ZUCCARI (Zuccaro, Zucchero, Zuccarelli), Federico
Nacque a Sant’Angelo in Vado nel ducato di Urbino dal pittore Ottaviano e da Antonia Nari, il 18 aprile del 1539/40. Fra le discordanti testimonianze dello stesso Federico sulla sua età, le più attendibili avvalorano questa data (Cucco, in Per Taddeo e Federico Zuccari, 1993, p. 109).
Secondo Giorgio Vasari, nel 1550 si trasferì a Roma dal fratello Taddeo, ma, durante l’assenza di quest’ultimo, tornò a Urbino e Pesaro, per rientrare stabilmente a Roma solo dopo i lavori di Taddeo a Villa Giulia (conclusi entro il marzo 1555). A questo ritorno potrebbe riferirsi Ottaviano, suo figlio, scrivendo che il padre aveva «14 in 16 anni» quando andò a Roma (Moralejo, 2011, p. 31).
A suo dire, Federico «cominciò a manegiar colori» (F. Zuccari, in Vasari, 1568, 1881, VII, p. 84 nota 2) negli affreschi della torre di Niccolò V (pagati a Taddeo dal novembre 1555 al febbraio 1556). La collaborazione con Taddeo, suo maestro, fu inizialmente così stretta che non sempre è facile distinguere le loro mani. Un primo passo di emancipazione dal fratello fu la decorazione policroma della facciata della casa di Tizio Chermandio (maestro di casa del cardinal Alessandro Farnese) in S. Eustachio (1559 circa); seguirono nei primissimi anni Sessanta gli affreschi nell’appartamento di Belvedere in Vaticano e nel casino di Pio IV (Bertolotti, 1881, p. 19; Friedländer, 1912, pp. 130 s.).
Entro il giugno del 1563 collaborò con Taddeo agli affreschi della villa di Caprarola, sebbene la consistenza del suo contributo sia ancora discussa (Faldi, in Federico Zuccari e Dante, 1993; Partridge, in Der Maler Federico Zuccari, 1999). L’8 luglio, infatti, Federico si era già trasferito a Venezia (Puppi, 2001), invitato dal patriarca d’Aquileia Giovanni Grimani per la decorazione del suo palazzo e della cappella di famiglia in S. Francesco della Vigna (iniziata da Battista Franco). Fu il primo dei molti viaggi in cui avrebbe «consumato duoi terzi, anzi quattro quinti» della propria vita (F. Zuccari, Il passagio per l'Italia…, 1608, p. 2). Federico inaugurò allora la pratica di redigere taccuini di viaggio (spesso con matite rosse e nere) che testimoniano lo studio dell’arte veneta e delle opere nella collezione Grimani: le miniature fiamminghe del Breviario (Winner, 1977; Lorenzoni, 2016) gli dischiusero valori di naturalismo estranei alla concettosa maniera tosco-romana in cui si era formato. Conobbe letterati e artisti importanti per la sua carriera: Cosimo Bartoli, che favorì il suo rapporto con Vasari (Frey, 1930, p. 107); Anton Francesco Doni, che lo iniziò a temi accademici e letterari e lo promosse («sarà un altro Raffaello», scrisse all’arcivescovo di Firenze, Antonio Altoviti, elogiando il suo lavoro nella cappella Grimani); Cornelis Cort, Paolo Veronese e Andrea Palladio, con il quale collaborò ideando le scenografie per la Compagnia della Calza degli Accesi e visitò Cividale nel marzo 1565.
Nella cappella Grimani l’Adorazione dei Magi (firmata «FZ MDLXIIII») rivela la felice assimilazione di suggestioni cromatiche e stilistiche dalla pittura veneta. Ancora giovane e forestiero, Federico non ottenne la Gloria di s. Rocco per l’omonima Scuola grande, cui ambivano anche Veronese, Francesco Salviati e Tintoretto, che la spuntò su tutti, regalando ai committenti, in anticipo sugli altri, il dipinto desiderato. La vicenda segnò l’inizio di una rivalità con Tintoretto che si acuì negli anni a venire. Già allora i due artisti erano in competizione per il prestigioso incarico del Paradiso nella sala del Maggior Consiglio, che fu poi rimandato (Vasari, 1568, 1881, VII, p. 99 e F. Zuccari, ibid., nota 1) e invano ambìto da Federico negli anni seguenti.
Lasciata Venezia, Federico visitò «Verona et molte città di Lombardia», ed è documentato a Firenze il 21 settembre 1565, risiedendovi già da qualche tempo. Il 30 giugno Taddeo, oberato di commissioni, lo aspettava «di corto» a Roma (Biblioteca apostolica Vaticana, Vat. lat. 4105, c. 217r; con qualche imprecisione in Caro, 1957-1961, III, p. 244); è possibile, anche se non certo, che sostasse a Roma nell’estate (cfr. Partridge, in Der Maler Federico Zuccari, 1999, pp. 167 s.).
A Firenze restò fino a dicembre: ammesso all’Accademia del disegno (14 ottobre), collaborò agli apparati per le nozze di Francesco I e dipinse la Gran caccia per il sipario della Cofanaria di Francesco d'Ambra, messa in scena da Vasari e Bernardo Buontalenti.
Dal gennaio1566, a Roma, Federico decorò la cappella dell’Annunciazione nella chiesa dei Gesuiti al Collegio Romano: perduta l’opera, ne restano incisioni di Cort (1571) e Raphael Sadeler il Vecchio (1580) a testimoniare suggestioni dalla Disputa di Raffaello e dal teatro nella «macchina di nuvole» del partito superiore. A maggio cominciò, con «molti lavoranti», gli affreschi a villa d’Este a Tivoli per il cardinale Ippolito. Lavorò accanto al fratello a Caprarola e nella cappella Pucci-Cauco alla Trinità dei Monti (Mundy, 2005). Morto Taddeo (settembre 1566), divenne capomastro a Caprarola fino all’estate del 1569, quando i rapporti con il cardinal Farnese si guastarono per la sua presenza discontinua in cantiere, per ragioni economiche e per la convinzione, che lo accompagnò spesso nella sua carriera, di non essere apprezzato quanto meritava. A luglio il cardinale lo sostituì con Jacopo Bertoja: in risposta allo smacco subito, Federico ideò la Calunnia di Apelle (nota in due versioni dipinte, da disegni e incisioni) evocando, tramite il tema classico, il problematico rapporto con il committente (con il quale tuttavia restò, negli anni a venire, in buoni rapporti).
Il 12 luglio del 1567 s’iscrisse all’Università dei pittori (Compagnia di S. Luca). Per il cardinal Farnese dipinse la pala per S. Lorenzo in Damaso, già affidata a Taddeo: vi lavorava nel dicembre del 1568 quando Guidubaldo II della Rovere cercò di contattarlo per la propria cappella a Loreto (Gronau, 1936, p. 211). A novembre del 1568 (Luzi, 1866, p. 497) accettò di dipingere due grandi pale su pietra per il duomo di Orvieto, dove si recò nell’estate del 1570 e poi del 1571 (Gronau, 1936, pp. 212 s.); la Resurrezione del figlio della vedova di Nain (Orvieto, Museo dell’Opera) brilla per un’inedita espressione degli affetti in una scena corale di forte impatto emotivo.
In S. Caterina dei Funari affrescò le figure di due Evangelisti nei pilastri della Cappella Ruiz (firmati e datati 1571), e poi nel coro, con Raffaellino da Reggio, due storie della santa eponima pagate dall’aprile al novembre del 1572. Quell’anno Federico divenne reggente perpetuo della Compagnia dei Virtuosi al Pantheon (Tiberia, 2000, pp. 122 s.). Pare che Gregorio XIII pensasse di affidare a lui e a Vasari, ritenuti «de’ migliori de tempi nostri» (Sogliani, 2002, p. 172), alcuni riquadri nella sala Regia (assegnati poi al solo Vasari); in quel luogo, peraltro, Federico affrescò la scena di Gregorio VII che assolve Enrico IV sulla parete confinante con la Paolina (originariamente affidata a Taddeo), forse per lo stesso papa Boncompagni (Partridge-Starn, 1990, pp. 43 s., n. 39) o prima (Böck, 1997, pp. 165-167, n. 262; cfr. Acidini Luchinat, 1998-1999, I, p. 153). Nel 1573 datò la teatrale Flagellazione di Cristo (coronata dallo stemma di Girolamo Mattei) nell’Oratorio del Gonfalone, impresa decorativa patrocinata dal cardinal Farnese, ed eseguì affreschi (perduti) in S. Pietro in Vaticano.
L’11 giugno 1573 prese commiato dai confratelli Virtuosi del Pantheon (Tiberia, 2000, p. 126), e il 22 partì per Parigi al servizio del cardinale Carlo di Guisa (Moralejo, 2011, p. 31); vi arrivò il 24 agosto (Aurigemma, 1995, p. 213, A). Secondo il figlio Ottaviano (Moralejo, 2011, p. 32), il 14 agosto 1574 da Parigi andò ad Anversa arrivandovi il 20, e da lì partì il 16 marzo 1575 per l’Inghilterra, dove restò fino all’8 agosto. Portò con sé una lettera di Chiappino Vitelli, agente del granduca Francesco I, scritta ad Anversa il 15 marzo 1575 (Strong, 1959; Acidini Luchinat, 1998-1999, II, p. 56), affinché il conte di Leicester e la regina Elisabetta I lo favorissero. Dei ritratti di entrambi (Borghini, 1584, p. 573; Goldring, 2005) restano i disegni (Londra, British Museum, Gg I.-417-18), datati «1575» e «in londra magio 1575». Alla Steelyard Guildhall studiò in un disegno il Trionfo della Povertà e della Ricchezza di Hans Holbein.
Secondo Ottaviano (Moralejo, 2011, p. 32), Federico sostò ancora ad Anversa dal 18 al 30 agosto; quel giorno Vitelli gli consegnò una nuova lettera, questa volta indirizzata a Francesco I, caldeggiando la sua candidatura per la decorazione della cupola del duomo (lo aveva raccomandato al granduca già il 31 luglio: Crinò, 1961, pp. 156 s.).
Nell’ottobre del 1575, favorito anche da Bernardo Vecchietti, Federico ottenne a Firenze l’incarico di proseguire gli affreschi della cupola lasciati incompiuti alla morte di Vasari (1574). A novembre disegnava già i cartoni e il 30 agosto 1576 riaprì il cantiere. Il lavoro immane (svelato il 19 agosto 1579 e condotto con aiuti, quali il «carissimo discepolo» Passignano e Bartolomeo Carducho) iniziò «allegramente» ma finì per causargli molta amarezza per le critiche ricevute: «sonetti, canzoni et madrigali in biasmo del’opra mia» (cit. in Cavazzini, in c.d.s., p. 112). Le critiche si appuntavano su aspetti di leggibilità e decoro e su questioni tecniche, come la stesura a secco dei colori anziché a buon fresco (Gamberini, 2017); non è escluso che risultassero sgradite le audaci caricature nell’Inferno (memori degli affreschi di Luca Signorelli studiati a Orvieto e dell’arte d’Oltralpe conosciuta nei viaggi) o la scelta di ritrarre negli affreschi personaggi pubblici, amici e familiari, riflesso della tendenza di Federico a intrecciare arte e vita privata. Più di tutto, egli pagò l’essere forestiero, che suscitò, qui come altrove, diffidenza del pubblico e invidia dei pittori locali. Forse in risposta alle critiche, fece stampare una complessa allegoria, nota come Il Lamento della Pittura (Acidini Luchinat, 1998-1999, II, pp. 99-101; cfr. Thompson, 2008).
Nel soggiorno fiorentino instaurò un rapporto di emulazione-competizione con Vasari: si datano entro l’ottavo decennio alcune delle sue, talvolta velenose, postille alle Vite. Come Vasari, marcò la sua presenza in città con l’acquisto di una casa (23 gennaio 1577), scegliendo la dimora in via del Mandorlo che era stata di Andrea del Sarto, allora nume tutelare di una schiera di artisti intenti a superare la maniera vasariana; al revival sartesco partecipò studiando l’opera di Andrea (Spagnolo, 1998, p. 48) ed eleggendolo a maestro di suo padre. La casa (oggi del Kunsthistorisches Institut) è decorata all’esterno con bassorilievi simbolici delle tre arti del disegno; all’interno è riccamente affrescata con vivaci scene di vita quotidiana relative alle stagioni e con temi cari al pittore (quali la 'Verità rivelata dal Tempo', nonostante l’invidia dei calunniatori, e storie di Esopo), allusivi a questioni di meriti non riconosciuti e rivelazione d’innocenza.
Il soggiorno fiorentino fu interrotto da puntate a Roma (dove Federico è documentato il 4 dicembre 1575 e il 23 settembre 1578: Tiberia, 2000, pp. 131, 140) e a Urbino, dove il 12 ottobre 1578 sposò Francesca Genga. Il 15 agosto 1579 a Firenze nacque Ottaviano; seguirono Isabella, Alessandro Taddeo (che ebbe come padrino il cardinal Farnese), Orazio, Gerolamo, Cinzia e Laura (tutti ritratti nel palazzo romano e nella Pala Zuccari).
Il 13 dicembre 1579 a Roma fu riconfermato reggente dei Virtuosi al Pantheon e da lì innanzi è documentato quasi mensilmente alle riunioni della Compagnia, fino al 12 novembre 1581. Nei primi mesi del 1580 cominciò, per Gregorio XIII, la decorazione della cappella Paolina (iniziata da Michelangelo e continuata da Lorenzo Sabatini). Per il bolognese Paolo Ghiselli, scalco del papa, dipinse la Processione di s. Gregorio Magno per S. Maria del Baraccano a Bologna. Giuntavi nel dicembre del 1580, la pala (dispersa ma nota da incisioni) fu rifiutata e rispedita a Roma dopo il carnevale del 1581 con uno scritto anonimo che la biasimava, dettato da invidie e rivalità dei pittori bolognesi (Zapperi, 1991). Sentendosi ingiustamente criticato, Federico espose il 18 ottobre sulla facciata della chiesa di S. Luca all’Esquilino (non più esistente e appartenente all’Università dei pittori, di cui era allora console) un grande cartone allegorico-satirico contro i suoi detrattori, la Porta Virtutis (nota da una versione dipinta e da alcuni disegni). Ciò gli costò un processo (Bertolotti, 1876; Cavazzini, in c.d.s.) e il bando dallo Stato pontificio (27 novembre). Si rifugiò a Firenze fino al gennaio1582; invano cercò di ottenere la grazia tramite Francesco I, il cardinal Farnese e il duca d’Urbino.
Il 2 febbraio era a Venezia (da dove scrisse ai confratelli del Pantheon: Tiberia, 2000, p. 165); nella sala del Maggior Consiglio dipinse non già l’agognato Paradiso, affidato al rivale Tintoretto, ma Federico Barbarossa e Alessandro III, omaggio all’arte veneta nella luce tersa e nelle cromie brillanti. Da Venezia raggiunse Augusta, in cui si teneva la Dieta dell’Impero germanico (Gronau, 1936, p. 215). A novembre era a Pesaro: Francesco Maria II della Rovere, infatti, ottenne dal papa che Federico rientrasse nello Stato della Chiesa per decorare la sua cappella alla S. Casa di Loreto. Gli affreschi lauretani (1583) riflettono un momento di raro equilibrio: suggestioni raffaellesche e venete vi convivono pacificamente ritessendo in una nuova, pacata trama invenzioni precedenti.
Ottenuta la grazia del papa, Federico riprese i lavori alla Paolina dal dicembre del 1583 fino alla morte di Gregorio XIII (aprile 1585).
Il 13 maggio 1584 rinunciò alla carica di reggente dei Virtuosi al Pantheon: la sua inadempienza nel pagare la rendita per cui si era impegnato nel 1573 aveva infatti generato, fin dal 1582, un contenzioso che si protrasse al 1585 inoltrato, coinvolgendo anche il cardinal Ferdinando de’ Medici, protettore della Compagnia.
Nel settembre del 1585 lasciò Roma: il 13 dicembre era a Madrid, la lunga trattativa per chiamarlo in Spagna (Brunner, in Federico Zuccari, 2000) era iniziata nel 1579 e aveva contemplato anche la chiamata di Veronese (Puppi, 2007). Filippo II lo accolse «come figliolo» e gli affidò il retablo mayor all’Escorial, i dipinti per gli altari-reliquari dell’Annunciazione e di s. Girolamo e gli affreschi nel chiostro grande. Inizialmente apprezzate, le opere suscitarono poi «malignità di giudizi» (l’11 novembre del 1588 Hans Khevenhüller scriveva che il lavoro di Federico era quasi finito ma non apprezzato): nel novembre del 1589 si diceva che le sue opere «si buttaranno giù, o tutte o la maggior parte […] per difetto di esse o dei gusti di qua» (Gronau, 1936, p. 223); alcune furono «corrette» da Juan Gómez, gli affreschi parzialmente ridipinti. Le critiche, in parte pubblicate nel 1605 dal bibliotecario dell’Escorial, Fray José de Sigüenza, riguardavano aspetti di iconografia e decoro come per altre opere commissionate dal Re cattolico.
Il soggiorno in Spagna fu peraltro stimolante e prolifico: Federico lavorò alle immaginifiche illustrazioni della Divina Commedia (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi), visitò varie città, vivacemente descritte nelle sue lettere, incontrò amici come Pablo de Céspedes ed El Greco, al quale regalò le Vite di Vasari con alcune sue postille. Alla sua partenza il re gli donò una medaglia, una catena d’oro e un vitalizio di 200 scudi. Il 6 maggio del 1589 era a Napoli, da cui si recò a Pozzuoli per delle cure.
Forte dei recenti introiti, a luglio acquistò una casa a Roma e il 18 aprile del 1590 un terreno sul Pincio. Nel 1591 ottenne la cittadinanza romana e il titolo di patrizio; nel 1593 fu consacrato principe dell’Accademia di S. Luca (sotto il protettorato del cardinale Federico Borromeo). Sul Pincio fece erigere un palazzetto, inteso come dimora e studio (oggi sede della Bibliotheca Hertziana), che lo occupò per almeno un decennio: liberi da dettami della committenza, gli affreschi delle sale traducono in uno stile sereno e omogeneo temi cari a Federico: l’esaltazione dei familiari (ritratti con quella freschezza che hanno i suoi straordinari Porträtstudien: Graf, in Der Maler Federico Zuccari, 1999), la celebrazione e l’ascesa dell’artista virtuoso, insieme a dotte allegorie e invenzioni che riflettono gli scambi con Doni, Vasari e Pierleone Casella e i concetti di universalità del Disegno e innalzamento verso l’Idea espressi nei suoi scritti. Sebbene questo suo «capriccio poetico» l’avesse «disviato quasi in tutto dalla sua professione» (Gronau, 1936, p. 226), e nonostante l’attività all’Accademia, nel suo ultimo decennio romano Federico riuscì a dipingere varie opere e ad affrescare con aiuti dapprima la cappella Vettori al Gesù e poi, nel 1600, quella Bernieri in S. Sabina. In entrambe il suo stile si accostò alle esigenze di semplificazione e suasiva comunicazione della pittura riformata.
Morta sua moglie nel 1601, Federico lasciò definitivamente Roma nel giugno del 1603, proprio quando il corso dell’arte era stravolto dalle novità di Annibale Carracci e di Caravaggio, che egli forse stentò a capire: il suo presunto commento su quest’ultimo («non ci vedo altro che il pensiero di Giorgione», Baglione, 1642, p. 137) rivela, però, l’intuizione di quell’affinità fra i due pittori a «cacciar negli scuri» che egli, forte delle esperienze veneziane, poteva cogliere meglio di altri.
Si fermò quindi a Sant’Angelo in Vado, dove licenziò un ultimo omaggio alla propria famiglia (Pala Zuccari); per alcuni mesi, fino al febbraio del 1604 (Gronau, 1936, p. 230), fu a Venezia, dove perfezionò «l’opera nel Gran Consiglio» (firmata, datata «1582 / PERFECIT AN. 1603» e con il suo emblema, un pan di zucchero gigliato), ottenendone in premio una collana d’oro e il titolo di cavaliere. Da lì si diresse verso Milano, con soste a Padova, Vicenza, Verona, Mantova «a rivedere le belle opere di Giulio Romano», e a Cremona quelle «del Pordenone e dei Campi», fermandosi quindi a Pavia ad affrescare il Collegio Borromeo (F. Zuccari, Il passaggio per l'Italia…, 1608, p. 3 s.); prima di lui il cardinal Borromeo aveva invano provato ad assumere altri pittori, fra cui Guido Reni (Berra, 2013). Cesare Nebbia lavorò con lui e insieme visitarono la Certosa, Milano e il Monte di Varallo. Un ritratto di Fede Galizia (Uffizi) si data a questo periodo: Federico ostenta al collo tre medaglie donategli per i suoi servigi da Filippo II, dalla Serenissima e dal cardinal Borromeo.
Il 22 dicembre era a Mantova presso Vincenzo Gonzaga, il quale lo mandò il 1° luglio del 1605 alla corte sabauda. Carlo Emanuele I gli affidò la decorazione della Grande Galleria di Palazzo Ducale: l’ambizioso progetto, una glorificazione dei Savoia con «un compendio di tutte le cose del mondo», subì varie modifiche e fu poi terminato da altri, infine distrutto da un incendio (1659). Dal novembre del 1607 al giugno del 1608 fu a Parma, quindi a Correggio, Reggio, Modena, Bologna (a giugno), Firenze (17 ottobre-9 novembre), Urbino e di nuovo a Bologna da cui partì il 17 gennaio 1609 per Ferrara (dove il 22 febbraio apprese delle critiche ai suoi lavori spagnoli pubblicate da «quel temerario calunniatore» di Sigüenza: Gronau, 1936, p. 236). Da lì partì il 22 aprile per Ravenna e Urbino.
Morì il 20 luglio del 1609 ad Ancona, soccorso da Cristoforo Roncalli, che là si trovava; al suo funerale fu «honorato di scriti di bonissimi literati» di cui i Virtuosi al Pantheon, che lo commemorarono il 9 agosto, cercarono di avere copia per serbarne «gloriosa memoria» (Orbaan, 1915, pp. 36 s.).
Nel suo testamento (Sant’Angelo in Vado, 12 ottobre 1603: Lanciarini, 1893) chiedeva di non vendere il palazzo romano, destinandolo a «ricetto di Accademia» per gli artisti e «ospizio per i giovani […] stranieri e forestieri che vengono senza recapito» (com’era accaduto a Taddeo, la cui esemplare Vita per immagini doveva ornare una sala del palazzo). Il 14 gennaio del 1614 il palazzo fu venduto; stilato l’inventario dei beni (Körte, 1935, pp. 82 ss.), le sue opere furono offerte in vendita dal figlio Ottaviano al duca d’Urbino.
Federico fu anche scrittore e teorico d’arte (per una sintesi: Acidini Luchinat, 1989-1999, II, pp. 273-291), come testimoniano i discorsi all’Accademia di S. Luca editi da Romano Alberti, Origine et progresso dell’Academia… (Pavia, Bartoli, 1604, con dedicatoria al cardinal Borromeo datata 1599); la Lettera a’prencipi […] Con un Lamento della pittura (Mantova, Osanna, 1605); l’ambizioso L’idea de’ pittori, scultori et architetti (Torino, Disserolio, 1607, dedicata al duca di Savoia), in cui espresse una complessa architettura teorica dell’idea del Disegno, e Il passaggio per l’Italia con la dimora di Parma (Bologna, Cocchi, 1608). Il suo corposo epistolario, in una scrittura non sempre corretta, ha spesso quella felice vena narrativa che si ritrova negli affreschi delle sue case, nei suoi Reisezeichnungen (Heikamp, in Der Maler Federico Zuccari, 1999) e nella Vita di Taddeo per immagini, corredata da terzine e intrisa di topoi del genere biografico, nonché probabilmente ispirata al Lazzarillo de Tormes. Le sue postille alle Vite di Vasari, redatte in tre distinti volumi (non uno o due, come spesso si legge), rivelano, dietro la vis polemica, una ricca cultura artistica, costantemente nutrita dai suoi tanti viaggi.
I suoi molti rapporti con i letterati gli permisero di esporre una conferenza a Parma all’Accademia degli Innominati (1608) e di far parte, a Perugia, dell’Accademia degli Insensati, con il nome «il Sonnacchioso» (Teza, 2017). Costante fu il suo impegno per elevare intellettualmente e socialmente la professione dell’artista: dall’attività all’Accademia di S. Luca, alla decorazione e destinazione del suo palazzo, ai suoi scritti (nella Lettera esortava i Prencipi d’Italia a istituire pubbliche accademie d’arte). Secondo Giovanni Baglione (1642, p. 125) non vi fu «più fortunato pittore con tanti guadagni, e più da’ principi amato con tanti honori» ma «dalla fortuna sì mal trattato»; la sua attività fu infatti minata da conflitti con colleghi e committenti che condizionarono anche la sua reputazione: la stroncatura di Tintoretto nel Lamento ispirò presto (Gigli, 1615, p. 26; Spagnolo, 1996, pp. 67 ss.) un ritratto di Federico come artista «d’invidia gonfio», incapace e maledico, giudizio poi rafforzato da Marco Boschini (1660, p. 355).
R. Alberti, Origine et progresso dell’Academia…, Pavia 1604 (contenente i discorsi all'Accademia di S. Luca di Federico Zuccari); Lettera a’ prencipi et signori amatori del dissegno, pittura, scultura et architettura […] Con un Lamento della pittura, Mantova 1605; L’idea de’pittori, scultori et architetti, Torino 1607; Il Passaggio per l’Italia con la dimora di Parma, Bologna 1608: sotto questo titolo sono raccolti due o più opuscoli ciascuno con propria impaginatura: Diporto per l’Italia a […] Pierleone Casella (qui cit.); Diporto per l'Italia a […] Gio. Bologna scultore; Al […] Sig. Federico Barocci; La dimora di Parma a […] Pierleone Casella; Passata di Bologna e Ferrara […] a Pierleone Casella; L’arrivata in Ferrara: v. Heikamp, 1958b; Memoriale per la riforma dell’insegnamento dell’Accademia a Firenze, copia in Biblioteca nazionale centrale di Firenze, ms. II.IV.311, cc.134r-136v (Heikamp, 1957); Cartone di un pittore per rappresentar la virtù contra gl’ignoranti, Biblioteca apostolica Vaticana, ms. Vat. Lat. 7031, c. 276r-v (Heikamp, 1958a); Postille alle Vite di Vasari in tre volumi: uno già di Alessandro Saracini a Siena, consultato da G. Milanesi (F. Zuccari, in Vasari, 1881, VI, p. 587; VII, pp. 19; 58; 63; 70; 73-131); uno a Parigi, Bibliothèque national, Rés. K 742 (Hochmann, 1988); uno già di El Greco (Marias - De Salas, 1992).
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