ZANDOMENEGHI, Federico
– Nacque a Venezia il 2 giugno 1841, quinto figlio di Pietro e di Teresa Spertini.
Nato in una colta famiglia di artisti, in cui padre, nonno e zio erano scultori di ascendenza canoviana (L’impressionismo di Zandomeneghi, 2016, pp. 55-67), è facile indovinare che il bagaglio formativo del giovane si dovesse caratterizzare per una spiccata cura per la forma e che in seguito, pur rifuggendo ogni accademia, il disegno rimanesse sempre per lui un mezzo per indagare il reale.
La fortuna critica di Zandomeneghi ha seguito ciononostante un destino complesso, presto dimenticato in Italia e oscurato nella variegata, ma ingombrante compagine impressionista di cui egli entrò a far parte a Parigi.
Frequentò l’Accademia di belle arti di Venezia tra il 1857 e il 1859, allievo di Callisto Zanotti, Carlo Astori, Federico Moja e Michelangelo Grigoletti. Insofferente del clima veneziano, e sempre più coinvolto nelle vicende risorgimentali, nel 1859 partì per raggiungere a Modena i contingenti toscani di volontari, incontrandovi Diego Martelli, Odoardo Borrani, Telemaco Signorini, Adriano Cecioni e Nino Costa. Con il trattato di Villafranca e il Veneto in mano austriaca, Zandomeneghi divenne esule e partì per la Sicilia nell’estate del 1860 con le truppe garibaldine, dopo essersi iscritto a maggio all’Accademia di Brera (dove seguì al rientro i corsi di Raffaele Casnedi e Luigi Bisi).
Nel 1862 giunse a Firenze, indirizzato dal padre allo scultore Giovanni Dupré. In amicizia con Giuseppe Abbati, frequentò il gruppo macchiaiolo del caffè Michelangelo (Signorini, 1893), stabilendo importanti legami, primo fra tutti quello con Martelli. Lo studio del vero e degli effetti di luce divenne anche per lui il nucleo della rivoluzione pittorica antiaccademica: fu così tra i firmatari dello Statuto della Società promotrice di belle arti costituita in seno della Fratellanza artigiana di Firenze (Firenze 1863), e di una polemica lettera aperta al direttore dell’Accademia Ligustica, Tammar Luxoro (Appendice. All’egregio signor T. L. pittore, in Il Corriere mercantile, 23 giugno 1864).
Dagli studi condotti con Abbati sulle architetture storiche fiorentine nacque Palazzo Pretorio a Firenze (1865, Venezia, Galleria internazionale d’arte moderna di Ca’ Pesaro), che coniuga studio di luce e ambientazione medievale con quel garbato tratto narrativo che già si mostra come sua cifra personale.
Nel 1865, con Abbati e Martelli, prese in affitto un appartamento nella zona di San Marco Vecchio, fuori porta S. Gallo. Transitando attraverso luoghi ed esperienze della vicenda macchiaiola, a Piagentina assorbì l’atmosfera pacata delle dimore borghesi nella campagna fiorentina, come testimonia il perfetto equilibrio tra fedeltà al reale, quotidianità della scena e semplicità compositiva quattrocentesca di un’opera come Gli innamorati (1866, Viareggio, istituto Matteucci). Nello stesso anno soggiornò con gli amici a Castiglioncello ospite di Martelli, di cui ritrasse la compagna Teresa Fabbrini in un dipinto di luminosa semplicità (La lettura, 1865; Bietoletti, 2016, p. 8). Questi due dipinti furono esposti alla Promotrice veneziana del 1866, in una sorta di dittico che combinava stimoli fiorentini e veneziani. Negli stessi anni si aggiornò sulla pittura internazionale frequentando a Bellosguardo la villa dell’Ombrellino del francese Marcellin Desboutin.
Nel maggio del 1866 partì volontario con Abbati per la terza guerra d’indipendenza. Nell’agosto fece rientro a Venezia e vi si trattenne per sostenere la famiglia dopo l’improvvisa morte del padre. La città era rimasta indifferente ai fermenti che scuotevano le accademie, e Zandomeneghi vi portò lo studio della luce e del vero, così come del carattere locale con i suoi tipi e le sue tradizioni. Vi si trattenne tra il 1867 e il 1868 ritrovando un compagno di studi, Guglielmo Ciardi.
Morto improvvisamente Abbati nel febbraio del 1868, si legò epistolarmente sempre più agli amici fiorentini, Martelli e Signorini in particolare. Strinse amicizia con Michele Cammarano, anch’egli presente in laguna per esporre alla Promotrice veneziana del 1868 tele dal drammatico carattere sociale, cui Zandomeneghi si ispirò per Spazzaturai in riposo (1869; L’impressionismo di Zandomeneghi, 2016, p. 39) esposto alla Promotrice fiorentina del 1869, dove suscitò il plauso di Martelli (p. 17). Tornò a Firenze e dipinse il Ritratto di Diego Martelli (1869-70; Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti), in cui figura e spazio si armonizzano e rispecchiano indole e interessi del soggetto, testimoniando la confidenza tra i due amici. Nel 1869 fu a Treviso con Ciardi e dipinse Bastimento allo scalo (Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti): la veduta chiara e bilanciata rende con esattezza luce e spazi della laguna, e trova un’eco nella produzione contemporanea dell’amico appena rientrato in Veneto dopo un viaggio che lo aveva portato a conoscere i macchiaioli proprio per il tramite di Zandomeneghi.
Nel 1871 tornò a esporre all’Accademia di Venezia, suscitando l’interesse di Camillo Boito.
Al soggiorno romano compiuto nel 1872 con l’amico Vincenzo Cabianca risalgono invece Impressioni di Roma (Milano, Pinacoteca di Brera), presentate all’Esposizione nazionale di Milano e acquistate dal ministero della Pubblica Istruzione. La pungente osservazione del vero che coglieva il contrasto tra la folla di mendicanti e l’imponenza delle vestigia di S. Gregorio al Celio suscitò vivaci dibattiti; il dipinto fu premiato l’anno successivo all’Esposizione universale di Vienna. A questo momento e a queste riflessioni appartengono anche Preparativi per la processione (1873, Viareggio, istituto Matteucci), in cui la resa del tema quotidiano e la luce di ascendenza macchiaiola si associano alla morbidezza di trapassi cromatici di tradizione veneta.
Nel 1874, durante un soggiorno a Castiglioncello, eseguì La portatrice (ibid., p. 87), che risente della solennità delle figure di Giovanni Fattori così come della contemporanea pittura francese a soggetto campestre; questa fu tra le ultime opere italiane di Zandomeneghi, che nel giugno dello stesso anno decise repentinamente di partire per Parigi, intenzionato a soggiornarvi per visitare il Salon, ma destinato a non fare più ritorno in Italia. Di questo momento, di cui è difficile tracciare la produzione, è anche La pittrice (ibid., p. 95), gentile contraltare alla fiera e statuaria Portatrice.
A Parigi recuperò i contatti con Desboutin, che lo introdusse nel giro del Café Nouvelle Athènes, dove conobbe e frequentò letterati e artisti: da Émile Zola a Edmond Duranty, Edgar Degas, Édouard Manet, Camille Pissarro, Paul Gauguin. Si dedicò presto alla produzione di ritratti su commissione e affittò uno studio (Bietoletti, 2016, pp. 19 s.); del 1875 è l’Autoritratto (Viareggio, istituto Matteucci), condotto con pennellata libera e raffinata definizione psicologica.
Ciononostante, sprovvisto del carattere intraprendente degli italiani a Parigi, insofferente nei confronti della pittura da Salon come delle novità impressioniste, da lui già sperimentate a Firenze, e più vicino al realismo pacato di Jules Breton, Jules Bastien-Lepage o Carolus-Duran, stentò a trovarsi una collocazione sociale e professionale.
Tra il 1876 e il 1877, spinto dalla necessità, iniziò a lavorare, controvoglia e quasi in segreto, come disegnatore e figurinista per un giornale di moda: uno dei pochi esiti noti di tale produzione è il bozzetto del manifesto per il dramma Rome vaincue di Alexandre Parodi (L’impressionismo di Zandomeneghi, 2016, p. 22).
Si collocano sulla via di una graduale ma evidente apertura verso modi e temi parigini dipinti come Luna di miele (1878; Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti), dall’ordinata partitura macchiaiola e dal tono garbatamente ironico, Strada a Parigi con passanti che bevono a una fontana ‘Wallace’ e Le Moulin de la Galette (1877 e 1878; ibid., rispettivamente pp. 111, 39), opera, quest’ultima, in sintonia con i modi di Degas per il recupero di fughe prospettiche rinascimentali, arditi tagli fotografici e un tratto abbreviato quasi caricaturale, in un connubio che influenzò il giovane Henri de Toulouse-Lautrec pochi anni dopo.
Nel 1879 si fece raggiungere dalla madre e dalla sorella interrompendo i rapporti con Venezia, mentre quelli con Firenze continuarono per via epistolare, divenendo Zandomeneghi un punto di riferimento per gli amici che si recavano a Parigi: Fattori, Francesco Gioli, Niccolò Cannicci ed Egisto Ferroni nel 1875, Martelli nel 1878.
Il soggiorno di quest’ultimo a Parigi tra il 1878 e il 1879 rinsaldò l’amicizia tra i due: Diego cercava di mitigare il terribile carattere di Federico avvicinandolo agli artisti cui di fatto era affine (Pissarro, Degas, Manet, Jean-Baptiste Guillaumin), e valorizzando quegli elementi di continuità tra ricerca impressionista e macchiaiola che furono poi oggetto della conferenza tenuta al Circolo filologico di Livorno; Zandomeneghi si trovò a incarnare quella continuità in occasione della Promotrice fiorentina del 1878, cui inviò A letto, una sorta di intima istantanea sul mondo femminile, e Luna di miele (1878; entrambi entrati in collezione Martelli e da lì, per donazione, alla Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti a Firenze). Del resto alla quarta collettiva impressionista, cui fu invitato da Degas, presentò opere dipinte in Italia e a Parigi: Un canal de Venise, Une industrie vénitienne, Violettes d’hiver, Ritratto di Diego Martelli con il berretto rosso (1879; Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti).
Tra i legami più importanti stabiliti a Parigi vi fu proprio quello con Degas, alimentato dalla comune amicizia con Pissarro e dall’interesse per il pensiero di Hippolyte Taine, già noto a Zandomeneghi grazie ad Abbati. Così come per l’amico, la figura femminile, colta nel quotidiano e lontana dalla seduzione delle donne boldiniane, fu sempre al centro dei suoi interessi, in una sorta di mediazione tra i tagli compositivi di Degas e la morbida stesura pittorica di Pierre-Auguste Renoir; madre e sorella furono tra le modelle preferite, ritratte in momenti d’intimità domestica (Mère et fille, 1879; Bietoletti, 2016, p. 25).
L’attenzione alla resa di forma e spazio fu la cifra stilistica della corrente impressionista dei cosiddetti dessinateurs, entro cui si inserì Zandomeneghi che cercò sempre l’eleganza del gesto e la gentilezza delle forme, oltre alla cura del disegno condivisa con l’amico Degas (influenzato a sua volta da un cruciale soggiorno fiorentino nel 1858) e alla definizione psicologica dei personaggi (Il dottore, 1881; L’impressionismo di Zandomeneghi, 2016, p. 126).
Nel 1880 partecipò alla quinta collettiva impressionista con una serie di ventagli e quattro dipinti, tra cui Mère et fille e il ritratto di Paul Alexis. Alla sesta collettiva impressionista, nel 1881, presentò cinque dipinti, tra cui Place d’Anvers a Parigi (Piacenza, collezione Ricci Oddi), la cui prospettiva scorciata rivela sempre ascendenze quattrocentesche, mentre la pennellata veloce e il tema del parco cittadino denunciano l’adesione alle novità impressioniste.
A metà degli anni Ottanta frequentò il giovane Toulouse-Lautrec, su cui esercitò un importante influsso in termini di attenzione alla luce e di scelte compositive. Abitarono insieme tra il 1884 e il 1886, nello stesso stabile di Suzanne Valadon, che fu la modella per Al Caffè Nouvelle Athènes (1885; ibid., p. 134) e La roussotte (1886). Al Caffè Nouvelle Athènes, dalla vibrante e minuta pennellata a rendere il tremolio della luce nello specchio, fu esposto insieme a una serie di nudi femminili all’ottava mostra impressionista del 1886. Del 1885 è invece Al Caffè (Rivoli, Fondazione Francesco Federico Cerruti per l’arte), uno dei primi esperimenti a pastello, tecnica impiegata sempre più spesso da Zandomeneghi per scene di toilette o figure di cicliste (Bietoletti, 2016, p. 38).
Si recò nell’ottobre del 1886 nella valle di Chevreuse, poco fuori Parigi, dove lavorò a paesaggi e scene di campagna (Jeune fille au bouquet, À la campagne, Paysage; rispettivamente pp. 216, 217, 121). Come era successo a Castiglioncello, il contatto con una natura luminosa produsse un nuovo modo di rendere la luce con una pennellata frantumata e mobile, seppur impiegata in un’immagine statica, come per esempio La leçon de chant (1885-90; Milano, Gallerie d’Italia), secondo le ricerche puntiniste condivise con i giovani Georges Seurat e Paul Signac, legati a Guillaumin.
Nelle lettere a Martelli, Zandomeneghi continuava a sviluppare riflessioni sulle sperimentazioni che andava conducendo, trovando nell’amico la sponda ideale, e offrendogli al contempo un vivace e divertito spaccato della vita artistica e sociale della Parigi fin de siècle. Martelli, dal canto suo, tentava ancora di condividere con gli amici italiani le somiglianze tra ricerche macchiaiole e impressioniste, ma senza gran successo. Alcuni dei più giovani si recarono comunque a Parigi e fecero visita a Zandomeneghi: Arturo Faldi, Marco Calderini, Ulvi Liegi, Alfredo Müller.
Le scene quotidiane femminili acquisirono una garbata e ironica capacità seduttiva in direzione neosettecentesca, tanto da suggerire l’associazione con Jean-Honoré Fragonard o François Boucher in opere come Femme qui s’étire (1895; Mantova, palazzo Te), esposta nel 1893 alla prima personale di Zandomeneghi alla galleria di Paul Durand-Ruel, che gli dedicò altre due personali nel 1897 e nel 1903. Nel 1894 il mercante parigino propose infatti a Zandomeneghi un contratto, consentendogli di abbandonare il mal sopportato lavoro di figurinista. La sua produzione incrementò notevolmente, non sempre fu di altissima qualità e non generò purtroppo introiti adeguati, ma le premesse maturate nei decenni precedenti sfociarono in una pittura elegante, sempre dedicata alla figura femminile ritratta nei luoghi canonici della vita parigina o nello studio del pittore (Femme au miroir, La conversation; ibid., rispettivamente pp. 168, 167). Si vedano anche opere dall’orchestrazione più complessa come Au théatre (1895; Viareggio, Lucca, istituto Matteucci) e Matinée musicale (1895-1900; ibid., p. 213). Il contratto con Durand-Ruel mutò i rapporti di Zandomeneghi con la compagine impressionista e causò un raffreddamento di alcune amicizie, in particolare di quella con Degas. Nel 1909 Zandomeneghi espose nella sede di Durand-Ruel a New York.
Si aprì un varco per lui nel fronte compatto della critica italiana, che ormai lo ignorava, con la sala a lui dedicata alla XI Biennale di Venezia del 1914, grazie all’intervento di critici come Vittorio Pica e Ugo Ojetti, che ne misero in luce la capacità, da italiano, di interagire con le correnti innovatrici della pittura francese, senza cedere alle civetterie che lusingavano il mercato. Ma il pittore, orgoglioso e solitario, forse immaginando la tiepida accoglienza che in effetti gli fu riservata, non presenziò e si limitò a inviare le opere. Pica introdusse la pittura del veneziano ai connazionali, celebrandone la prodigiosa «perpetua giovinezza estetica» (Pica, 1914, p. 10), le «doti di colorista vivace e gradevole e di disegnatore preciso e nervoso», ma riconoscendolo anche come «analizzatore non comune della fisionomia umana» e «descrittore delicato delle scene di campagna sotto il vario giuoco della luce e dietro il velo avvolgente dell’atmosfera nonché di osservatore chiaroveggente ed esatto e di rievocatore agile disinvolto ed accorto della vita movimentata delle grandi città moderne», in questo vicino agli impressionisti francesi ma sempre dotato di una sua cifra personale (p. 16).
Morì il 30 dicembre 1917 a Parigi nella casa di rue Tourlaque, a pochi mesi di distanza dall’amico Degas.
Fonti e Bibl.: T. Signorini, Caricaturisti e caricaturati al caffè Michelangelo, Firenze 1893, pp. 131 s.; V. Pica, Artisti contemporanei. F. Z., in Emporium, XL (1914), 235, pp. 3-16; V. Bucci, Cronache milanesi. Mostra Z. alla galleria Pesaro, ibid., LV (1922), 327, pp. 186-189; F. Z. Catalogo generale, a cura della Fondazione Enrico Piceni, Milano 2006; S. Bietoletti, Z., Firenze 2016; L’impressionismo di Z. (catal., Padova), a cura di F. Dini - F. Mazzocca, Venezia 2016.