FEDERICO UBALDO Della Rovere, duca di Urbino
Nato a Pesaro il 16 maggio (giorno sacro a s. Ubaldo; donde, appunto, il secondo nome) 1605, da Francesco Maria Il Della Rovere e dalla sua seconda moglie Livia Della Rovere (figlia questa del marchese di S. Lorenzo Ippolito, cugino di primo grado del duca, in quanto figlio naturale dello zio paterno cardinale Giulio Della Rovere), la sua nascita, "quasi miracolosa" come la definirà il gesuita Bernardino Castori, pose fine all'incubo della mancanza d'erede che aveva sino allora attristato l'esistenza dell'ormai anziano duca, angosciando del pari i sudditi atterriti dalla prospettiva di fare la fine di "quelle città non molto lontane da noi" - così il gonfaloniere pesarese Marcantonio Gozzi al Consiglio cittadino, l'8 sett. 1601, con evidente allusione a Ferrara da poco inglobata dalla S. Sede - rimaste "con loro infinita miseria ... desolate e distrutte".
Sterili le prime nozze del duca, si paventano infeconde pure le seconde, cui s'era adattato proprio dietro pressione dei sudditi ("moglie, moglie, Signore" gridavano questi al suo indirizzo mentre, nel 1598, scortava al confine Clemente VIII diretto a Ferrara), sinché, nel novembre del 1604, la notizia della maternità di Livia non suscitò una speranzosa attesa. E divento allora beneaugurante la dedica, che al momento non era parsa gran che opportuna, al duca, da parte di Federico Bonaventura, del suo Compendium, del 1600, del trattato sul parto. "Dio ci ha dato un maschio" urlò il duca - che, proprio per propiziare la nascita d'un figlio, aveva fatto erigere nel 1603 ad Urbino la chiesa di S. Francesco di Paola (questa sarà, comunque, ultimata nel 1614) - alla folla in attesa. E subito esplosero clamorose manifestazioni di giubilo - non senza degenerare in saccheggi ed eccessi antiebraici - che da Pesaro dilagarono in tutto il Ducato. Alle "allegrezze" festeggianti seguirà, in adempimento dei voti formulati, l'erezione di chiese e cappelle; e il pesarese tempio votivo di S. Ubaldo con gran cupola ottagonale ultimato nel 1618 costituisce la più evidente testimonianza dell'intensità con la quale anche i sudditi invocarono la nascita di F. e come procedessero poi, non senza sacrificio finanziario, alla "fabrica ... in essecutione del ... voto". Né c'era solo il tripudio della popolazione. La venuta alla luce di F. diede la stura alla vena canora dei letterati e al presenzialismo felicitatorio degli intellettuali: il giureconsulto pesarese Giovanni Ordelaffi compose, in esametri latini, un'exultatio; il ravennate Giulio Camillo Ferretti scrisse un'ode; e salutarono l'evento versi dell'urbinate Giovanbattista Leoni, del fiorentino Vincenzo Martelli (dev'essere il nipote dell'omonimo gentiluomo e come tale dedicatario della riedizione delle Lettere ... e rime di questo, uscita a Firenze nel 1606), di Ludovico Agostini, allora governatore della rocca di Gradara, che non mancò, pure, di congratularsi col medico Giovanbattista Bettini, il quale aveva assistito la duchessa durante il parto. "Nascere, magne puer, magni spes certa parentis ... columenque simul nobilis imperii", verseggiava Bernardo Baldi, il più illustre degli intellettuali urbinati. "Sol parvulus" (alludeva Lodovico Zuccolo a F. quando non aveva che un anno), non c'era che da attendere se ne sprigionassero le benefiche "virtutes". Oggettivamente importante, in effetti, la "natività" di F., "tanto meravigliosa quantoinsperata e desiderata dal mondo", come ripeteva il gentiluomo savonese Pier Girolamo Gentile Riccio nella dedica a F. del dialogo Della filosofia d'amore... (Venetia 1618), nel quale faceva discutere di casistica amorosa due amici convenuti ad Urbino in occasione del suo battesimo ufficiale (incentivo ad un ulteriore scoppio di festeggiamenti e a rinnovate manifestazioni di lealismo) del 28 novembre. Con quella, infatti, riprendeva fiato il piccolo Stato che, feudo ecclesiastico, s'era sentito prossimo alla fagocitazione, riacquistando fiducia nella propria autonoma sopravvivenza. Ciò faceva rientrare gli appetiti annessionistici romani, rallegrava la Serenissima e attivava progetti medicei. Ma ciò al tempo stesso alimentava speranze eccessive: il Baldi non si limitava ad augurare a F., "dono del ciel", d'essere "felice"; con lui "un nuovo Federico have il Metauro"; grazie a lui "tornar vedrem la bella età de l'auro".
Accudito con affettuosa cura, vezzeggiato con trepida commozione il neonato e affidato. una volta slattato nel settembre del 1606, alla saggezza dell'aio Tito Corneo (autore d'un Discorso delle ragion di Stato e di guerra indirizzato il 15 marzo 1613 a Francesco Maria II) e alle premure sin eccessive della contessa Vittoria Tortora Ranuccio Santinelli, moglie del maggio.rdomo ducale, la sua salute non destava, salvo i "molti varoli di mala qualità" riscontrati nel maggio del 1607 e ancora presenti nel luglio, particolare apprensione e la sua grazia infantile si prestava ad essere rivestita dalle piùrosee speranze. Ciò non toglieva che il padre (la cui figura si sagoma come esemplare nella dialogata Idea del principe del letterato di Cagli Giovanni Battista Albertini, a dir del quale la sua "vita lodevole" indica "qual debba essere il principe virtuoso"), lungi dall'abbandonarsi alla tenerezza compiaciuta, si crucciasse, invece, per garantirgli un sereno avvenire.
Gravato dal peso degli anni, incline ad interpretare gli acciacchi dell'età come preannuncio di fine, Francesco Maria II temeva di non aver molto da vivere; ed era per lui tormentosa l'angoscia di morire essendo F. ancora in minore età sicché Roma ne approfittasse per assumere il governo del proprio feudo. Caduto, per la decisa opposizione di Paolo V, nel 1606, il progetto di responsabilizzare la protezione della Spagna - nella cui orbita Francesco Maria II s'era collocato sin dal 1582 con una condotta che, nel rinnovo del 1607, diventò, lui morto, automaticamente trasmissibile a F. - affidando la direzione dello Stato e l'educazione di F. ad una qualificata personalità italiana designata da Filippo III e, d'altra parte, diffidando il duca della proposta d'una tutela o del pontefice o d'una persona da questo indicata, non restava all'anziano principe che escogitare una soluzione la quale - pur assicurando la successione a F. - non suonasse direttamente lesiva per la suscettibilità papale. Donde l'ingegnosa costituzione del cosiddetto Consiglio degli otto - formato, appunto, dai rappresentanti delle sei città di Urbino, Pesaro, Gubbio, Senigallia, Cagli, Fossombrone e delle due province di Montefeltro e Massa Trabaria - che, vivente il duca, dovevano fungere da consiglieri e, lui morto, dovevano assumersi e l'amministrazone dello Stato e la tutela di F. per tutta la durata dell'età pupillare.
Insediatosi ufficialmente, il 22 genn. 1607, ad Urbino, siffatto organo consultivo e di reggenza e di fatto governante per oltre sei anni ché il duca si ritirò a Casteldurante (dal 1635 si chiamerà Urbania), donde si limitava a verificare il funzionamento orientandolo con intermittenti suggerimenti, non per questo si tacitavano le ansie paterne. Il Consiglio degli otto poteva sempre crollare di fronte ad una robusta pressione dall'esterno agevolata da connivenze interne. Occorreva ancorare i diritti successorii e l'integrità del Ducato ad un protettore vicino ed autorevole militarmente. Necessitava un'alleanza, da saldare con un impegno matrimoniale, col Granducato mediceo. E, a tal fine, il piccolo F. - ritratto in una ricchissima culla roseo e paffuto dall'urbinate Federico Barocci, lo stesso che in un altro dipinto, lo raffigurava in piedi, con in ambo le mani un giocattolo e in lussuosa veste - andava utilizzato quale futuro sposo. E pure Firenze ravvisava i vantaggi - in termini d'allargamento della propria influenza e di concomitante arginamento delle ambizioni pontificie - dell'intesa mediceo-roverasca. Sicché - dopo che, nel marzo del 1608, il granduca Ferdinando I promise a Francesco Maria II come sposa per F., allora nemmeno treenne, la non ancora quattrenne figlia Claudia - con Cosimo II, suo successore e figlio, si ebbe, il 4 apr. 1609, la stipula del fidanzamento ufficiale cui Ludovico Agostini sollecito applaudi con un madrigale.
Dopo di che s'attivò, in entrambe le corti, la manipolazione della mente e del carattere dei due infanti, sicché sin d'allora si sentissero fidanzatini, sicché sin da piccoli introiettassero come destino ineludibile un coniugio che il letterato napoletano - nonché futuro cortigiano roverasco ché, per le insistenze d'un altro napoletano Vespasiano Caracciolo aio, allora di F., sarà chiamato ad Urbino nel 1616 - Giulio Cesare Capaccio s'affrettò a profetizzare colmo di felicità e per loro e per gli "Urbinates" tutti. E, mentre un fitto scambio di doni suggestionava nell'intimo i due piccoli promessi (Claudia contemplava il ritratto di F. vestito da cacciatore; questi caracollava fiero su di un cavalluccio regalatogli da quella e tripudiava ogni volta che la vedeva addobbata da minuscola Diana nel quadro recapitato da Firenze), cresceva nella corte roverasca l'influenza medicea, ché, data la "nuova congiuntione"., Francesco Maria II "confida infinitamente con saldissima risolutione" nel granduca. Donde, il 25 giugno 1612, la conferma dell'impegno matrimoniale - a Firenze il procuratore di F. (era, appunto, munito d'ampia procura rogata ad Urbino il 16 giugno) Lattanzio Secoli consegnava, alla presenza del granduca, l'anello a Claudia - e, di lì a poco, da parte di Francesco Maria II, l'affidamento, per testamento, a Cosimo II della protezione e della tutela di F. con estesa autorità sugli interessi del Ducato. "Se doppo la mia vita - precisava il duca urbinate - succedesse qualche invasione o mostra d'armi, ... ella non solamente come ... cognato et tutore" di F., "ma come padre ancora voglia favorirlo et difenderlo da chi volesse molestarlo et darli fuor di ragione travaglio". Logica conseguenza di siffatto mandato la soppressione, dell'11 sett. 1613, del Consiglio degli otto, la cui sopravvivenza non aveva più ragion d'essere.
Quanto a F., una lettera di Giulio Brunetti - il quale, segretario particolare di Francesco Maria II, era informatore costante della corte fiorentina anche a suo riguardo - del 20 genn. 1614 al segretario mediceo Curzio Picchiena assicura che "cresce" a vista d'occhio facendosi via via, oltre che "robusto", pure "gratioso e amabilissimo".
Suo padre, precisava il Brunetti, "non si cura che faccia progresso nelle lettere, havendo provato per sé medesimo i ritiramenti che cagionano, e che neanche sappia latino", anche se un minimo di spruzzatura in proposito "va insegnandoli il maestro con buona maniera. Gli essercitii suoi sono di leggere, scrivere, ballare e sonare e già con la scorta del sig. Vespasiano Caracciolo suo ayo incomincia ad attendere alle cose cavalleresche con molta gratia et attitudine, va spesso in maschera a cavallo allegramente, et un giorno della settimana... il giovedì ... dà udienza pubblica in luogo del ... duca..., con soddisfazione e con giubilo di tutti". È evidente che, anche se dedicatario del Trattato della lingua (Venetia 1613) di Giacomo Pergamini, il fanciullo non amava applicarsi nello studio; e che si preferiva non forzarlo in tal senso. E quindi non gli si imponeva la fatica del latino. Ciò non toglie che - non senza contraddizione - sostituisse il padre una volta alla settimana nell'udienza. Da un lato, insomma, non lo si forzava intellettualmente, dall'altro però si esigeva che, già ad otto anni, facesse la parte del principe. Tant'è che, quando non aveva ancora dieci anni, il padre gli inviò, dal ritiro di Casteldurante, il 22 marzo 1615, "alcuni ricordi" di buon governo, da ricordare "del continuo" e perciò da tener sempre non solo "avanti agli occhi, ma nell'intimo del ... cuore", ai quali avrebbe dovuto attenersi una volta duca. Drasticamente circoscritta in questi la cultura: da evitare - asserisce seccamente Francesco Maria II, pur personalmente studiosissimo, pur detto da Tasso "principe e filosofo" - lo "studio delle scienze" perché distraente dai pubblici doveri; basti l'intendimento della "vostra lingua" e la lettura quotidiana "di qualche historia... antica" o "moderna"; impari qualcosa di spagnolo "servendo voi quella maestà" di Spagna. Viva - si raccomanda il padre - F. in grazia di Dio; e, quanto agli ecclesiastici, attendano "all'officio loro", senza che F. debba mai ricorrere al loro "aiuto", accettando al più essi preghino "Dio per voi". Sposi "la sorella del granduca di Toscana, poiché meglio per questi paesi e per la casa nostra e per voi medesimo non si è potuto trovare"; e sia con la consorte "sempre amorevolissimo", senza però concedere il minimo spiraglio a "che s'ingerisca in cose del governo". Non prive di saviezza le istruzioni di Francesco Maria II; ma si ha l'impressione che, nella sua ossessione di dover morire presto e all'improvviso, dimentichi che F. è un fanciullo e che non sappia trovare con lui le parole adatte alla sua età. Sicché F. cresce capriccioso e viziato senza che il padre - rimuginante le sue apprensioni a Casteldurante - sappia essere, in termini di tenerezza e, anche, di fermezza, tale con lui positivamente. Inasprito, inoltre, dall'incomprensione nei confronti della troppo giovane moglie, il vecchio duca ne diffida al punto da impedire che essa possa intervenire nell'educazione del figlio.
Incontrata, finalmente, la futura sposa durante il soggiorno fiorentino del 6-18 ott. 1616 che dovette averlo sin stordito colla frenetica successione di festeggiamenti culminati nella mirabolante "festa a cavallo" del 16 (su argomento, la "guerra di bellezza", d'Andrea Salvadori, con coreografia di Agnolo Ricci e musiche di Iacopo Peri e Paolo Francesino), F., in dicembre, non senza angoscia della corte roverasca, s'ammalò di vaiolo (oltre ad "inappetenza" e "raucedine" aveva infatti "alcuni varoli nella testa e nel viso"), ristabilendosi, comunque, rapidamente se il padre, già il 25, poteva annunciare a Firenze che "Iddio quasi miracolosamente" gli aveva ridato la salute. Più che giustificata la premura colla quale il duca e l'abate Brunetti tennero informata la corte medicea d'ogni minimo evento concernente Federico. Ciò valeva a ricordare l'impegno coi connessi obblighi difensivi la cui eventualità si faceva vieppiù evidente man mano, ad ogni notizia di malattia del duca, c'erano manovre militari pontificie ai confini.
Queste erano magari di poco conto, ma, in ogni caso, tali da incutere spavento alla corte urbinate. E non senza, tavolta, un'eco allargata, se, ad esempio, Fulgenzio Micanzio, il servita sodale di Sarpi, si senti in dovere d'informare, con lettera del 10 nov. 1617, l'ambasciatore inglese a Venezia Dudley Carleton come, essendosi "amalato il duca d'Urbino", Paolo V, "che pretende Sinigallia doppo la sua morte, vi ha fatto avicinare qualche soldatesca". E "Fiorenza pareva doversi muovere per il figlio d'esso duca ch'ha sposata la sorella". Per fortuna, riassumeva il servita, "la seguita sanità dell'infermo non ha lasciato vedere se fosse cagione sufficiente d'un'altra guerra".
Comprensibile, altresì, che Francesco Maria II insistesse per far figurare F. come proprio vicario, sia pure assistito dal vescovo della città, a Pesaro nel marzo del 1618 e lo facesse quindi soggiornare in tale veste a Gubbio una decina di giomi per poi visitare Cagli e Fossombrone. Così le popolazioni si abituavano all'immagine dei futuro duca, mentre, da parte pontificia, si prendeva atto che su di lui vegliava il Granducato di Toscana. Quando, poi, nel marzo-aprile del 1620, Cosimo II vagheggiò l'idea d'accasare la sorella Claudia, a suo cognato (ne aveva sposata, infatti, la sorella Maria Maddalena), il neoimperatore Ferdinando II, Francesco Maria II rifiutò la proposta medicea che a Claudia subentrasse per F. Margherita, la primogenita del granduca. Questa era in età troppo tenera ed occorreva attendere troppo tempo perché fosse impalmabile. E, invece, il duca, che aveva ormai compiuto i settanta anni, voleva che il figlio si sposasse al più presto e lo sostituisse. Rientrata per fortuna, l'ipotesi delle nozze imperiali di Claudia, si strinsero i tempi per la celebrazione di quelle pattuite con Federico Ubaldo. Morto, il 28 febbr. 1621, Cosimo II e successogli il figlio Ferdinando II, essendo reggenti la nonna patema Maria Cristina di Lorena e la madre Maria Maddalena d'Austria, F. si recò a Firenze ed incontrò, il 25 aprile, "nella villa di Baroncello" per la seconda volta Claudia. E fu nella cappella della villa che l'arcivescovo di Firenze Alessandro Marzio de' Medici, il 29, celebrò il matrimonio., che - peraltro osannato in latino dal bellunese Andrea Chiavenna e da un carmen (Romae 1621) di "Henricus Chifellius" d'Anversa nonché dai versi del medico bellunese Giovanni Stefani - fu festeggiato in sordina. Un sottotono doveroso e per il lutto della scomparsa del granduca e per il serpeggiare dell'epidemia nella città sino a penetrare negli stessi interni medicei ché le "petecchie" costringevano a letto Lorenzo, un altro fratello della sposa. Dopo una breve luna di miele, nella quale - a detta dei cortigiani e, soprattutto, d'Angelo Conti, un agente urbinate messo al fianco di F. Per riferire meticoloso ogni dettaglio - la coppia raggiunse una piena intesa fisica ed affettiva, F., l'11 maggio, partì alla volta del Ducato per predisporre la più fastosa delle accoglienze alla consorte, la quale, accompagnata dal fratello Carlo, si mise in viaggio per raggiungerlo il 22. Ed egli l'attese al confine attomiato da gentiluomini e cortigiani vestiti pomposamente.
Si ebbe così l'ingresso ufficiale dei due sposi volto a suscitare l'entusiasmo delle popolazioni, a solennizzare l'unione colla casata medicea, ad esaltare la figura di F. e a porre - per lo meno nella dimensione del festeggiamento - il minuscolo Ducato allo stesso livello degli Stati grandi e potenti. Ultima festa alla grande d'uno Stato prossimo alla perdita dell'identità l'episodio è tra i più memorandi negli annali dell'effimero seicentesco in Italia. Abbondantemente memorizzato nelle raffigurazioni e nelle descrizioni, ne restano pure tracce residue quali le diciassette tele monocrome per un arco trionfale del veronese Claudio Ridolfi coadiuvato dall'allievo urbinate Girolamo Cialdieri. Occasione, inoltre, per stabili interventi - come, ad Urbino (con al vertice la statua della Fama ora perduta) la porta Valbona tuttora caratterizzata dall'alto fregio con enfatica dedicatoria latina ai due sposi e il portico, sul fianco esterno della cattedrale, completante lo spazio aulico di piazza Grande; e come, a Pesaro, la piazza ammattonata e ripartita con liste di marmo comune e l'erezione della "fonte rossa", cosiddetta dal colore del marmo veronese all'uopo adoperato - quello che soprattutto lo caratterizzò fu la frenesia festosa che percorse i vari centri man mano la coppia vi entrava. Archi trionfali ricchi di scritte e straboccanti di decorazioni accolsero gli sposi a Sansepolcro, Casteldurante, Sant'Angelo in Vado, Pesaro, Urbino. Ovunque le campane suonarono a distesa, le artiglierie salutarono a salve, in un ritmo vorticoso di sfilate, giostre, tornei , canti, musiche, balli, banchetti, carri allegorici, fuochi d'artificio.
Ma, finiti i festeggiamenti (nell'organizzare i quali prodigò la sua inventiva scenografica l'architetto di corte Niccolò Sabbatini), subentrò l'ordinaria quotidianità. In questa la coppia d'acerbi adolescenti - F. era sedicenne, Claudia aveva otto mesi più di lui - voluta dalle due corti si rivelò ben presto male assortita. Venne meno presto in F. l'interesse per la moglie e questa sembrò, a sua volta, più rattristata dalla vita poco brillante della corte che dalla disattenzione del marito. Né la nascita, del 7 febbr. 1622, a Pesaro della figlia Vittoria valse a riaccostare i genitori.
Immaturo come marito F. e via via insofferente della moglie, diede pessima prova di sé pure quando il padre, il 3 nov. 1621, decise - come ricorderà in una sua relazione (pubblicata da Segarizzi nelle Relazioni) ilfuoriuscito veneziano Antonio Donato (Donà) - "di lasciargli libera l'amministrazione di tutte le cose", ritirandosi con "pochissimi servitori" nella prediletta "solitudine di Castel Durante". F. - così il padre, da lui deluso ché i suoi rimbrotti restassero inascoltati, fu costretto a scrivere a Firenze - "si prende poco pensiero del governo di questi paesi", i quali ne patiscono e l'accusano "di troppo fretta d'essermene sopra di lui scaricato". Lungi, comunque, dall'intervenire riassumendo il comando, Francesco Maria II si chiuse in se stesso inacidendo nell'astio contro il figlio degenere. Adulato e mal consigliato da una cricca di cortigiani tra loro divisi ed interessati ad inasprire i suoi rapporti col padre, F. finì col preferire il peggiore tra questi: si trattava del fiorentino Luigi Vettori, il più intrigante e malversatore di tutti, il quale concentrò su di sé le più svariate funzioni. Pur essendo l'antitesi del cortigiano dalla "buona coscienza" operante "honoratamente" e "christianamente" proposto dall'Institutione civile e christiana (Roma 1622) del gesuita senese Bernardino Castori, il quale, involontariamente sarcastico, dedicò questo scritto proprio a F., il Vettori, inizialmente destinato al solo servizio di Claudia, diventò maggiordomo, tesoriere, consultore, soprintendente, segretario. Mettendo in cattiva luce tutti gli altri cortigiani il Vettori s'impose a F., il quale preferì abbandonare nelle sue mani le effettive cure di governo - cui il Vettori, avido di potere e di denaro, attendeva non disinteressatamente - e darsi ai bagordi e alle scapestrataggini.
Lasciata Urbino nel settembre del 1622 per un soggiorno fiorentino, F. da questo rientrò senza ombra di ravvedimento. Non aveva alcuna intenzione di "liaver per duci il nobil padre e gli avi", alla cui imitazione l'aveva esortato, con un sonetto, nel 1615 il Baldi. La gloria prospettatagli nel 1615 dallo Zuccolo, nel l'Heroica virtus sive de honesto gloriae studio a lui dedicata, gli era indifferente. Se, non ancora decenne, aveva assicurato, il 23 marzo 1615, al padre che avrebbe scolpiti "nella mente e nel cuore" i suoi precetti di buon governo, sì che gli fossero di "guida a quell'opre virtuose che sono obbligate al mio nascimento e all'haver per padre Vostra Altezza", ora si vendicava dei buoni propositi che troppo presto gli erano stati imposti. Anzi - quasi ad infrangere l'immagine di saggio principe "ab ineunte pueritia", di "canus" in "sapientia" anche se giovanissimo d'anni per lui costruti dai panegirici, quasi a demolire la tipologia del principe cui, per tutta la sua breve esistenza, lo si era voluto costringere - sembrava come animato da una furia autodistruttiva. Era come, nella sua scapestrataggine, determinato ad infierire in negativo contro il destino riserbatogli, contro il matrimonio per lui confezionato, contro i doveri cui il padre sin dall'infanzia l'aveva pedantemente richiamato. C'era un che di torvamente ribelle nel suo balordo incanaglire: non si limitava a comportarsi malamente, ma lo faceva fragorosamente, vistosamente, si che tutti lo sapessero. Voleva così addolorare la moglie, scandalizzare i sudditi, ferire il padre, far piangere la madre. Pareva volesse scrollarsi di dosso ogni onere familiare, pareva mirasse al vilipendio della sua dignità di principe. Senza ritegno il suo sfrontato amoreggiare con la bella Argentina, una commediante che ospitava, assieme alla sua compagnia, tanto nel palazzo ducale d'Urbino quanto in quello di Pesaro. La sera del 28 giugno 1623 si esibì egli stesso recitando, tra lazzi e schiamazzi, la parte del "giumento" portante in groppa gli altri attori; incedé quindi barcollante sotto un carico di stoviglie che lasciò cadere a bella posta con gran fracasso tra le risa degli astanti.
Coricatosi all'alba del 29 giugno 1623 nella sua stanza, in un "appartamento" del palazzo urbinate da tempo il più lontano possibile da quello riserbato alla consorte, in questo, sul far della sera, un domestico lo trovò riverso sul letto , col corpo ormai freddo, colla schiuma alla bocca, cogli occhi semiaperti. Si pensò l'avesse stroncato, qualche ora prima, un colpo apoplettico. Così, almeno, i referti medici, la lettura dei quali induce ad addebitare la morte ad un attacco d'epilessia aggravato da probabile cisticercosi cerebrale, e la stessa moglie, scrivendone, il 30 alla madre (cfr. Menichetti).
È "mancato di morte subita et improvisa", riassunsero l'8 luglio i rappresentanti veneti a Roma Renier Zeno e Girolamo Soranzo senza far cenno - ed è probabile non per ignoranza, ma perché le giudicavano del tutto inattendibili - alle voci di veleno e di strangolamento al momento circolate -, suscitate dal sospetto i Medici si fossero cosi voluti vendicare dei cattivi trattamenti inflitti a Claudia liberandosi, nel contempo, d'un parente così screditante. Quanto al vecchio padre, cui recò la notizia il vescovo di Pesaro Malatesta Baglioni, l'imperturbabilità nell'apprenderla fu tale che "tutti più parlavano - ricorderà il Donato nella sua relazione - di tanta costanza che dell'accidente medesimo" della tragica scomparsa di Federico Ubaldo. Mentre sua madre quasi impazzì, il ferreo autocontrollo paterno, l'assenza di segni visibili di disperazione vennero intesi come esempio di stoica accettazione del dolore e, anche, di cristiana rassegnazione alla volontà di Dio. Ma ci fu anche chi, sconcertato da tanta compostezza, l'interpretò come indifferenza. Si dubitò, insomma, Francesco Maria II fosse seriamente nell'intimo sconvolto. E ciò - sempre a detta del Donato - dato "l'odio che portava al figliolo" che "sapeva aver degenerato dal suo nascere e dalli costumi paterni". Eppure - vien da soggiungere - lo stesso Francesco Maria II aveva fatto dire, ancora nel 1613, in un'orazione, pronunciata a suo nome, a Venezia, da Bernardino Baldi che F., "suo unico e diletto figliulo", era "la più cara cosa ch'egli habbia in questo mondo".
Il 2 luglio F. fu sepolto nella cripta della cattedrale urbinate nella tomba che Francesco Maria II aveva destinata a se stesso. Corale il pianto della città durante le esequie: il "povero principe" - attesta Scipione Ammirato il Giovane - venne "portato alla sepoltura con lacrime di tutta la città". Più che la fine dello sventurato F. il popolo pianse perché, è sempre l'Ammirato a precisarlo, "si vede ora, con la mancanza della vita del duca ridotto all'età di 75 anni, cascare in mano de' preti". Anche per Venezia - così i rappresentanti veneti a Roma - la morte di F. era funesta, essendo egli stato "propenso et incline" verso la Serenissima. Un particolare questo che differenzia F. dal sin meticoloso dipendere dalla Spagna del padre. "Non si sente che la principessa sia restata gravida - aggiungono lo Zeno e il Soranzo, così smentendo la diceria interessata Claudia attendesse un figlio - et vi resta una sola figlia femina", Vittoria, "incapace di hereditar lo stato che decade alla Sede Apostolica come feudo della Chiesa". Non ci vorrà molto - prevedono i due - perché scompaia anche il padre di Federico. "Onde - commentano lucidamente - questi ecclesiastici aspettano in breve un florido et fertilissimo paese", produttore in abbondanza di "grani" e con "numerosi" uomim "atti al maneggio dell'armi". Il suo incorporamento, insistono gli stessi, "riuscirà acquisto di grandissima consideratione". Quanto alle "quarant' hore" e alle "molte orationi" dei "populi" affinché si verificasse la gravidanza della "principessa" Claudia, dovevano risultare vane. Il "dolore di stomaco", che da due giorni l'ha tormentata, così Luigi Vettori, il 7 luglio, avvisando Firenze "s'è risoluto stamani in una gran scorrenza di corpo".
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