Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella vita di Federico II, re di Sicilia e imperatore, le vicende della guerra, contro i Comuni e i pontefici, occupano decenni interi, ma è l’opera legislativa e culturale promossa alla corte siciliana a rappresentare l’aspetto più rilevante del suo governo. Nelle Costituzioni melfitane Federico disegna il progetto di un regno accentrato e burocraticamente solido, tollerante verso le diverse etnie e religioni ospitate nel territorio. La filosofia naturale e la poesia in volgare sono all’interno della cultura federiciana i contributi più nuovi e originali.
Il 26 dicembre 1194, a Jesi nella Marca di Ancona, nasce Federico di Svevia. Sua madre, Costanza d’Altavilla, è regina dei Normanni di Sicilia, suo padre Enrico VI Hohenstaufen, re di Germania, era divenuto imperatore del Sacro Romano Impero quattro anni prima, alla morte del padre Federico I, detto il Barbarossa. La suggestiva data di nascita di Federico, nato poche ore dopo il giorno di Natale, sarà più volte sottolineata dal futuro imperatore per il carattere speciale che sembra conferire al suo destino di “immagine di Dio in terra”: Jesi è la sua Betlemme e lui “il figlio benedetto” e quasi miracoloso, nato da una regina non più giovane.
A quattro anni, alla morte della madre, è incoronato re di una Sicilia messa a dura prova dai conflitti interni fra Normanni e Tedeschi, a diciotto è re di Germania, nel 1215 riceve ad Aquisgrana dai principi tedeschi la corona imperiale contesagli da Ottone di Brunswick, appoggiato all’inizio da papa Innocenzo III che, in seguito, lo abbandona scomunicandolo nel 1210.
A Roma, nel 1220, Onorio III, divenuto pontefice alla morte di Innocenzo III, consacra imperatore Federico.
Soltanto otto anni dopo Federico assolve alla promessa fatta al papa di guidare la crociata in Terrasanta: ma la conquista di Gerusalemme, dove Federico è incoronato re, appare al papa di Roma una “indegna” compravendita.
La città non è stata infatti conquistata con le armi, ma grazie alla diplomazia e alle buone relazioni stabilite con il sultano di Egitto al-Kamil e favorite dall’ammirazione di Federico per la cultura musulmana, coltivata da tempo alla corte di Sicilia.
Il pontefice Gregorio IX, succeduto nel 1227 a Onorio III, lancia il suo esercito contro Federico ritornato in Italia, ma un anno dopo, nel 1230, ad Anagni, si riappacifica con il trentenne imperatore e, dopo averlo accusato di essere un “seguace di Maometto”, arriva a chiamarlo “figlio diletto della Chiesa”.
Gli anni che seguono sono pieni di guerre in Italia e turbolenze interne al regno, ma sorprendentemente lasciano a Federico spazi per la cultura e i libri, da leggere e da scrivere, un compito che egli sovente riconosce come primario, soprattutto per un sovrano, e che desta l’ammirazione della comunità dei sapienti, anche non cristiani.
Già nel 1224 aveva fondato con l’aiuto di Pier delle Vigne, influente consigliere e poi vicario imperiale, l’università “della leggiadra città di Napoli”, dotandola di una biblioteca ricca e nuova con l’intenzione di “trattenere nel regno i migliori intelletti” e attirare i maestri più noti. Accanto alle arti liberali e alla teologia, a Napoli si coltivava l’insegnamento del diritto, disciplina fondamentale nella formazione dei collaboratori e dei ministri del re. Nel 1231 al diritto – considerato la base “della salute e della forza del regno” – Federico dedica il Liber augustalis (noto come Costituzioni melfitane) – considerato da alcuni studiosi come il compimento del programma giuridico e legislativo dei suoi avi siciliani – per il quale si ispira ai codici romani, al diritto canonico, ma anche alle leggi feudali e alle “consuetudini” radicate nel costume germanico e normanno.
La complessità delle fonti rende talvolta difficile la lettura di un progetto unitario; ma questo è ben presente al sovrano, che dichiara la funzione di legislatore simile a quella di Dio e afferma che “nessuna distinzione nelle aule dei tribunali del regno deve essere fatta fra i sudditi, siano essi Franchi, Longobardi o Romani, Saraceni o Ebrei”. La pace del regno, infatti, può essere assicurata soltanto dalla giustizia e deve prevalere sulle differenze di nascita e di religione, eliminando le disuguaglianze, fonti di contrasti. Sotto questo aspetto lo Stato disegnato dalle Costituzioni di Federico è agli antipodi del regno feudale.
La guerra contro le città italiane riemerge con forza nel 1234, quando il figlio primogenito Enrico, re dei Romani, ribellandosi al padre si allea con i Comuni lombardi da sempre nemici degli Hohenstaufen: Federico II chiede al papa la scomunica del figlio e, per sedare la rivolta, parte alla volta della Germania, dove Enrico raccoglie seguaci.
Nonostante il figlio si sottometta chiedendo perdono, la condanna di Federico è esemplare e gli alleati di Enrico sono dispersi: dopo sei anni di duro carcere il ribelle si getterà da una rupe, uccidendosi.
Nel 1249, soltanto un anno prima di morire, Federico affronta un altro, forse più doloroso colpo. Pier delle Vigne – che Dante Alighieri ricorderà nel tragico Canto XIII dell’Inferno –, accusato di corruzione e tradimento, si toglie la vita in carcere protestando disperato la sua innocenza. Difficile è ancor oggi interpretare le motivazioni reali che hanno spinto Federico alla condanna del suo amato e prezioso consigliere.
È quello il penultimo anno di vita dell’imperatore: la guerra, quasi ininterrotta dall’anno 1234, aveva avuto per lui alterne fortune. A Federico, che contava sull’alleanza delle città di Cremona e Verona, in mano al fortissimo Ezzelino da Romano, si opponevano il Comune di Milano e poi Piacenza e Bologna. Sullo sfondo del conflitto l’appoggio del pontefice giocava un ruolo a volte ambiguo e sempre rilevante.
A Cortenuova, nel 1237, aiutato dai cremonesi e dal potente Ezzelino, Federico ottiene una clamorosa vittoria contro i Milanesi e distrugge il Carroccio, simbolo del Comune milanese. Fra i molti prigionieri vi è il potestà Pietro Tiepolo, figlio del doge di Venezia.
A Parma, nel 1248, l’imperatore subisce la più grave sconfitta della sua vita, che lo priva persino dei simboli del suo potere, la corona e lo scettro, del tesoro reale e dei suoi amati libri che, insieme alle concubine, ai falconi per la caccia e agli animali esotici, lo accompagnavano nei suoi viaggi: i cittadini di Parma, usciti dalla città assediata in una rapida sortita, saccheggiano e distruggono il fastoso accampamento imperiale eretto fuori le mura della città e chiamato Victoria da Federico. Un anno dopo, a Fossalta, viene fatto prigioniero dai Bolognesi un figlio di Federico, Enzo, vicario imperiale, che morirà in carcere a Bologna 23 anni dopo, nonostante il padre tenti di riscattarlo offrendo tesori ingenti alla città.
Il 13 dicembre del 1250 Federico muore in Puglia a Castel Fiorentino, colpito da forte febbre, dopo una partita di caccia, in un anno in cui il suo esercito ha conosciuto ancora alcuni importanti successi in Sicilia e nelle Marche contro le armate del papa.
Il primogenito di Federico, il ribelle Enrico, re dei Romani, era allora morto da un decennio. Eredi politici di Federico II, alla sua morte, sono il secondogenito Corrado IV, al quale va la corona di Sicilia (1237) e quella imperiale (1250), il terzogenito Enrico, che muore tre anni dopo, al quale è destinata la corona di Gerusalemme (1250) che, però, deve essere riconquistata, e il figlio naturale Manfredi, nominato principe di Taranto e vicario del regno di Sicilia in assenza del fratello Corrado.
Federico, scomunicato due volte, da Gregorio IX e Innocenzo IV – che temevano, come del resto i due papi precedenti Innocenzo III e Onorio III, l’immensa concentrazione di potere ereditata da Federico, imperatore in Germania e re in Sicilia –, in ripetuti documenti pontifici viene accusato di miscredenza, immoralità e blasfemia.
Ma, alla base, sono le ragioni filosofico-politiche a motivare lo scontro nel quale il potere imperiale di Federico – speculare nel suo universalismo al potere del papa – per definizione si oppone a quello ecclesiastico. La teoria papale della plenitudo potestatis sostenuta dalla curia romana afferma, infatti, la pienezza assoluta e universale del potere del pontefice di Roma ed è venuta emergendo in modo deciso e netto già nel Dictatus papae di Gregorio VII, secondo il quale la sovranità imperiale o di ogni altro principe ha legittimità solo all’interno del potere, non solo spirituale, ma anche “temporale”, ossia secolare, della Chiesa.
Il più tenace avversario di Federico II, papa Innocenzo IV, esperto giurista e allievo, in gioventù, a Bologna, di quei maestri del diritto canonico che sostenevano la subordinazione del regnum al sacerdotium, porta lo scontro a un livello mai raggiunto di violenza politica, usando nel concilio di Lione del 1245 in direzione decisamente “temporale” la scomunica dell’imperatore, un atto che scioglieva i sudditi dal vincolo di fedeltà.
Nel dicembre 1250, appresa la notizia della morte di Federico, Innocenzo IV dichiara ai cristiani che “il cielo e la terra si rallegrano per la sua scomparsa”.
La maggior parte degli studiosi riconosce che l’ampia e nuova prospettiva aperta alla cultura è il segno più rilevante lasciato da Federico II durante il suo regno. L’interesse dell’imperatore per i vari aspetti della scienza del suo tempo, dalla logica alla fisica o filosofia naturale, dalla metafisica all’astronomia e dalla medicina all’etica, si inserisce nel complesso quadro della cultura siciliana dove da tempo si incontrano diverse tradizioni culturali, la greca, l’araba e l’ebraica.
La Sicilia, con la Spagna, è dal XII secolo uno dei centri principali di quella rivoluzione culturale che riporta in Occidente, anche, ma non solo, attraverso le traduzioni degli arabi, il patrimonio della scienza e della filosofia greca antica.
Alla corte di Federico fra altri sapienti vivono Michele Scoto, che dedica al “principe molto glorioso signor Federico” scritti astronomici e di filosofia naturale e traduzioni di Averroè fatte su “espressa richiesta dell’imperatore”, e Giacobbe Anatoli che assieme ad altri studiosi ebrei discute con il sovrano sui “corpi celesti e l’Anima del mondo [...] e sulle creature che vivono nel mondo, piante e animali”.
Fra questi temi Federico, come autore, privilegia lo studio degli uccelli usati per la caccia, campo nel quale si presenta orgogliosamente come veritatis inquisitor.
Il suo voluminoso De arte venandi cum avibus in sei libri non è soltanto un’opera dedicata alla falconeria e alla caccia, tradizionalmente considerata una “attività adatta a un re”, ma un vero trattato di filosofia naturale nel quale Federico si riferisce all’autorità di Aristotele, ma soprattutto all’esperienza, elevata a metodo. L’autore osserva che il filosofo greco mostra nei suoi scritti di non avere conoscenza diretta dell’argomento: la caccia e lo studio degli uccelli sono invece a Federico ben noti, perché praticati fin dall’adolescenza.
Federico, come molti dei suoi cortigiani e familiari, è poliglotta e scrive in latino, in greco, in francese, in arabo e in volgare siciliano “illustre”: in questa lingua, come numerosi ministri e collaboratori della sua corte, Jacopo da Lentini, Rinaldo d’Aquino, Pier delle Vigne, i figli Manfredi e Enzo, scrive poesie d’amore, meritando la lode di Dante nel De vulgari eloquentia: "Quegli uomini grandi e illuminati come Federico e il suo degno figlio Manfredi seppero esprimere tutta la nobiltà e la dirittura di spirito [...]. Tutto ciò che a quel tempo producevano gli italiani più nobili vedeva la prima luce nella reggia di quei sovrani insigni e [...] tutto quello che hanno prodotto in volgare si chiama siciliano".