FELLINI, Federico
Nacque a Rimini il 20 gennaio 1920 da Urbano (1894-1956) e da Ida Barbiani (1896-1984), primogenito di tre figli.
I Fellini discendevano da una famiglia contadina dell’Appennino tosco-emiliano. Urbano, nativo di Gambettola, vicino Rimini, frequentò le scuole elementari e cominciò presto a lavorare; giovanissimo partì per Roma, dove fece il garzone di fornaio, poi tornò in Romagna, avviando un’attività di rappresentante di commercio grazie alla quale si conquistò una buona posizione economica.
A Roma il giovane fornaio conobbe Ida, dirimpettaia del forno, romana del rione Esquilino; i due cominciarono a frequentarsi ma la contrarietà della famiglia di lei indusse i giovani, nel 1919, a fuggire da Roma e a raggiungere la Romagna. Dopo le nozze i coniugi si stabilirono a Rimini e qui, quando Federico aveva appena un anno, nacque Riccardo (1921-1991) seguito, nel 1929, da Margherita. Ida si dedicò alla famiglia e fu sempre casalinga. Anche se non mancarono mai viaggi nella capitale, la vita dei Fellini si svolse in gran parte a Rimini.
Gli studi di Federico ebbero un corso regolare nella cittadina romagnola – dalle elementari (alla scuola Carlo Tonini), al ginnasio, al liceo classico Giulio Cesare nella sede di Palazzo Buonadrata – al termine dei quali decise di iscriversi all'università di Roma alla facoltà di Giurisprudenza, senza però sostenere esami. Fin da giovanissimo rivelò molta fantasia e talento nel disegno, immaginando vignette e caricature; una vena, questa, che gli consentì i primi approcci ed esperienze di lavoro.
Solitamente la vita di Federico viene raccontata circoscrivendola da principio alla Romagna; in realtà la famiglia mantenne legami con Roma.
I viaggi tra le due città – da un lato, la cittadina di provincia sul mare raccontata dal regista in Amarcord; e, dall’altro, la grande capitale, dove nel 1937 sorse una città del cinema chiamata Cinecittà sul modello di Hollywood – alimentarono in Federico la passione per il cinema, costantemente rafforzata dalla frequentazione, fin da ragazzo, dei cinema riminesi e soprattutto del Fulgor. Qui si recava, talvolta, anche di nascosto dai genitori.
Era quella un’epoca in cui la famiglia tradizionale rappresentava uno dei cardini del regime fascista, guidato dal 1922 da Benito Mussolini, romagnolo di Predappio, maestro di scuola ed ex socialista. La famiglia mussoliniana doveva incarnare il modello patriarcale, preferibilmente in divisa. Era un’Italia che amava i simboli, le iperboli patriottiche e le leggende, una tendenza che continuò nel tempo, caratterizzandosi e creando, grazie al cinema, un bisogno di particolari molto spesso inventati.
Ne resta traccia nella stessa biografia di Fellini più volte infarcita di episodi curiosi, tesi a dare un sapore speciale e romanzesco all’infanzia del regista. È pura invenzione la circostanza della nascita avvenuta nel vagone di un treno in corsa tra Viserba e Riccione, a pochi chilometri da Rimini. Altra fandonia è quella di una sua fuga da casa a sette anni per unirsi a un circo di passaggio. Al gioco delle invenzioni partecipò con entusiasmo lo stesso regista che, per esempio, non fu mai alunno interno in un collegio, come gli piacque raccontare in 8 ½.
Gli anni Trenta costituivano un’epoca nella quale comparivano sulle scene nuove forme di narrazioni. Disegnava molto bene Federico, ma era soprattutto spiritoso, con pochi colpi di matita o di colore riusciva a far sorridere e a conquistare le ragazze. Sapeva buttar giù scritti satirici, simpatica spuma di impertinenze, e già pensava a un giornalismo che alle parole avrebbe affiancato le immagini, secondo un gusto che si andava affermando grazie ai film e ai cinegiornali proiettati ancora in bianco e nero sugli schermi dei cinema, per quella che si annunciava come una grande rivoluzione delle percezioni.
Fellini leggeva gli stessi romanzi dei ragazzi della sua generazione, cresciuti sulle pagine di Cuore di Edmondo De Amicis e dei libri esotici e avventurosi di Emilio Salgari. «Cercavamo l’avventura», come disse Indro Montanelli, ricordando le generazioni nate agli inizi del Novecento e delle guerre coloniali in Africa. Oltre ai libri di avventura, circolava Il giornalino di Gian Burrasca di Vamba (Luigi Bertelli 1858-1920), pubblicato su rivista nel 1907-1908 e in volume per la prima volta nel 1912; un diario di impertinenze e di umori sapidi che ispirarono i disegni e gli scritti del giovane Federico. Come i suoi coetanei leggeva anche i fumetti, dei quali si appassionò, considerandoli il suo primo amore. Li disegnava e non li abbandonò mai, almeno con il pensiero, e anche quando era ormai un famoso regista accettò di collaborare con il giovane Milo Manara per storie alle quali egli stesso fornì sceneggiatura e idee visive. Fin da quando, all’età di dieci anni, aveva cominciato ad ascoltare la radio, aveva sentito parlare dei primi esperimenti televisivi; via via poi, nella seconda metà degli anni Trenta, aveva avvertito sempre più forte il richiamo del cinema tanto che l’idea di andare a vedere come lo si faceva divenne presto un sogno irresistibile.
In questi modi, come altri adolescenti, entrò in una nuova e affascinante fase della comunicazione: dalla carta stampata, che si aggiornò con reportage di giornalisti – scrittori inviati nel mondo (Montanelli, Curzio Malaparte, Gian Gaspare Napolitano e molti altri) – alle immagini in movimento, alla radio sempre attenta a nuove forme informative, con scelte vòlte a suscitare consenso verso il regime fascista e con un grande sviluppo della musica leggera e del varietà che arrivarono così a conquistare il paese. Vennero allora alla ribalta artisti destinati a diventare famosi, come Vittorio De Sica, attore brillante e cantante confidenziale nell’indimenticabile Parlami d’amore Mariù della colonna sonora di Uomini che mascalzoni diretto da Mario Camerini nel 1932.
Nel 1937 il regime decise di fondare Cinecittà, con l’obiettivo di emulare e concorrere con Hollywood, i cui studi cinematografici erano i migliori del mondo. Questi furono il modello che il figlio di Mussolini, Vittorio, appassionato di cinema, indicò all’ingegnere Gino Peressutti (1883-1940), architetto progettista di Cinecittà. Costruita in poco meno di due anni, la moderna città del cinema diventò la mèta, spesso il miraggio, di giovani che vedevano maturare una grande occasione: non solo appassionarsi al cinema, ma poterlo avvicinare e addirittura cercare di farlo.
Fellini fu uno di questi. Convinse i genitori e nel 1939 si trasferì a Roma, seguito dalla madre, dal fratello e dalla sorella, allo scopo dichiarato di frequentare l’università. Con in testa i film del Fulgor riminese e in tasca L’avventuroso con i suoi eroi d’oltreoceano, Flash Gordon e l’Uomo Mascherato, ma anche i disegni del Signor Bonaventura di Sergio Tofano, il giovane Federico cercò di avvicinarsi alla mèta senza fretta ma con costanza d’apprendere. Continuava intanto a scrivere per La Domenica del Corriere (con la quale aveva iniziato a collaborare nel febbraio del 1938) articoli di cronaca nera e rosa, barzellette e pure a pubblicare qualche vignetta nella rubrica «cartoline dal pubblico»; molte vignette e rubriche umoristiche firmate Fellas, furono pubblicate anche dal settimanale satirico-umoristico Il 420. Ma, soprattutto, collaborava con il Marc’Aurelio, nota rivista di satira diretta da Vito De Bellis e controllata dalla censura, dove incontrò personalità talentuose come Ruggero Maccari e dove si stavano formando molti dei futuri cineasti italiani: dalla coppia di sceneggiatori Age e Scarpelli, a Steno, ovvero Stefano Vanzina padre di Carlo ed Enrico, a Ettore Scola.
Nel 1940 approdò all’Ente italiano audizioni radiofoniche (EIAR) – dove cercavano giovani – scrivendo copioni per programmi musicali, riviste radiofoniche e scenette dai titoli curiosi come Cico e Pallina recitata da Giulietta Masina; i due lavorarono a lungo insieme divenendo inseparabili. Nacque rapidamente un rapporto sentimentale (lei aveva 20 anni, uno meno di Federico) e, in un difficilissimo 1943, Giulietta presentò Federico ai propri genitori. Le evoluzioni drammatiche della guerra culminarono nella caduta del regime in luglio e nella firma, l’8 settembre 1943, dell’armistizio. Fellini decise di non rispondere alla chiamata di leva della neocostituita Repubblica sociale italiana e, il 30 ottobre, sposò Giulietta, andando a vivere nella casa della zia di lei, Giulia Pasqualin, di famiglia benestante. Il 22 marzo 1945 nacque un bambino, Pier Federico, detto Federichino, che però morì dopo pochi giorni.
Sempre meno giornalista, sempre più attratto dalla radio e soprattutto dal cinema, Fellini nel 1939 aveva incontrato un attore che sarebbe stato importante per il suo futuro: Aldo Fabrizi, interprete di rivista e di cinema, in seguito protagonista come don Pietro di Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, ispirato a fatti e personaggi reali nella città occupata dai nazisti. La collaborazione divenne amicizia al punto, come vuole un’altra piccola leggenda, di trasformarsi in debutto insieme sulle tavole del palcoscenico: Fellini vi sarebbe salito in alcune tourneè lontane da Roma. Secondo il racconto di Fellini, smentito dallo stesso Fabrizi (cfr. Kezich 2002, p. 61), uno di questi spettacoli si sarebbe intitolato Faville d’amor, come quello che comparirà in Luci del varietà (1950), primo film di Fellini, realizzato in società con Alberto Lattuada (e che, non incontrando il successo sperato, incise sulle finanze dei due produttori-registi).
All’inizio della guerra continuava a collaborare con Vittorio Mussolini produttore. Fu questi a inviarlo in Libia per sostituire il regista Gino Talamo ammalatosi durante le riprese del film I cavalieri del deserto (dapprima intitolato Gli ultimi Tuareg e quindi I predoni del deserto), con Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, due divi di Cinecittà, tra i primi incontri romani di Fellini. Quando, nel novembre 1942, le truppe inglesi iniziarono la loro avanzata verso la Libia, il film fu definitivamente sospeso. Rientrato in Italia, tra molte peripezie giunse a Roma; e qui fu Fabrizi, in procinto di esordire sullo schermo, a indicarlo come sceneggiatore al regista Mario Bonnard per Avanti c’è posto…(1942), una vicenda ambientata su un tram con al centro una piccola storia sentimentale.
Intanto il cinema italiano si avviava a una svolta mentre l’esito della guerra volgeva al peggio. Nell’estate 1943 la rottura istituzionale provocata dalla nascita del governo Badoglio e dalla creazione della Repubblica sociale di Salò, determinò una situazione caotica e l’obbligo di trasferimento di ministeri, enti e amministrazione al Nord. Cinecittà fu costretta a chiudere, mentre a Venezia nacque il Cinevillaggio. Anche Fellini, insieme ad altri registi, attori, sceneggiatori e maestranze ricevette la proposta di andare, ma rifiutò come la maggioranza di loro. Il Cinevillaggio visse l’esistenza stentata di pochi mesi.
Rimasto a Roma – occupata dai nazisti fino alla liberazione del giugno 1944 con l’arrivo degli angloamericani – Fellini fu costretto a nascondersi per non essere catturato durante qualche rastrellamento. Nel frattempo, lavorò con Fabrizi alla sceneggiatura del malinconico film L’ultima carrozzella (1943) diretto da Mario Mattoli, e fece l’incontro fondamentale per la sua carriera di sceneggiatore con Rossellini che, attraverso lui, voleva arrivare a Fabrizi per coinvolgerlo in Roma città aperta, come poi avvenne.
Il film, nato da un soggetto semplice e potente ambientato a Roma durante l’occupazione – la resistenza e la repressione nazifascista, con Fabrizi nelle vesti di un prete (ispirato alla figura di don Luigi Morosini, trucidato dai nazisti nel 1944) – si sarebbe imposto come un punto di riferimento obbligatorio del cinema successivo, grazie anche alla collaborazione di soggettisti e sceneggiatori di grande calibro: Alberto Consiglio, Sergio Amidei e naturalmente Fellini.
Tra Fellini e Rossellini l’intesa fu profonda. Il regista era più vecchio di quattordici anni ed era noto per avere un carattere fascinoso e non facile, ma apprezzò Federico al punto da promuoverlo al ruolo di aiuto-regista per il successivo suo film, Paisà, del 1946. I due film con il padre del neorealismo furono il vero giro di boa per le aspirazioni del poco più che ventenne Fellini.
Da The Fanny Face Shop al cinema a tempo pieno
Risale alla fine del 1946 un altro incontro fondamentale: quello con Tullio Pinelli che scriveva allora per il teatro e con il quale inizierà un lungo rapporto di lavoro e d’amicizia.
Frattanto la fama di Rossellini aiutò sensibilmente il ragazzo venuto dalla Romagna che si affermò presto come sceneggiatore molto richiesto, lavorando oltre che con il maestro del neorealismo, con Pietro Germi, In nome della legge (1949) e Il cammino della speranza (1950); e con Lattuada, Il delitto di Giovanni Episcopo (1947), Senza pietà (1948), Il mulino del Po (1949).
Il cinema divenne così un incrocio di possibilità e di esperienze. Fellini faceva tutto e di tutto, anche l’attore. Non era più il disegnatore squattrinato che nel primo dopoguerra cercava di sbarcare il lunario con il The Fanny Face Shop, la bottega in via Margutta dove realizzava caricature dei soldati alleati che questi inviavano poi a casa.
Dopo avere fatto ancora l’aiuto per il suo maestro in Francesco giullare di Dio (1950), accettò di interpretare, nell’episodio Il miracolo del film Amore del 1948, un finto San Giuseppe che ingravida la «folle» interpretata da Anna Magnani. Fu ancora Rossellini, malato, a chiedergli di sostituirlo nel dare i ciak per una scena del suo film Dov’è la libertà con Totò del 1954.
Passati i tempi delle scritture nelle latterie romane e delle prove di regia, si stava ormai completando il ritorno a Cinecittà, da dove erano appena usciti i rifugiati e i senzatetto della guerra. Iniziava un nuovo cammino che avrebbe condotto Fellini, lui più di altri, da semplice spettatore del cinema Fulgor a imprevisto protagonista del cinema mondiale.
In quegli anni, da più parti della provincia italiana, giovani volenterosi, conquistati dalla settima arte, sceglievano di raggiungere Cinecittà dove si realizzava un incrocio tra la fresca eredità del neorealismo di Rossellini e altri (Luchino Visconti, Giuseppe De Santis, Aldo Vergano e De Sica), e la cultura americana alla ricerca di nuovi spazi produttivi, nuovi divi, nuove forme di intrattenimento. Cominciò allora una lunga stagione, protrattasi fino a metà degli anni Sessanta e culminata con La dolce vita (1960); e con la consacrazione della Hollywood sul Tevere, iniziata con Quo vadis (1951) e preceduta da un kolossal italiano Fabiola (1949) di Alessandro Blasetti, con cast internazionali in entrambi i casi.
Si muovevano produttori italiani come Riccardo Gualino, Angelo Rizzoli, o i due rampanti Carlo Ponti e Dino De Laurentiis che agivano con disinvoltura tra le due sponde dell’Atlantico, lanciando attrici di rara bellezza, le cosiddette maggiorate e capaci in molti casi di trasformarsi in dive, professionali e amate ovunque.
La prima parte di una scalata irresistibile, cominciò – dopo il citato film con Lattuada – con Lo sceicco bianco (1952), da un'idea di Michelangelo Antonioni, ex critico cinematografico, sceneggiatore regista in ascesa. Fu questo il vero debutto. Il primo film di una lunga saga, non solo personale, che Fellini avviò in un paese alla riscoperta di sé stesso.
Piccola ma significativa storia (scritta dallo stesso Fellini, Pinelli e da Ennio Flaiano) di una coppia di sposi venuti dalla provincia, in cui lei sogna il suo beniamino dei fotoromanzi, ruolo ricoperto da Alberto Sordi. Il film – per le cui musiche fu scelto il compositore Nino Rota con il quale nacque un rapporto di collaborazione lungo e fecondo – incuriosì molto, ma non ottenne il successo sperato. Scarsi furono gli apprezzamenti alla Mostra di Venezia e deludenti gli incassi al botteghino.
Cercare una pronta rivincita non fu facile. Messo alla prova da Roma, che pure lo aveva favorito, e dal cinema che cercava nuovi orizzonti, ma non puntava ancora decisamente su di lui, Fellini avvertì l’esigenza di tornare a ispirazioni e soggetti più concreti.
Un progetto originale, personale, maturava in Fellini per il nuovo, secondo film intitolato I vitelloni (1953). Il confronto con lo scrittore pescarese Ennio Flaiano, penna acuta e satirica, si tradusse in un titolo molto curioso, dalla parola ‘vitellone’ che Flaiano riconduceva a ‘vudellone’, grosso budello, e Fellini a ‘vidlòn’ in dialetto romagnolo. La parola indicava gente spensierata, nullafacente, golosa di passatempi e di amori, oltre che di cibo. Gli intrecci del film – un affresco di ragazze e ragazzi in vista di un futuro che, nella morbida Rimini, appariva sonnacchioso, con improvvise fiammate di divertimento alternate a momenti di amarezza – tra ricordi romagnoli ed esperienze romane, furono apprezzati alla Mostra di Venezia, che lo premiò con un Leone d’argento. Dentro Federico premeva, però, un personaggio, il suo alter ego, che non riuscirà mai a raccontare sullo schermo in un’opera autonoma compiuta, ma che troverà in Moraldo (interpretato nei Vitelloni da Franco Interlenghi) una prima incarnazione. Attraverso Moraldo e i suoi interrogativi – è lui che nel finale del film, affacciandosi al finestrino del treno, si chiede a quale destino stia andando incontro, una domanda rivolta dal regista anche agli spettatori e a sé stesso, in una società che stava completando la ricostruzione e che, da paese contadino, si stava trasformando in paese industriale – cercava una risposta poetica ed efficace, pronto a cogliere ogni spunto per capire sé stesso e un paese in rapido cambiamento. Cercava, e colse la successiva occasione a Roma. Fu tale il film collettivo L’amore in città del 1953, nato da un’idea del grande sceneggiatore neorealista Cesare Zavattini. Vi parteciparono altri registi: Carlo Lizzani, Dino Risi, Francesco Maselli (coregista di un episodio con Zavattini), Antonioni, Lattuada. Fellini si misurò con l’episodio Agenzia matrimoniale, nel quale un giornalista finge di essere in cerca di moglie per un amico ricchissimo, ma licantropo, e inaspettatamente non riceve un rifiuto dalla ragazza con cui l’agenzia l’ha fatto incontrare. Ne emerge una Roma amara in un paese molto spaventato dal futuro, e personaggi alla ricerca di opportunità per sopravvivere più che per vivere.
Lo spunto per il successivo La strada del 1954, primo film di Fellini premiato con l’Oscar, gli venne da Tullio Pinelli, con Flaiano il collaboratore più fidato. Pinelli, girando l’Italia in cerca di storie, aveva scoperto nelle campagne certe figure che stavano scomparendo: saltimbanchi, mangiatori di fuoco, girovaghi, artefici di spettacoli all’aperto. Questi piccoli circhi viaggianti mettevano in scena ‘favole umili’, dolorose, spietate che incantavano e sorprendevano il pubblico. Erano uno degli struggenti, immortali ricordi adolescenziali del giovane Fellini, mescolati con le sensazioni create dal cinema di Hollywood; il regno della favola che scivolava in The wizard of Oz (1939, Il mago di Oz) di Victor Fleming, con Judy Garland, un mondo al tempo stesso fatato e crudele. La vicenda di Zampanò (il divo Anthony Quinn), rozzo artista di strada, e di Gelsomina (Giulietta Masina, attrice piccola e soave) che si accompagna a lui, nella sofferenza e nell’affetto, ebbe un enorme successo.
Il film segnò un cambiamento importante nella carriera del regista, che capì, anche grazie ai produttori che aspiravano a entrare nel mercato mondiale, di dover trovare una più definita strada personale. Coincise, però, anche con le prime avvisaglie della depressione che si riaffaccerà intermittente per tutta la vita.
Il bidone del 1955, girato a Roma, fu il segno di come dall’Oscar potesse scaturire una nuova vena per lui e per il cinema italiano alla ricerca, dopo il neorealismo e la sua affermazione, di un nuovo modo d’essere. Il film, con due attori americani, Broderick Crawford e Richard Basehart (già presente in La strada nel ruolo del Matto), Masina e Franco Fabrizi (uno dei ‘vitelloni’), fu un'operazione di innesto. Volti e caratteri estranei al nostro cinema nello spaccato di un certo sottobosco romano, nel quale un ‘bidonista’ che vende farmaci scaduti viene ucciso dai suoi complici. Al banco di prova di Venezia non si tradusse in un successo, generando anzi perplessità nella critica, ma stimolò il regista verso più ambiziosi e impegnativi progetti.
Nel 1957 arrivò Le notti di Cabiria che risulta oggi una prova d'artista, preparazione per il più conosciuto tra i suoi film, La dolce vita, la sua dichiarazione poetica più rivelatrice, tra immaginazione e osservazione concreta di una realtà in profondo cambiamento.
La storia, emblematica di corpi e anime in vendita, si dipana attraverso le notti di una giovane prostituta che cerca l’amore e s’incanta sbalordita di fronte alle parole di un mago; una favola dei sogni a occhi aperti che avrà un penoso contraccolpo. Derubata da un cliente, sedicente innamorato che arriva quasi a ucciderla, Cabiria si salva e vive nelle lacrime. Va dove la porta il pianto, verso il finale che si apre in una fiducia nella vita suggerita dal canto, dalla musica di ragazzi che dispensano sorrisi. La Masina è una Gelsomina trasformata in una straordinaria Cabiria e per il momento l'attrice esce di scena, anche se il film si impone e commuove ovunque. Arriva così un secondo Oscar ancora come migliore film straniero.
Fellini era ormai al centro degli interessi dei grandi produttori, le difficoltà di finanziamento affioravano, ma si risolvevano. I suoi film, richiesti nel mondo, piacevano e chi investiva, veniva ripagato.
Non si risolse, invece, per il regista l’intimo rovello psicologico che s’intrecciava con un generico malessere fisico e che lo indusse ad avvicinarsi alla psicoanalisi. Cominciò allora un lungo percorso che lo portò a frequentare gli studi di Emilio Servadio, un illustre psicoanalista. Prima incuriosito e poi quasi spaventato, diradò gli incontri; più avanti iniziò a frequentare Ernst Bernhard un analista junghiano tedesco che si era stabilito in Italia, con il quale coltivò una vera e propria amicizia; grande fu il dolore quando nel 1965 Bernhard morì. Fellini si guardava intorno intenzionato in ogni modo a conoscere sé stesso. Cercava di tranquillizzare ed esorcizzare la propria ansia interrogando chiunque fosse in grado di fare previsioni, arrivando a consultare Adolfo Gustavo Rol, un noto sensitivo torinese al quale si rivolgevano i potenti della Terra (da Hitler a Giovanni Agnelli, presidente della Fiat, al presidente americano John Fitzgerald Kennedy), e perfino gli astrologi più di moda, a volte al solo scopo di scherzare alle loro spalle, come rivelò Flaiano quando accompagnò il regista da un certo Magus.
La preparazione del progetto della Dolce vita (uscito nel 1960) corrispondeva a un complessivo, articolato piano di studi e di ricerche nell’humus della vita di via Veneto, una grande vetrina di glamour con retroscena di prostituzione e scandali, come lo spogliarello di una danzatrice turca, Aïché Nana, nel 1958, arrestata in un locale, il Rugantino, mentre si svolgeva una festa a cui partecipava anche l’attrice Anita Ekberg, impegnata nelle riprese del film.
Fellini mise a frutto ogni sua esperienza: raccogliendo informazioni e testimonianze, collezionando le foto dei rotocalchi e quelle dei fotoreporter d'assalto che, dopo La dolce vita, sarebbero stati chiamati ‘paparazzi’ dal nome di un personaggio del film; frequentando via Veneto ed esplorandola nel profondo.
In quei giorni Pier Paolo Pasolini si rivolse a Fellini (con il quale aveva già collaborato come sceneggiatore per Le notti di Cabiria) per tentare di coinvolgerlo come produttore del suo primo film Accattone (1961). La collaborazione fu avviata, ma le scene appena girate non convinsero Federico che si tirò indietro.
Roma stava cambiando, la Hollywood sul Tevere aveva contribuito a creare un mondo in cui potessero ‘pescare’ i giornali scandalistici e rosa mentre i cinegiornali ne raccontavano la trasformazione. Le figure chiave della Dolce vita – un giornalista aspirante scrittore, a caccia di notizie e di piccoli scandali e un’attrice americana chiamata per un nuovo film – furono interpretate da un noto, ma non ancora famoso Marcello Mastroianni, nel ruolo di Marcello Rubini, e da Anita Ekberg, svedese, molto bella, bionda, occhi azzurri, trasformata per l’occasione in una diva americana, prorompente nel ruolo di Sylvia. Il film fu girato tra continui colpi di scena, suscitando grandi attese. La proiezione fu accompagnata da accese polemiche e attacchi politici, che entrarono a far parte della storia di un film accolto all’estero con entusiasmo e destinato a diventare un cult movie. Contro il film si mobilitarono i partiti di centro e di destra, l’Osservatore Romano e alti ecclesiastici; difesero il film le sinistre e solitarie figure di sacerdoti, come padre Angelo Arpa che considerava Fellini un grande artista e che riuscì ad ammorbidire il duro giudizio della Chiesa. La dolce vita – premiato con la Palma d’oro al Festival di Cannes e con un Oscar per i costumi assegnato a Piero Gherardi – divenne uno spartiacque in molti sensi: nel mondo del cinema, nella vita economica del paese, nella società italiana, dove il benessere iniziava a trasformarsi in consumismo, e in quella romana che assisteva al tramonto della trionfante Hollywood sul Tevere con il film simbolo Cleopatra (1963) di Joseph L. Mankiewicz, costoso kolossal, con Liz Taylor e Richard Burton, realizzato tra feroci polemiche, interruzione dei finanziamenti, l’amore tra i due e tre anni di riprese.
Fellini avvertì le forti tensioni e la svolta del momento e rimase spiazzato; lo colpirono i mutamenti profondi di una realtà che nelle interviste rilasciate sulla Dolce vita, spesso ironiche, gli apparve diversa e persino ostile, pervasa da una sorta di smarrimento, una realtà connotata da un irresistibile e sempre più evidente ‘non senso’.
Per alleviare pensieri cupi, accettò di partecipare a un nuovo film collettivo Boccaccio ’70, del 1962 dirigendo l’episodio Le tentazioni del dottor Antonio, con Anita Ekberg che campeggia nel quartiere Eur da un gigantesco manifesto che pubblicizza il latte, scollata, scandalosa per Peppino De Filippo nel ruolo di un custode della morale pubblica che grida al demonio: fu un gran successo. I registi degli altri episodi erano De Sica, Visconti, Mario Monicelli. Un'esperienza riuscita. Fellini parteciperà a un altro film a episodi,Tre passi nel delirio, del 1968, cofirmato con Roger Vadim e Louis Malle, tratto da racconti di Edgar Allan Poe, dirigendoToby Dammit , dal racconto Never bet the devil your head: a tale with a moral.
Era la conferma che il cinema internazionale guardava a lui, al suo cinema che era d’autore ma soprattutto era grande spettacolo. Nel 1963 Fellini realizzò un altro film, 8 ½ , che diede lo slancio definitivo a una fama incontenibile e che lui stesso definì un’opera a metà tra una sgangherata seduta psicoanalitica e un disordinato esame di coscienza.
In un'antica stazione termale affiorano dal passato, come da un naufragio, immagini nitide, smaglianti che si mescolano a un presente generico: la tinozza della nonna, le ragazzate, la parola anima che diventa nel film per un gioco verbale di ragazzini asa nisi masa; e poi il caos del cinema, i critici da impiccare, le donne da domare (il Marcello della Dolce vita qui si chiama Guido e fa il regista), i volti puliti (l'attrice Claudia, Claudia Cardinale), la moglie (interpretata dalla raffinata Anouk Aimée) e l’amante (la formosa Sandra Milo), gli scocciatori, i produttori, le comparse, la folla. Insomma, la vita e Cinecittà, soffitta dei ricordi trasformata nella soffitta del cinema. 8 ½ vinse due Oscar come miglior film straniero e per i costumi di Gherardi. Un film solenne, il bilancio di un'esistenza che sembrò a molti critici una sorta di addio.
Ma non era così. Senza il cinema, il regista non poteva vivere, anzi reclamava, scherzando ma non troppo, un appartamentino a Cinecittà per essere accanto al suo lavoro, alzarsi ed entrare nel Teatro 5, il ‘suo’ preferito. Il nome Fellini assunse il valore di un marchio internazionale come non accadeva nemmeno ai famosi registi di Hollywood, anche se il grande regista non accettò mai di fare un film in America.
La scelta successiva fu un’opera importante, tutta italiana, Giulietta degli spiriti del 1965, scaturita da un bisogno interiore del regista, dai suoi interessi psicoanalitici e dal debito che sentiva di avere verso la moglie Giulietta, che da oltre sette anni non lavorava con lui. È un viaggio all’interno della coppia borghese (il ruolo del marito è affidato a Mario Pisu, attore degli anni Trenta-Quaranta), nei labirinti personali e soprattutto nelle immagini dei sogni che Fellini faceva a occhi aperti, in un intreccio con quelli notturni, e con i legami di nozze allentati nel tempo. Il film coincise con la stagione degli amori extraconiugali del regista, uno dei quali – durato a lungo – con una paziente signora conosciuta in un caffè di Roma.
Un tradimento del marito è al centro del film che vive per la forza visiva di bellissime immagini a colori, composte con gusto pittorico. Una forma spettacolare che si fa ricordare più della vicenda raccontata.
L’accoglienza fu tiepida e i giudizi controversi; particolarmente duro fu quello del Centro cattolico cinematografico che lo stroncò imputandogli uno sgradevole impasto tra sacro e profano. La delusione incrinerà i rapporti tra Fellini e Flaiano.
Le intenzioni di dichiararsi fino in fondo come persona e artista erano forse altrove, nel film che non riuscirà mai a fare, Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet, scritto con Dino Buzzati. Il progetto nasceva in un periodo difficile, nel quale una serie continua di malanni fisici e di sconforti psicologici ne inquinavano la vena creativa. Iniziate le riprese nel 1966, vennero interrotte dopo solo poche scene.
Fellini si ammalò e fu ricoverato in ospedale, suscitando forti preoccupazioni, registrate puntualmente dalla stampa. Fu possibile in questa circostanza misurare la popolarità del regista: tra i moltissimi telegrammi di auguri, vi fu anche quello di papa Paolo VI che non aveva voluto riceverlo ai tempi della Dolce vita, quando era cardinale di Milano. L’allarme cessò solo con le notizie di una sicura guarigione. Fellini riprese a lavorare con un nuovo produttore, Alberto Grimaldi, che nel corso degli anni Settanta avrebbe proficuamente collaborato con i produttori americani e che, per prima cosa, riscattò Il viaggio di G. Mastorna da De Laurentiis.
Fellini aveva cinquant’anni: gli anni Settanta erano entrati prepotentemente portando rivolte e segnali di una violenza politica che sfocerà in una lunga stagione terroristica fin dentro gli anni Ottanta, dopo il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro. I produttori rimasti, specie quelli indipendenti sempre più numerosi, iniziarono a reclamare aiuti dello Stato per ‘stare sul mercato’; aiuti che andavano soprattutto verso film d’autore destinati ai festival o alle sale d’essai. Solo la commedia all’italiana con grandi attori (Sordi, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman) e registi dallo stile satirico (Dino Risi, Luigi Comencini, Monicelli) resisteva ma, forse, con minor vigore di un tempo.
Sul finire degli anni Sessanta Fellini accettò di girare Fellini Satyricon (1969) – coscenaggiatore Bernardino Zapponi –, un film significativo sin dal titolo, capace di indicare come il nome del regista fosse quasi divenuto un marchio di fabbrica, in questo caso messo al servizio di una rivisitazione dell’opera di Petronio Arbitro sulla Roma imperiale. Fu accolto più con curiosità che con interesse anche se la narrazione è fitta di risorse pensate per stupire, affascinare. Da questo risultato, in parte soddisfacente, cominciò per il regista un’altalenante sequenza di realizzazioni, con un continuo andare e venire tra il cinema delle sale e il cinema sostenuto dalle televisioni.
Frattanto Fellini accettò di realizzare Fellini a director's notebook (1969; Block notes di un regista) prodotto dalla NBC (National Broadcasting Company); un racconto personale sul mestiere e le seduzioni del cinema sul film non realizzato (Mastorna) e il film che stava preparando (Satyricon). Questo precedente indusse anche la RAI a interessarsi del maestro e a coprodurre, l’anno dopo, I clowns, film dedicato al circo e ai suoi eroi dimenticati o sconosciuti, cari a Fellini.
La strada per il futuro era segnata. Da un lato la televisione, dall’altro il cinema per gli spettatori più esigenti (con i film acquistati in parte dalla RAI). Ma il centro del cuore e degli interessi continuò a essere, per Fellini, la città in cui si era calato profondamente. Nel 1972 realizza infatti Roma, disegnando una capitale che non riusciva a essere il crogiolo del paese e che oscillava tra la città santa del Vaticano e quella dei peccati della politica e della corruzione. Fellini conclude il film con ironia inchinandosi, a Trastevere, alla presenza maestosa di Anna Magnani che, da Roma città aperta in poi, era la donna appassionata e eroica, ma anche la diva vincitrice di Oscar come Fellini, placida e soddisfatta, pronta a stare al gioco del regista. Un album, un calendario dei giorni e degli ambienti (dal Grande raccordo anulare al Vaticano delle preghiere e delle sfilate di moda clericale), una fantasia che entra e sconvolge la realtà quotidiana, una finzione esatta come un vero documentario della realtà.
Uno dei più riusciti film felliniani insieme al successivo Amarcord (1973). Da Roma alla nativa Romagna: ritorno alla culla del mare, della neve e della nebbia, un mondo vivo e pure sepolto ogni giorno, come tante altre parti d’Italia. Anche qui tutto è finzione, affollata di ricordi e di appunti di ricordi: i corpi delle donne, le aule, le prostitute, i gerarchi, il parente matto che si arrampica sugli alberi. Si torna alla Romagna che non c’è più, con i vitelloni invecchiati persi nel tempo. Il successo lo confermò, ancora una volta, come una sorta di re Mida del cinema, cercato e preferito per arditezze e capacità di trasformazione, un abile campione del made in Italy che evoca immagini provocatorie e ancora una volta si aggiudica il premio Oscar per il miglior film straniero.
Poco dopo, affascinato da antichi costumi, parrucche, avventure erotiche strane e stravaganti diede vita a Il Casanova di Federico Fellini del 1976. Rischioso e costoso: De Laurentiis e Angelo Rizzoli provarono a realizzarlo, poi si spaventarono per il rischio lasciando il campo a Grimaldi. Ne nacque un film molto curato, complesso, affascinante, ma senza ironia, anzi con un velo luttuoso che avvolge le imprese di Casanova interpretato da un impenetrabile Donald Sutherland.
La voglia di divertirsi, e di divertire, era scomparsa. Lo confermò Prova d’orchestra del 1979, allegoria della società italiana spiata durante prove musicali in cui accade di tutto: dagli estremismi del Sessantotto, a una ineludibile anarchia celebrata con le pagine musicali interrotte da una misteriosa, enorme sfera che frantuma la sala prove.
Il regista indaga, quindi, sistematicamente il caos che vede intorno a sé, con il piacere di rappresentarlo in La città delle donne (1980), storia di incubi e possessioni dei maschi, sempre gli stessi, immutabili, a confronto con le forti contestazioni femministe; protagonista l’amico Mastroianni, smarrito in mezzo a un'appariscente costellazione di donne travolgenti. Donne molto diverse rispetto alla Edmea Tetua, famosa cantante lirica ispirata a Maria Callas del successivo E la nave va del 1983; narrazione di una vita di grandi successi ambientata a inizio Novecento, con più di un presentimento di fine epoca, alla vigilia della prima guerra mondiale. Un lavoro lussuoso, elegante, tetro, nel racconto di un inviato speciale a bordo di una nave in viaggio verso l’Egeo per versare nelle acque le ceneri della cantante (come avvenne per la Callas).
Una premessa a Ginger e Fred, del 1985, uno struggente canto funebre degli anni del musical (scritto con Tonino Guerra e Pinelli), gli anni di Ginger Rogers e Fred Astaire, i divi aristocratici eleganti, innamorati del tip tap degli anni di Fellini adolescente e di milioni di giovani di allora rievocati dopo l’invasione della discomusic e di John Travolta. Protagonista la televisione che tutto assorbe e adatta alle sue esigenze, potenza capace di riassumere e rilanciare la nostalgia di una terza o quarta età che fa il verso a un’epoca impossibile da ripetere: i favolosi anni Trenta. Marcello diventa Fred e Giulietta diventa Ginger in mezzo a giovani soubrette (tra cui la futura diva del porno Moana Pozzi), sotto le luci forti di riflettori che rendono più grigi i già grigi protagonisti. I culti di un tempo tornano svaniti.
Ne torneranno altri nel penultimo film, Intervista, del 1987: film nel film, con Federico nella parte di sé stesso che finge di girare Amerika da Kafka, intervistato da una troupe giapponese. Con gli eterni Marcello e Anita torna sui suoi passi e chiede a Sergio Rubini, suo nuovo alter ego, di impersonarlo. La bacchetta magica di un Mandrake (ricordo dei fumetti cari al regista) suscita memorie ormai disperse. Un passato archiviato in una teca molto personale, privata.
Il regista, che viveva di cinema e continuava a cercare spunti, tentò di realizzare un film ispirato dalle atmosfere di Carlos Castaneda, scrittore peruviano naturalizzato statunitense famoso per il romanzo A Yaqui way of knowledge (1968; trad. it. A scuola dallo stregone ,1970); si recò, accompagnato da un altro scrittore, Andrea De Carlo, a Tulum, in Messico, dove in tempi remoti si svolgevano sacrifici umani, ma ritornò poco convinto (cfr. M. Dalla Gassa, A. Tripodi, Approdo a Tulum, 2010). Ne ricavò, comunque, con la collaborazione di Pinelli, un soggetto-sceneggiatura dal titolo Viaggio a Tulum (o Tulun) pubblicato a puntate sul Corriere della Sera nel maggio 1986.
Si consolò con i premi ottenuti da Intervista ai Festival di Cannes e di Mosca.
Il desiderio del set lo spinse di nuovo a cimentarsi. Scelse di raccontare il romanzo di Ermanno Cavazzoni, Il poema dei lunatici (1987) affascinato dall’idea che, l’acqua dei pozzi, svegliata dalla luna, mandi indistinti messaggi percepiti solo da matti o da vagabondi. Riaffioravano le fantasticherie dei tempi della Strada, con Gelsomina, Zampanò e l’acrobata detto il Matto. Scrisse il soggetto e la sceneggiatura con il vecchio amico Pinelli e fece costruire il paese e la campagna emiliani nell'area dell'ex Dinocittà sulla via Pontina, allontanandosi così per la prima volta dal ‘suo’ Teatro 5 a Cinecittà. Scritturò Roberto Benigni e Paolo Villaggio, due affermati attori comici e ne nacque La voce della luna (1990). Il film, molto diverso dal libro, piacque poco, anche se arrivò il Praemium Imperiale dal Giappone. La delusione pesava; la notizia della morte del fratello minore Riccardo lo incupì ulteriormente. Gli spot pubblicitari ben pagati, ai quali si dedicò con molto successo, rimasero solo palliativi.
Quando l’attività di regista diradò, ideò, per i disegni di Manara, anche due fumetti: Viaggio a Tulum e Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet. Il primo nacque dalla sceneggiatura quasi omonima, Viaggio a Tulum, il secondo dalla citata sceneggiatura felliniana. Furono entrambi pubblicati su riviste di genere rispettivamente su Corto Maltese a partire dal 1989 e su Il grifo nel 1992.
Nel marzo 1993 giunse l’Oscar alla carriera; a Giulietta che piangeva commossa al Dorothy Chandler Pavilion il regista, stretto tra Mastroianni e Sophia Loren, pronunciò il suo discorso conclusivo: «Thank you Giulietta, and please stop crying! Grazie».
In agosto si sentì male. Colpito da ictus, non ci furono cure. Morì a Roma il 31 ottobre 1993. Giulietta lo seguì nel marzo successivo.
Riposano entrambi, insieme a Federichino, nel cimitero di Rimini; sulla tomba una scultura di Arnaldo Pomodoro dal titolo Le vele ispirata al film La nave va.
Il cinema fu per lui e per molti giovani della sua generazione come un’autostrada percorsa per raggiungere una mèta vera, un’autentica scommessa di vita. Una scommessa che Fellini vinse e che gli ha permesso di farsi apprezzare in Italia e nel mondo, rivelandosi un artista complesso, sensibile e vivace, con un eclettico talento nelle arti visive, grazie all’amore per i disegni e le opere pittoriche, oltre che per le nuove immagini in movimento. Lo dimostrano i successi dei suoi film e i numerosi premi ricevuti negli Stati Uniti (cinque Oscar: nel 1957 per La strada, nel 1958 per Le notti di Cabiria, nel 1964 per 8 e ½ , nel 1976 per Amarcord e, infine, nel 1993 alla carriera), in Europa e in altre parti nel mondo.
Nel 1995 per espressa volontà della sorella del regista, Maddalena, e del Comune di Rimini, è stata costituita la Fondazione Federico Fellini (attualmente in liquidazione) per la promozione di iniziative sul regista e la costituzione di un centro di studi felliniani che rappresenti un punto di riferimento sul piano nazionale e internazionale. Fra il 2002 e il 2004 la Fondazione ha realizzato la biblioFellini, una raccolta in tre volumi delle indicazioni bibliografiche di tutto ciò che nel mondo è stato pubblicato sul regista. Il ricco sito della fondazione è consultabile all’indirizzo www.federicofellini.it/
Tra i suoi scritti, Fare un film, Torino 1980; La mia Rimini, prefazione e postfazione di S. Zavoli, a cura di M. Guaraldi - L. Pellegrini, Rimini 2007; ll libro dei sogni, a cura di T. Kezich - V. Boarini, Rimini 2007.
A. Solmi, Storia di F. F., Milano 1962; J.C. Stubbs, F. F. A guide to references and resources, Boston 1978; Fellini, intervista sul cinema, a cura di G. Grazzini, Bari 1983; J. Grau, Fellini desde Barcelona, Barcelona 1985; T. Kezich, Fellini, Milano 1988; F. F., a cura di L. Tornabuoni, Monza 1995 (cat. della mostra tenuta a Roma); P. Mazursky, Show me the magic, New York 1999; T. Kezich, Federico: Fellini, la vita e i film, Milano 2002; T. Kezich, F. F., in Enciclopedia del cinema, Istituto della Enciclopedia italiana, 2° vol., Roma 2003; J.P. Manganaro, Federico Fellini-Romance, Parigi 2009; I. Moscati, Fellini & Fellini. Da Rimini a Roma, inquilino a Cinecittà, Roma 2010.