizione è da riferirsi piuttosto alla trascrizione della quaestio stessa.
È comunque certo che il D. riparò come molti altri in Padova. La prova dell'esilio patavino - già sostenuto dal Gloria - è in una pergamena dell'Archivio del monastero di S. Agnese in Bologna, pubblicata dal Sorbelli: si tratta della copia coeva dell'atto di rinuncia di Riccardino Sturnitti all'eredità del fratello Aigone, in data di Padova 26 febbr. 1284, "in domo quam inhabitat dominus Fredericus de Scalis legum doctor", e in cui il D. funge da teste (Chartularium, II, n. XXXVI, p. 34). L'importante testimonianza consente anche di accertare che il D. dimorava ancora in Padova qualche mese dopo il decreto emanato dal Comune bolognese il 3 nov. 1283, con il quale, come scrive il Sarti, il giurista fu richiamato in patria "uti Jeremiensis", cioè come guelfo e fautore dei Geremei.
Dopo il quasi totale silenzio del decennio dell'esilio, numerose sono le notizie sugli ultimi anni del D., che "infirmus" fece testamento il 2 ott. 1285, lasciando eredi le sorelle Carissima, Bangitta e Giacobina. Il testamento, tratto dal Sarti dai Memorialia del Comune bolognese e dal quale risulta che il padre Gerardo era già morto a quella data, è di grande importanza per essere stato rogato - così come altri atti in seguito - nella casa di Francesco d'Accursio "in Capella S. Tecle", in cui il D. abitava, a testimonianza dunque del perdurare di uno stretto rapporto di familiarità col figlio del celebre glossatore.
Soprattutto gli atti relativi all'anno 1286, conservati nei Memorialia, mostrano non solo una piena ripresa dell'attività universitaria del D., ma un suo notevole sforzo per assodare la sua posizione patrimoniale e finanziaria. Altri documenti, tratti dai Memorialia del Comune bolognese e ricordati dal Sarti, attestano la presenza del D. nello Studio negli anni successivi. Un atto del 20 genn. 1288 obbliga lo studente "Smeraldus de Gulvo" ad un debito verso il D. per le spese universitarie, con la solita consegna di alcuni libri a mo' di pegno; e ancora nel medesimo anno 1288, l'8 dicembre, il D. concede un prestito ad alcuni suoi studenti. È ancora più importante, infine, il documento del 18 marzo 1289 pubblicato dal Kantorowicz, e ricordato anche dallo Zaccagnini con la data del 4 aprile, tratto dagli atti del podestà Antonio da Fissiraga: il D. vi è nominato con Francesco d'Accursio, Martino Sillimanì, Uguccione de Ursellis, Guido da Baisio e Marsilio Manticelli, dinnanzi alle scuole dei quali sono "gridati" i nomi degli studenti inquisiti per una sanguinosa rissa. t questo, se si eccettua un secondo testamento databile allo stesso anno, l'ultimo atto della sua vita che ci sia noto attraverso la documentazione.
Il secondo testamento, ricordato nel Memoriale di Iacopo d'Argile, disponeva dei beni del D., a detta del Sarti, "aequis partibus" a favore dei frati predicatori e dei minori, onde il Fantuzzi suppose che la sua sepoltura fosse presso l'uno dei due Ordini (e si trattava forse del cimitero dei frati di S. Domenico, dove il Pasquali Alidosi attestava di aver veduto "un deposito eminente de terra" con una iscrizione del 1304 relativa ad una donna della famiglia "de Scalis"). Ma la particola del testamento del D. conservata in una copia quattrocentesca presso l'Archivio dei canonici regolari lateranensi di S. Giovanni in Monte e S. Vittore e pubblicata dal Cencetti, con la data 1289, dispone della proprietà "sue tumbe de Quarto cum podere iuxta dictam tumbam posito", frutto del ricordato acquisto del 10 marzo 1268, e della proprietà "sui predii de Marano" a favore della chiesa di S. Michele di Bosco, con la condizione che i frati di S. Michele diano ogni anno ai sacerdoti di Bologna il necessario per "conficere corpus Christi et celebrare", e parimenti ai sacerdoti poveri di Bologna "medietatem tocius vini quod percipietur de dictis possescionibus ... pro conficiendo corpus Christi" (Chartularium, XII, n. CLVII, p. 168).
E al 1289 si deve porre l'anno della morte del D.: nel gennaio del 1290 Beatrice Malavolti (non a caso appartenente a una delle principali famiglie guelfe della città), che il D. aveva sposato in seconde nozze dopo la morte di Uliana di Bianco di Borgonovo (la quale viveva ancora nel 1275), è ricordata in un atto veduto dal Sarti come vedova.
Il D. appartenne a quel ceto di notai-giudici e giuristi di età postaccursiana, strettamente legato alla vita politica cittadina e comunale della seconda metà del Duecento. La sua fama di dottore civilista, alimentata dal ricordo dei commentatori trecenteschi, fu legata principalmente alla diffusione di alcune quaestiones disputatae e all'attività di consulente. Della sua opera esegetica, invece, quasi nulla è rimasto: giusto il ricordo di Alberto da Gandino, di una giossa a C. 9, 35, 11, ed una piccola additio alla glo. "eo loco", in l. obsignatione, C. de solutionibus et liberationibus (C. 8, 42 [43], 9), segnalata dal Ruysschaert in margine alla c. 213r del cod. Vat. lat. 11598. Quanto poi alle quaestiones e ai consilia, ilDiplovatazio, ricordando che il D. "pulchra bona scripsit in iure civili", aggiungeva che al suo tempo circolavano ancora "plures questiones disputate, et inter cetera pulchrum opus consiliorum".
Ancora sul finire del sec. XVIII il Fantuzzi, ripetendo quasi alla lettera parole del Sarti, lamentava la perdita del "volume di Consiglì lodati dagli antichi legisti, ma ora ignoti, perché non mai stampati". Ma almeno una quaestio disputata dal D. e attinente a problemi di legislazione statutaria era confluita parzialmente nella grande raccolta in quattro libri di Quaestiones statutorum del grande giurista bergamasco Alberico da Rosate: si tratta di un luogo rammentato dal Diplovatazio e ricordato dopo di lui da tutti gli antichi biografi, ora escerpito dal Romano. La quaestio (inc. Titius filius familias) si conserva comunque manoscritta con alcune altre, sebbene non tutte di certa attribuzione, nel cod. Arch. S. Pietro A. 29 della Biblioteca apostolica Vaticana, uno dei due Librimagni quaestionum disputatarum ritrovati da M. Bellorno (il secondo è il cod. Chigi. E. VIII. 245, anch'esso contenente quaestiones dei D.) e utilizzati dal Cortese e dal Martino. Questi ha da ultimo ritrovato altri testimoni nel cod. 992 della Universitätsbibliothek di Lipsia, contribuendo così ad una prima delineazione della tradizione delle opere del giurista bolognese. Un'altra quaestio, vertente su di un argomento di pratica notarile, è presente nella grande raccolta di quaestiones e consilia dei cod. Vat. lat. 8069, ricordato già nell'indice del Guizard e ora descritto da A. Campitelli e F. Liotta.
Sembra invece dovuta a confusione col nome di Federico Petrucci l'assegnazione al D. ("Federicus de Scallis de Senis decretorum doctor") di una quaestio contenuta nel cod. Magl. XXIX, 179 della Biblioteca nazionale di Firenze: ed è senz'altro notevole che tale confusione si trovi anche nelle segnalazioni del Blume circa i codd. 74, 81 e 109 della Biblioteca del Collegio di Spagna in Bologna. È superfluo aggiungere che tali incertezze si sono riprodotte, necessariamente, nel Verzeichnis del Dolezalek.
Il quadro, certamente provvisorio, che si può delineare intorno alle quaestiones, dopo un ulteriore controllo dei manoscritti vaticani, è il seguente (compresi tutti i testi di dubbia attribuzione):
Quaestio Comune Bononie habet tale statutum. Èconservata manoscritta, con esplicita attribuzione al D., nella Bibl. apost. Vaticana, cod. Cap. Arch. S. Pietro A. 29, cc. 185rA-186rA (cfr. Cortese, p. 250 n. 198).
Quaestio Dicit statutum: Nullius Lambertacius ascendat palacium. Si conserva nel cit. cod. Arch. S. Pietro A. 29 (con la lezione "lambertarius"), cc. 187rA-188rB, con esplicita attribuzione al Delle Scale. Per il tema che pone (contrasto fra lo statuto che commina una pena di 25 lire per i Lambertazzi che osino entrare in palazzo e la reformatio che prevede che "onines Lambertacii de granata qui fuerunt approbati in consilio pro non Lambertacii habeantur"), la quaestio può essere assegnata al periodo immediatamente successivo al ritorno in Bologna del D.; il quale apparteneva appunto ai Lambertazzi Guarnatae exterioris (cfr. Cortese, p. 250 n. 198).
Quaestio Duo fratres habentespredia diviserunt ea. È conservata anonima nel cod. 992 della Universitätsbibliothek di Lipsia, cc. 132vB-133rB, e con esplicita attribuzione al D. nelle due copie del cit. cod. Arch. S. Pietro A. 29, cc. 103rA-vB e 141vA-142rB, e nel cod. Chigi E. VIII. 245, cc. 40vB-41rB: quest'ultimo, come sopra accennato, contiene una sottoscrizione, molto simile a quella della quaestio Quidam Mevius nomine, con la data del 15 nov. 1274 (cfr. Bellomo, p. 45 e n. 67). La quaestio è parzialmente edita dal ms. lipsiense in Martino, pp. 238 s.
Quaestio Imperator Herricus (al. Onorius) titulo donacionis. È conservata con esplicita attribuzione al D. e con la lezione "Herricus" nel cod. Arch. S. Pietro A. 29, cc. 186rA-187rB, e, con la lezione "Onorius", nel cod. Chigi E. VIII. 245, cc. 166vB-167vB (per un errore di trascrizione la quaestio non è compresa nel sommario del ms. chigiano).
Quaestio Mortuo tabellione inveniuntur quedam inbreviature. Èconservata nel cod. Vat. lat. 8069, cc. 173v-174v, con attribuzione al D. nella sottoscrizione (cfr. Campitelli-Liotta, p. 396 e n. c.).
Quaestio Padue est statutum quod nullus personaliter. Èconservata con attribuzione al D. nel cod. Arch. S. Pietro A. 29, cc. 183vB-185rA. Si tratta del solo scritto che rimandi al periodo dell'esilio patavino, e come tale lo ricordò il Gloria, che lo trovava menzionato da Geremia da Montagnone (cfr. Cortese, p. 250 n. 198).
Quaestio Ponatur quod in civitate Bononiae sint xlii. monetarii. Èconservata con attribuzione al D. nel cod. Arch. S. Pietro A. 29, c., 159vA-B (cfr. Cortese, p. 250 n. 198).
Quaestio Quidam Aldrovandus de uxore sua. Èconservata, con attribuzione al D., nel cod. 992 della Universitätsbibliothek di Lipsia, c. 140rA-vA (con la variante "Aberenandus"), nel cod. Arch. S. Pietro A. 29, cc. 122vB-123rA, e nel cod. Chigi E. VIII. 245, cc. 154vB-155rB. Il testo è parzialmente edito dal ms. lipsiense in Martino, pp. 255 ss.
Quaestio Quidam Mevius nomine fecit testamentum. È attribuita a Lambertino Ramponi nel cod. 992 della Universitätsbibliothek di Lipsia, c. 132rB-vB, così come nel cod. Arch. S. Pietro A. 29, c. 141rA-vA. Il solo cod. Chigi E. VIII. 245, c. 263rB-vA, la assegna al D. con una sottoscrizione che ricorda quella della quaestio Duo fratres habentes predia. Iltesto è però dato come anonimo nel sommario del ms., c. 13rB. Si deve ancora aggiungere che una nota marginale di altra mano assegna lo scritto al Ramponi, cosi come a questo lo attribuiva Giovanni d'Andrea, allegandolo in una sua additio allo Speculum del Durante (IV 3). La questio èparzialmente edita dal ms. lipsiense in Martino, pp. 236 ss.
Quaestio Quidam nunciavit pecuniam quibusdam. Èconservata anonima nel cod. 993 della Universitätsbibliothek di Lipsia, cc. 134vA-135rA, con la correzione "mutuavit", mentre èattribuita a Lambertino Ramponi nel cod. Arch. S. Pietro A. 29, cc. 143vB- 144rA. Il Martino la dà anonima anche nel cod. Chigi E. VIII. 245, cc. 263vB-264rA, ma qui due note marginali di mani diverse la attribuiscono al D., così come il sommario, c. 13vA. Il testo èparzialmente edito dal ms. lipsiense in Martino, pp. 242 ss., dove si ricorda la sua allegazione in Giovanni d'Andrea (Add. ad Spec. iudiciale, VII 1, 15), con l'attribuzione al Ramponi e la lezione "nunciavit".
Quaestio Quidam pone Ticius cepit agere contra comune Bannarole. È conservata nel cod. Chigi E. VIII. 245, c. 47rA-B, e attribuita al D. sia nella inscriptio sia nel sommario, c. 2rA: "Questio federici", con aggiunta marginale di mano diversa: "de Scal." (cfr. Cortese, p. 250 n. 198).
Quaestio Rex Francorum ordinavit quod quicunque miles. È attribuita concordemente a Francesco d'Accursio nelle copie contenute nei codd. Lat. 4489 della Bibliothèque nationale di Parigi (c. 126vA-B, datata 1272), Arch. S. Pietro A. 29 (c. 139vA-B) e Chigi E. VIII. 245 (c. 161rA-B, datata 1273); in quest'ultimo ms. però il nome di, Francesco compare solo nella sottoscrizione, mentre nell'inscriptio lo spazio, lasciato vuoto, è riempito da altra mano col nome del D., al quale la quaestio è assegnata anche nel sommario, c. 8vB. È parzialmente edita dal ms. parigino in Martino, pp. 279 ss., dove se ne ricorda l'allegazione in Alberico da Rosate, Quaest. statut., III, q. 47 (ora escerpita in Romano, p. 118, p. 143), con attribuzione a Tommaso di Piperata, e in Alberto da Gandino, con probabile attribuzione a Francesco d'Accursio.
Quaestio Ticius filius familias sollempniter positus est in banno. È conservata nel cod. Arch. S. Pietro A. 29, cc. 169vA-170vB, con attribuzione al D. nella inscriptio. E la stessa quaestio ricordata da Alberico da Rosate, Quaest. statut., IV, q. 13, (ora in Romano, q. 135, pp. 152 s.), con cenni ad ulteriori testimonianze di Iacopo d'Arena e di Cino nel commento a C. 6, 24, 1 (cfr. Cortese, p. 250 n. 198).
Quaestio Ticius in testamento suo dedit tutores filiis suis. È conservata nel cod. Chigi E. VIII. 245, cc. 167vB-168vA, con attribuzione al D. sia nell'inscriptio, sia nel sommario preposto al ms., c. 9rB.
Quaestio Ticius Seio rem aliquam dedit in feudum. È conservata anonima nel cod. 992 della Universitátsbibliothek di Lipsia, cc. 133rB-134rB, mentre è attribuita ad Alberto di Odofredo nella copia del cod. Arch. S. Pietro A. 29, cc. 142rB-143rB. La sola attribuzione al D. è nel cod. Chigi E. VIII. 245, c. 263vA-B, sia in un'annotazione marginale di diversa mano, sia nel sommario preposto al ms., c. 13rB. Giovanni d'Andrea, Add. ad Spec. iudiciale, IV, 3, l'attribuiva ad Alberto di Odofredo. Il testo è parzialmente edito dal ms. lipsiense in Martino, pp. 240 s.
Quaestio Ticius vulneravit Seium mortifere. È conservata anonima nel cod. 992 della Universitätsbibliothek di Lipsia, c. 135rA-vA, e con attribuzione a Lambertino Ramponi nel cod. Arch. S. Pietro A. 29, cc. 98vB-99vA. Al Ramponi la attribuiva anche Alberico da Rosate, Quaest. statut., II, q. 53 (ora in Romano, q. 54, p. 104), mentre al D. l'assegnava Giovanni d'Andrea, Add. ad Specul. iudiciale, I, 2. Il testo è parzialmente edito dal ms. lipsiense in Martino, pp. 244 ss.
Il corpus delle quaestiones disputatae del D., pur con le numerose e gravi incertezze di attribuzione, getta comunque una luce assai viva sulla personalità di "tecnico della politica e del diritto" del giurista bolognese, e su quella che certamente fu un'attività molto intensa di consulente e di docente nello Studio di Bologna e in quello di Padova. Il suo nome, come si è veduto, compare nelle raccolte di quaestiones, in quei libri magni quaestionum disputatarum che dovettero formarsi assai presto, accanto (o addirittura in confusione con) ai nomi di Francesco d'Accursio, Alberto di Odofredo, Tommaso di Piperata, Lambertino Ramponi, "gli autori più caratteristici del periodo intercorrente tra la compilazione della Glossa accursiana e la nascita della scuola dei Commentatori" (Martino, p. 226). A noto il ruolo che la diffusione della quaestio ebbe nel processo di assunzione delle norme comunali entro la scienza romanistica, che si deve appunto in primo luogo all'opera dei giuristi di scuola bolognese e patavina della seconda metà del sec. XIII. Attraverso questo "ponte" gettato tra la scuola e la prassi avanzava la giustificazione teorica di un aggancio dei sistemi normativi comunali alla scienza delle leges: "Il giurista, che certo non ignorava l'ordinamento municipale e si era visto anzi costretto, nell'attività forense, a interpretarlo e a farlo oggetto di ragionamenti, tendeva ad aggirar l'ostacolo della sua esclusione dall'ordine ufficiale degli studi per giungere ugualmente a dargli dignità scientifica: la quaestio fu l'espediente preferito, la si sfruttò fino al punto da farne la chiave di volta di un genere letterario nuovo" (Cortese, pp. 250 s.).
In questo preciso quadro storico e culturale deve collocarsi l'attività scientifica del D., che per la sua triplice attività di notaio, giudice e legista deve considerarsi come uno fra i più significativi prodotti di un clima culturale che doveva aprire la strada alle grandi sistemazioni teoriche dei commentatori dei nostro Trecento: gli stessi che, appunto, ne conservarono la memoria e poterono utilizzarlo nei loro scritti, ancora celebrati e in uso nella pratica e nella scuola del diritto del Cinque e Seicento.
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