FEGATO e vie biliari (fr. foie, voies biliares; sp. hígado, conducto biliar; ted. Leber, Gallengange; ingl. liver, bile duct)
È una ghiandola annessa all'intestino; la più grossa del corpo; riversa il suo secreto in un complesso sistema di canali denominati vie biliari; esse sono costituite dapprima dai sottili dotti biliferi, anastomizzati a rete, che fanno capo al condotto epatico; lungo il tragitto di quest'ultimo sbocca il condotto cistico, che è il canale escretore del serbatoio della bile o cistifellea; per la confluenza dei dotti epatico e cistico si costituisce il canale coledoco, che sbocca nel duodeno. Il fegato è posto nella parte più alta della cavità addominale, per tre quarti a destra, al disotto del diaframma, al disopra dello stomaco e dell'intestino (v. digerente, apparato).
Sin dalle epoche più remote della storia assiro-babilonese, il fegato fu considerato come la parte più importante delle interiora delle vittime sacrificate, dal punto di vista della divinazione: si hanno infatti testi divinatorî basati sull'osservazione del fegato che risalgono alla dinastia di Agade (Sargon I e Naram-Sin, secoli XXVII-XXVI a. C.). Il fegato era considerato come la sede della vita, e questa concezione durò sino all'inizio dei tempi moderni. Anche presso gli Hittiti, e poi gli Etruschi e i Romani il fegato fu usato a scopi divinatorî (v. etruschi). Per facilitare l'osservazione dei segni del fegato se ne preparavano modelli con l'indicazione delle parti e dei significati corrispondenti. Di tali modelli sono pervenuti sino a noi esemplari babilonesi, hittiti ed etruschi.
Fisiologia. - La mole stessa di questa che è la più voluminosa ghiandola dell'organismo, il cui peso rappresenta da 2 a 4% del peso del corpo, è indizio dell'importanza e della molteplicità delle sue funzioni. Spettano infatti al fegato funzioni regolatrici del metabolismo dell'emoglobina, dei carboidrati, dei grassi e dell'acqua. Esso fabbrica la bile, il fibrinogeno del sangue, una sostanza anticoagulante; nei Mammiferi fabbrica l'urea e in alcuni di essi ossida l'acido urico, mentre fabbrica acido urico negli Uccelli. Ha inoltre una funzione disintossicante e una cardiocinetica.
La soppressione del fegato non è compatibile con la vita, ma fu possibile tuttavia sospenderne temporaneamente le funzioni escludendolo dalla circolazione portale. Infatti, dal sangue della vena porta, proveniente dall'intestino, il fegato trae il materiale da elaborare, mentre il sangue dell'arteria epatica non gli vale che per l'ossigeno che gli arreca. Quando dunque si faccia imboccare la vena porta direttamente nella vena cava ascendente, così da escludere il fegato dal circolo portale (fistola di G. W. Eck, perfezionata in vario modo da G. B. Queirolo, da I. Tansini e da A. Perroncito), verranno a mancare alla ghiandola le sostanze da elaborare. Le funzioni del fegato furono anche studiate col metodo della circolazione artificiale di sangue nell'organo isolato. Con questo metodo G. Embden e la sua scuola indagarono come si formino nel fegato i corpi chetonici che si ritrovano nel sangue e nell'urina dei diabetici; altri studiò la produzione dell'urea, la formazione e l'ossidazione dell'acido urico, nonché la sintesi o la distruzione del glicogeno; altri scoprì che il fegato libera una sostanza capace d'eccitare la funzione cardiaca e che trasforma i grassi alimentari con un processo di desaturazione che li rende più adatti ai processi d'assimilazione. Col metodo della circolazione artificiale si perfezionarono le conoscenze derivanti dalle classiche ricerche di C. Bernard sulla formazione del glicogeno (glicogenesi) e sulla sua distruzione (glicogenolisi). Il glucosio presente nel sangue portale e proveniente dalla digestione pancreatico-intestinale dei carboidrati, subisce nel fegato un processo di polimerizzazione che consiste nella saldatura di parecchie molecole di esso con perdita d'acqua, onde deriva il glicogeno, cioè un saccaride complesso (polisaccaride) che fu chiamato amido animale e che s'immagazzina nelle cellule epatiche. Esso si scinde nuovamente nella più semplice molecola di glucosio quando lo richiedono i bisogni dell'organismo, cioè quando occorre questo combustibile facile a ossidarsi e perciò capace di fornire molta energia. Ciò avviene nell'intenso lavoro muscolare, o per processi febbrili, o nel digiuno, quando l'organismo ricorre al consumo delle riserve (glicogeno e grasso). I due fenomeni inversi della sintesi e della scissione del glicogeno nel fegato, che sembrano rispondere intelligentemente a due opposte necessità dell'organismo, quella d'immagazzinare riserve e quella di consumarle, sono governati dal giuoco alterno e antagonista dell'insulina che è l'ormone pancreatico, e dell'adrenalina che è l'ormone surrenale. C. Bernard scoprì che v'è una regione del 4° ventricolo nel bulbo o midollo allungato, pungendo la quale s'origina un diabete transitorio, cioè la tumultuaria scissione del glicogeno epatico in glucosio, e il passaggio di questo dal sangue nell'urina. Ciò prova che i processi della sintesi e della scissione del glicogeno sono controllati dal sistema nervoso, ma si ritiene oggi che la puntura di C. Bernard mobilizzi il glicogeno epatico in quanto determina una più abbondante secrezione d'adrenalina, cioè l'ormone che attiva la scissione del glicogeno. Operando la circolazione artificiale nel circolo portale del fegato, si può provocare la formazione del glicogeno se il sangue circolante è ricco di glucosio e contiene insulina. In questo caso il sangue che esce dalle vene sopraepatiche è più povero di glucosio di quello che era entrato nel fegato per la vena porta. Se invece il sangue che s'immette nella vena porta è povero di glucosio e privo d'insulina, e più ancora se contiene adrenalina, esso uscirà dalle verie sopraepatiche arricchito del glucosio dovuto alla scissione del glicogeno epatico (J. De Mayer, N. Bindi). Tanta importanza ha il fegato nella regolazione del metabolismo dello zucchero, che i sintomi gravi e mortali (convulsioni) conseguenti all'estirpazione del fegato, sono in gran parte dovuti alla grave ipoglicemia prodotta dalla mancanza dell'organo. Il fegato umano può immagazzinare fino a 150 gr. di glicogeno.
Nell'uomo e in molti altri Mammiferi il fegato ha tra le sue principali funzioni quella d'elaborare gli amminoacidi provenienti col sangue della vena porta dalla digestione pancreatico-intestinale delle sostanze proteiche. In parte essi vengono risintetizzati a formare nuove albumine, in parte dànno origine ad ammoniaca che serve alla sintesi dell'urea. Ciò avviene quando il ricambio è ureotelico, com'è nell'uomo. Negli Uccelli invece esso è uricotelico e cioè, invece d'urea, il fegato fabbrica acido urico. L'utilizzazione dell'ammoniaca per formare urea o acido urico, sottrae all'organismo l'eccesso d'alcali e contribuisce a mantenere la neutralità del sangue. Il fegato del cane, lungi dal produrre acido urico, ha il potere d'ossidarlo in allantoina, che è prodotto più facilmente solubile ed eliminabile. Perciò il cane non ammala d'iperuricemia e di gotta, mentre ne ammala l'uomo il cui fegato non è capace d'ossidare l'acido urico.
L'azione antitossica del fegato si manifesta col potere che esso ha di fissare e di trasformare molti veleni inorganici e organici, soprattutto quando essi, provenienti dall'intestino, giungono al fegato col sangue della vena porta. Questo reca al fegato anche alcuni composti aromatici derivanti dalla scissione putrefattiva delle albumine nel lume intestinale (fenoli), sostanze che s'accoppiano nel fegato con l'acido glicuronico o con l'acido solforico, formando composti coniugati che poi vengono eliminati dal rene. Così è dell'indacano urinario derivante dall'indolo formatosi nell'intestino quando v'abbondano i processi putrefattivi.
Il fegato ha stretti rapporti con la coagulazione del sangue, sia perché fabbrica il fibrinogeno, ossia la proteina che si trasforma in fibrina o coagulo; sia perché prepara una sostanza anticoagulante che venne isolata e a cui fu dato da Howell il nome di eparina.
Il fegato regola l'assorbimento dell'acqua dall'intestino, trattenendola e rilasciandola gradualmente, così che non se ne riversi un eccesso nel sangue.
La virtù della cura epatica contro l'anemia perniciosa progressiva sembra dovuta alla presenza nel fegato di sostanze necessarie alla costruzione della molecola emoglobinica. Ma forse tali sostanze vengono portate al fegato dal sangue portale, e si trovano anche in altri tessuti che possiedono pure una spiccata azione antianemica.
Certo è, invece, che nel fegato vengono distrutti i globuli rossi vecchi e già indeboliti dal passaggio nella milza, e che il fegato utilizza l'ematina, che è il componente ferruginoso dell'emoglobina, liberandola dal ferro e trasformandola in ematoporfirina e quindi in bilirubina, ossia nel pigmento biliare.
Il fegato dell'uomo elabora giornalmente circa 12,5 gr. d'emoglobina per fabbricare circa mezzo grammo di pigmento biliare. Da questo processo di trasformazione risulta libero il ferro e si ritiene che il fegato lo immagazzini così da costituirne la riserva per l'organismo. Certo ha grande importanza la riserva marziale che si va costituendo nel fegato fetale, perché essa serve a fornire il ferro per la fabbrica dei globuli rossi per tutto il tempo durante il quale il neonato s'alimenterà soltanto di latte, che è alimento poverissimo o privo di ferro.
Oltre al pigmento il fegato elabora gli altri componenti della bile (v.). La colecistografia (v.) ha permesso anche di studiare la normale mobilita della cistifellea, che viene eccitata da molti alimenti e che ha per scopo di provocarne lo svuotamento periodico. Questo viene agevolato dalla pilocarpina e dall'ipofisina, mentre l'adrenalina non ha influenza alcuna e l'atropina arresta le contrazioni della cistifellea. Queste prove farmacologiche confermano il fatto che il nervo motore delle vie biliari è il vago.
Fisiopatologia. - Le alterazioni epatiche (v. sotto) non possono non influire in vario senso sulle funzioni dell'organo ora esagerandole, talora traviandole, più spesso inibendole. Tuttavia, nonostante questa certezza, non è ancora ben noto il modo e il grado col quale avvengono queste variazioni. La funzione assimilatrice del fegato in rapporto agl'idrati di carbonio (funzione glicogenetica), ai grassi e ai proteidi sembra venga facilmente abbassata quando l'organo è in qualunque modo alterato. Altrettanto si dica della funzione svelenatrice e delle azioni sintetiche (dell'acido urico) e analitiche (dei peptoni, degli amminoacidi), a cui il fegato è deputato. Le variazioni funzionali epatiche meglio note sono invece quelle riguardanti la sintesi dell'urea e quelle delle funzioni connesse con la biligenesi. Nei riguardi della sintesi dell'urea, si sa che quest'importantissima funzione è provvidenzialmente conservata all'organo, se pure con sensibili diminuzioni, anche negli stati d'alterazione più gravi, tanto che si ha la morte dell'individuo prima che essa vada totalmente soppressa. Per quanto riguarda invece le funzioni connesse con la biligenesi, sembra che esse, non solo siano conservate anche negli stati di più grave alterazione del fegato, ma che in molte malattie dell'organo si abbia addirittura, un'esagerazione delle funzioni stesse. A tale conclusione taluni sarebbero tratti dal fatto che l'itterizia (stato caratterizzato dalla presenza in circolo dei principî costituenti la bile) non solo si manifesta quando, a fegato integro, la bile è impedita meccanicamente di defluire nell'intestino e quindi è riassorbita, ma accompagna anche le epatiti sia semplici sia degenerative, ciò che viene interpretato come la conseguenza di un'iperproduzione di bile (ipercolia) o almeno d'alcuni suoi componenti (pleiocolia); questa bile, non potendo trovare sfogo attraverso le vie escretrici dell'organo, viene riassorbita e portata nel sangue. Non tutti però accettano quest'interpretazione, tanto più che l'itterizia può manifestarsi anche in stati morbosi che non riguardano direttamente il fegato e ammettono che l'ittero compaia nelle malattie epatiche non perché l'organo alterato esageri la sua funzione biligenetica, ma perché esso, appunto perché alterato, non è capace d'eliminare i principî della bile, in particolare gli elementi più caratteristici di essa, i pigmenti biliari, che esistono preformati nel sangue. Secondo queste ultime vedute non si ha nelle malattie epatiche un'esagerazione della funzione biligenetica, ma solo il ristagno e quindi l'accumulo in circolo d'alcuni costituenti biliali e precisamente di quelli (pigmentí) che il fegato non fabbrica ma è solo destinato a eliminare. L'itterizia sarebbe pertanto di doppia origine e cioè da riassorbimento di pigmento biliare solo quando la bile è impedita di defluire nell'intestino, ma il fegato è integro, e da mancata eliminazione del pigmento stesso in tutti gli altri casi (v. ittero).
Semeiologia. - Già l'ispezione può dimostrare l'ingrandimento del fegato, se esso è notevole, e rivelarne anche taluni caratteri; l'ispezione inoltre, qualora dimostri l'esistenza di circolazione collaterale cutanea o la colorazione itterica o subitterica della cute, richiama senz'altro l'attenzione dell'osservatore sul fegato e sulle vie biliari.
La percussione determina il limite superiore dell'ottusità epatica, che si trova sulla linea parasternale e sull'emiclaveare al 5° spazio intercostale, sull'ascellare anteriore alla VII costa, sull'ascellare media all'VIII, sulla posteriore alla IX e sulla scapolare alla X costa; questo limite si sposta con gli atti respiratorî. Il limite inferiore è all'arco costale, e s'apprezza soprattutto con la palpazione; questa si fa a paziente in decubito supino, cosce semiflesse, o a paziente in posizione seduta o semiseduta; può eseguirsi unio bimanuale, la mano sinistra essendo posta all'angolo costo - vertebrale. La palpazione oltre che informare sul volume, sulla forma, sulla consistenza del fegato, sulla dolorabilità, può anche farci avvertiti sulla forma, volume e dolorabilità della cistifellea, che s'esplora affondando le dita sotto l'arco costale press'a poco al punto ove il margine del grande retto anteriore incontra il margine costale. Essa può però palparsi più in fuori, specialmente se ingrandita; altre volte invece la palpazione rivela il punto doloroso colecistico più medialmente. La manovra di Murphy, che consiste nel portare le dita flesse sotto l'arco costale e fare una profonda inspirazione, è un ottimo mezzo per saggiare la dolorabilità della regione vescicolare (dolore inspiratorio; fig. 5).
L'esame radiologico della regione epatica è pure un mezzo per dimostrare le condizioni di forma e di volume del fegato; in casi non frequenti può rivelare nella cistifellea calcoli particolarmente ricchi di calcio. Per l'esplorazione radiologica della colecisti occorre però la somministrazione per bocca o per via endovenosa di tetraiodofenolftaleina (colecistografia; v.); la permeabilità o l'occlusione del cistico è così messa in evidenza, e nel primo caso si può rilevare forma, volume, contrattilità, modo e tempo di svuotamento, contenuto eventuale di calcoli nella cistifellea.
L'esplorazione funzionale del fegato ha lo scopo di studiare le modificazioni che nelle funzioni dell'organo possano avere indotto particolari condizioni morbose, sia del fegato, sia altrove localizzate. Essa però non è basata su prove di valore diagnostico sicuro e tanto meno assoluto.
La funzione glicogenetica può essere esplorata con la prova della glicosuria alimentare, che studia l'eliminazione del glucosio con l'urina dopo ingestione di 50-100 gr. della sostanza, eliminazione che manca nell'individuo normale; e con la prova della glicemia alimentare, in quanto la curva glicemica fa una parabola più lunga in caso d'insufficienza glicogenetica, per il protrarsi dell'iperglicemia alimentare di là dalla quarta ora. Anche la levulosuria e la galattosuria alimentari sono ritenute buoni metodi d'esplorazione funzionale. La variabilità del coefficiente individuale d'utilizzazione degl'idrati di carbonio rende tuttavia relativo il valore di dette prove.
La funzione ureopoietica è pure difficilmente esplorabile perché non il solo fegato partecipa al metabolismo delle sostanze proteiche. Comunque essa può essere esplorata con la ricerca dell'azoturia, in quanto l'ipoazoturia può essere segno d'insufficienza epatica; in particolare lo è l'abbassarsi del rapporto azoturico (fra azoto ureico e azoto totale), che normalmente è 0,82%. Possono anche essere ricercati l'aumento dell'ammoniuria e l'aumento dell'amminoaciduria, sia spontanea sia provocata.
L'urobilinuria è un segno importante di disfunzione epatica, per quanto anch'esso non assoluto; tuttavia va sempre ricercato nelle malattie del fegato e delle vie biliari. La ricerca dei pigmenti biliari nelle feci, e in particolare del bilinogeno e della stercobilina, se negativa, ci dimostrerà che la bile non si versa nell'intestino.
Una prova della funzionalità epatica cui molti dànno un certo valore è quella della glicuronuria provocata (C. A. Roger) che consiste nel determinare la quantità d'acido glicuronico che è eliminata con le urine dopo ingestione di 50 cgr. di canfora. La glicuronuria, normalmente intensa dopo tale somministrazione, è debole o anche assente se la funzionalità del fegato è alterata.
La prova dell'emoclasia digestiva (E. Widal e collaboratori) consiste nel constatare la comparsa d'una "crisi emoclasica" (leucopenia, abbassamento della pressione sanguigna, aumento della coagulabilità del sangue) dopo ingestione a digiuno di sostanze azotate (200 gr. di latte). Il concetto del Widal è che se la funzione proteopessica del fegato è alterata, le albumine alimentari incompletamente da esso trasformate si comportano come albumine eterogenee introdotte per via parenterale e provocano uno shock rilevabile con le ricerche suddette; concetto che se anche solo parzialmente esatto, perché sulla crisi emoclasica influiscono molteplici fattori estranei allo stato funzionale del fegato, pur tuttavia non infirma gran che il valore clinico della prova (L. D'Amato).
Così pure hanno valore relativo i metodi di cromocoloscopia, basati sul momento di comparsa nella bile, ottenuta col sondaggio duodenale, di sostanze coloranti varie iniettate sottocute o nelle vene; tali il blu di metilene, che F. Castaigne ricercava anche nelle urine non tenendo conto che eventuali turbe renali possono alterare i risultati, la tetraclorofenolftaleina (Abel e Rowntree), l'indacocarminio (Hatziegann e Lepehne), il rosso congo (Rosenthal), l'azorubina S. (Yoshenori Tada e Kokichy Nakashima). Il rosa bengala (Fiessinger e Walter) va invece ricercato colorimetricamente nel sangue. Il salicilato di soda (Roch e Schiff, Gambillard) è sostanza la cui eliminazione per le urine dimostra pure insufficienza epatica.
La ricerca della bilirubina nel siero di sangue (H. v. den Bergh) è interessante perché può rilevare un ittero latente e darci note differenziali fra itteri emolitici e itteri da stasi; così pure può essere utile il dosaggio della bilirubina e dell'urobilogeno nella bile estratta con sondaggio duodenale. La stessa bile deve poi essere studiata nei riguardi del suo contenuto in elementi morfologici, in muco, in cristalli di colesterina, in batterî, ogni volta che sia necessario rendersi conto di condizioni patologiche delle vie biliari.
Tutte codeste ricerche, e altre ancora che si potrebbero citare, sono valse ad allargare notevolmente le conoscenze di fisiologia e fisiopatologia del fegato nell'uomo, se anche non sempre, ai fini pratici, hanno raggiunto l'importanza che le conoscenze di fisiologia sperimentale lasciavano sperare.
Patologia. - Da queste premesse di anatomia, di fisiologia e di fisiopatologia si comprende quanto varî e complessi possano essere i quadri morbosi che si svolgono a carico del fegato e delle vie biliari. Particolarmeute a carico del sistema circolatorio sono le congestioni attive, epifenomeno d'un'infezione o di un'intossicazione (amebiasi, alcoolismo, ecc.), o in rapporto a disordini dietetici, o alla dilatazione dello stomaco, o alla stasi intestinale cronica e quelle passive, caratterizzate dal cosiddetto fegato da stasi (v. sotto), sindrome risultante dall'ipertensione nelle vene sopraepatiche nelle affezioni cardiache che s'accompagnano a una stasi precoce del sangue venoso nell'orecchietta destra (v. asistolia; cardiaci, vizî). Nell'ipertensione venosa portale, come si ha tipicamente nella cirrosi, i complessi disturbi sono dovuti alla congestioue dei rami venosi dai quali s'origina la vena porta, donde il sintomo più cospicuo, l'ascite (v.), oltre alla splenomegalia, i disturbi gastro-intestinali, l'ipertensione venosa, le emorroidi, ecc.; all'ipotensione arteriosa e alla congestione porto-renale (anisuria, opsiuria, oliguria); alle anastomosi porto-cave (congestione polmonare, pleurite, circolazione collaterale delle pareti toracica e addominale). Raro è l'aneurisma dell'arteria epatica, a decorso latente o con sintomi funzionali (dolore, emorragia, ittero). Col termine pileflebite si comprendono le affezioni infiammatorie, trombosanti adesive o suppurative del tronco o delle branche d'origine della vena porta.
La ritenzione nell'organismo dei principî costitutivi della bile è causa dell'ittero; ciò può avvenire per meccanismi patogenetici diversi: in contrapposto agl'itteri emolitici risultanti da un'esagerata distruzione dei globuli rossi, senza alterazione del fegato, né delle vie biliari, sono gl'itteri dovuti alle alterazioni delle vie biliari o delle cellule epatiche. Allo studio degl'itteri è strettamente connesso quello della Spirochetosi ittero-emorragica (v.) nelle sue diverse forme.
Un gruppo importantissimo d'affezioni epatiche è costituito dalle cirrosi (v.) e in generale dalle epatiti (v. sotto) che si distinguono in tossiche (cloroformio, piombo, alcool, ecc.) e infettive (d'origine venosa, arteriosa, linfatica, portale, coledocica), dovute alla penetrazione dell'agente microbico, o delle sue tossine, o all'irruzione secondaria di germi saprofiti. All'infiammazione può seguire la fusione purulenta, donde la formazione dell'ascesso epatico (v. sotto) frequente nell'amebiasi (v.). Si possono avere lesioni specifiche del fegato da tubercolosi e da sifilide. Oltre a fenomeni infiammatorî si possono avere nel fegato fenomeni a tipo degenerativo e necroticodegenerativo quali l'atrofia gialla acuta (v. atrofia). Dei parassiti del fegato, il più importante per le sue manifestazioni cliniche è l'echinococco (v.). Per i tumori, v. sotto.
Le affezioni più importanti delle vie biliari sono la litiasi biliare (v. calcolosi), l'angiocolite (v.), la colecistite (v.); le malattie parassitarie (ascaride, lamblia), i tumori (cancro dell'ampolla di Vater, della vescicola, dei dotti biliari).
Per le affezioni del peritoneo periepatico v. peritoneo. Per le affezioni del fegato secondarie ad altri stati morbosi, v. le singole voci: malaria; leucemia; amiloidosi, ecc. Per le affezioni del fegato di spettanza chirurgica, v. sotto: chirurgia. Per la ptosi del fegato v. splancnoptosi. Per i metodi d'esame fisico, radiologico, funzionale del fegato, v. sopra: Semeiologia. Ci siamo limitati a riassumere i più importanti quadri morbosi della patologia epatica rinviando alle singole voci particolari di patologia e di terapia, nonché alle estese trattazioni che seguono d'anatomia patologica e di chirurgia. Nei cenni di semeiotica sono ricordate le prove più importanti dirette a stabilire il grado della cosiddetta insufficienza epatica, saggiando le singole funzioni del fegato. Il complesso di queste ricerche, assai interessanti benché non abbiano condotto ancora a risultati definitivi, è stato riassunto da G. Antonelli (Insufficienza epatica, in Boll. e Atti dell'Accademia Lancisiana, 1930, fasc. unico).
Da un punto di vista pratico è bene ricordare che in presenza di un fegato piccolo, esclusa la possibilità d'errore con un fegato respinto in alto (meteorismo, ascite) o ruotato indietro, l'atrofia acuta passeggera è in rapporto a una colica saturnina, quella progressiva, all'ittero grave (atrofia gialla acuta); l'atrofia cronica all'ipoalimentazione (stenosi esofagea, pilorica) e più spesso alla cirrosi atrofica di Laënnec (ascite, fegato duro granuloso, splenomegalia). In presenza, invece, d'un fegato grande, esclusa la possibilità d'errore con una ptosi epatica (specialmente se una pleurite o un idrotorace a destra non permettano di stabilire il limite superiore del fegato), quando si tratterà d'affezione acuta con febbre elevata si sospetterà un'epatite amebica, o un ascesso (dolore alla pressione, dissenteria precedente), oppure la presenza di ascessi miliari multipli da angiocolite suppurata (precedenti litiasici), o un fegato infettivo; quando l'aumento di volume è transitorio si penserà al fegato cardiaco (se coesistono segni d'iposistolia), il quale ritorna nei suoi limiti col regolarizzarsi della funzione cardiaca, oppure all'epatomegalia da eccesso alimentare (che scompare con le ventose scarificate applicate localmente e con la restrizione dei liquidi); quando l'aumento di volume è cronico e v'è ittero, se le feci sono colorate (policoliche), la milza è grossa e si ripetono accessi febbrili, si penserà alla cirrosi di Hanot, più raramente, in questa forma, alla sifilide epatica; se la milza è normale, al cancro nodulare del fegato (superficie nodosa, stato cachettico); se le feci sono scolorate, si discuterà la natura dell'ostacolo al deflusso della bile e quindi specialmente la litiasi biliare (o altre cause più rare d'ostruzione: ascaridi echinococco, briglie peritoneali, ecc.) o il cancro della testa del pancreas o delle vie biliari; sintomi differenziali (che non hanno però valore assoluto) sono: nel primo caso precedenti litiasici, ittero meno accentuato e meno persistente, cistifellea non percettibile; nel secondo: si palpa la vescicola biliare distesa (segno di Courvoisier e Terrier), il sondaggio duodenale (v. duodeno) dimostra l'assenza degli enzimi pancreatici. Se il fegato è grosso e s'accompagna ad ascite, quando la milza non è aumentata di volume e abbiano preceduto ripetute crisi d'iposistolia, si penserà alla cirrosi cardiaca; quando la milza è ingrandita e la superficie epatica grossolanamente deformata, alla sifilide terziaria del fegato; se la superficie del fegato non presenta irregolarità grossolane, alla cirrosi ipertrofica semplice. Se il fegato grosso s'accompagna a tumefazione della milza, si discuterà, col rilievo degli altri sintomi, la malaria, la leucemia mieloide, il fegato amiloide. Se predominerà solo l'ingrandimento del fegato, si penserà alla congestione passiva d'origine cardiaca, al grosso fegato degl'ipertesi, alla cirrosi pigmentaria o diabete bronzino (coesistono melanodermia e glicosuria), alla cirrosi grassa tubercolare, al cancro massivo, all'echinococco del fegato.
Anatomia patologica del fegato. - Vi sono alterazioni anatomiche del fegato che dipendono da anomalie del suo sviluppo embrionale e che però si chiamano congenite; riguardano la forma, la grandezza e la posizione dell'organo; molte di esse non rappresentano che delle curiosità e non hanno particolare importanza sullo stato di salute dell'individuo. V'è, per es., la possibilità (rara) che il fegato si trovi a sinistra al posto dello stomaco e questo a destra al posto del fegato (situazione inversa dei visceri). Molte sono le cause che producono alterazioni di forma acquisite; in parte ne sarà fatto accenno in seguito; basti ricordare la deformazione per l'uso del busto; si produce un solco trasversale d'atrofia (solco da allacciatura) che talora, quando è profondo, tende a dividere il fegato in due grandi lobulazioni, l'una superiore e l'altra inferiore al solco (può venire esercitata una compressione sul collo della vescica biliare con possibilità di ristagno della bile in essa, probabile condizione predisponente alla formazione di calcoli). Per gli spostamenti di posizione del fegato v. splancnoptosi.
Il fegato ha una circolazione sanguigna abbastanza complessa, che può facilmente subire modificazioni capaci d'alterare l'aspetto dell'organo. È molto frequente il fegato da stasi o cianotico quando sia ostacolato lo scarico della corrente venosa d'efflusso (questa raccoglie il sangue, che è condotto al fegato dalla vena porta e dall'arteria epatica, nella vena cava ascendente); le cause più comuni sono rappresentate dai vizî di cuore o da deficiente energia contrattile del muscolo cardiaco oppure da difficoltà che il sangue incontra nel circolo polmonare (per es,. enfisema, polmoniti croniche interstiziali, ecc.). Per l'ingorgo di sangue venoso l'organo (specialmente nel vivente) aumenta di volume e di consistenza, fenomeni che possono regredire quando migliorino le condizioni circolatorie generali. Nelle comuni stasi il fegato sulla superficie di taglio presenta una minuta variegatura rossa e giallognola; i punti rosso-scuri corrispondono al centro degli acini, dove i vasi assai dilatati determinano atrofia e scomparsa delle cellule epatiche; alla periferia invece le cellule sono conservate e infiltrate di grasso, onde il colorito giallognolo. Quando la stasi dura a lungo, provoca atrofia (atrofia cianotica) e induramento (induramento cianotico) dell'organo per aumento del connettivo; talora il fegato assume anche un aspetto granuloso (cirrosi vascolare). Nella cianosi s'ha spesso anche una leggiera imbibizione di pigmenti biliari, onde una tonalità generale verdognola (fegato noce moscata - paragone molto approssimativo). La vena porta e l'arteria epatica possono compensarsi a vicenda quando il sangue dell'una trovi ostacolo a penetrare nel fegato e però la chiusura d'uno di questi due vasi non è sempre accompagnata da gravi e caratteristiche lesioni del tessuto epatico; tuttavia costituisce un fenomeno che può sempre dar luogo a serie conseguenze. È rara la chiusura dell'arteria epatica; più frequente quella della vena porta (trombosi, compressione, tumori). In quest'ultimo caso le piccole vene accessorie aumentano di proporzioni (vene della cistifellea, vene dei legamenti epatici, ecc.) e cercano di portare sangue venoso al fegato in compenso della massa di sangue portale che non può più penetrarvi. In questo caso il sangue ristagna in gran parte delle vene della cavità addominale, onde attraverso le pareti di esse trasuda siero, che si raccoglie nel cavo peritoneale, talora in quantità considerevole (ascite). Nel fegato si possono avere emorragie per cause diverse; per ferite, per infiammazioni (rare), per necrosi del tessuto (specialmente associate a sviluppo di tumori), per avvelenamenti, ecc.; importanti e caratteristici sono i focolai emorragici multipli che si rinvengono all'autopsia in casi d'eclampsia puerperale (v.).
Il fegato può presentarsi ridotto di volume per uniforme impicciolimento e parziale scomparsa delle sue cellule (atrofia); questo avviene nell'insufficiente nutrizione generale (cachessia); in modo speciale la semplice atrofia cronica s'osserva negli alti gradi di marasma senile (spesso il fegato ha una spiccata colorazione bruna per abbondanza di granuli di pigmento dentro le cellule).
Sostanze tossiche che si formino nell'organismo (per es., nelle infezioni) o che provengano dall'esterno oppure condizioni anomale del ricambio organico possono alterare l'intima struttura della cellula epatica, così che il suo aspetto devia dal normale con conseguente alterazione della funzione. Queste lesioni che modificano, talora sensibilmente, l'aspetto macroscopico dell'organo, sono raggruppate sotto il titolo di degenerazioni. Con termine più moderno si parla oggidì di epatosi, intendendo così di separare tali lesioni degenerative da quelle infiammatorie propriamente dette (epatiti).
Queste alterazioni microscopiche del protoplasma (alterazioni dello stato colloidale) possono in molti casi, cessata la causa, regredire ristabilendosi così il normale aspetto; in altri casi portano a distruzioni cellulari più o meno estese compromettendo la normalità delle importanti funzioni del fegato. Queste degenerazioni prendono, a seconda della qualità delle alterazioni, i nomi di degenerazione albuminoidea, vacuolare, adiposa, amiloide; il grado massimo è dato dalla morte rapida e totale della cellula (necrosi). Ha particolare importanza la presenza nella cellula epatica di sostanze grasse e simili al grasso (lipoidi) in quantità anormale: fegato grasso (steatosi). Quest'alterazione si trova di frequente, ma con differenti gradi d'intensità; nelle steatosi rilevanti il fegato è aumentato di volume, ha i bordi arrotondati, colorito grigio-giallastro e consistenza butirrosa; se s'incide, la lama resta spalmata di grasso come se si tagliasse un pane di burro. Può dipendere da eccessive introduzioni di grassi e d'idrati di carbonio con deficiente ossidazione dei medesimi (vita poco attiva, lentezza del ricambio, ecc.); inoltre il fegato grasso sta in relazione con morbose condizioni dell'organismo che impediscono l'ossidazione del grasso e alterano la cellula epatica, la quale si lascia più facilmente infiltrare dal grasso che le viene portato dal sangue (anemie gravi, tubercolosi, affezioni croniche dell'intestino, intossicazioni acute e croniche, ecc.). Nell'alcoolismo cronico si ha con grande frequenza un fegato grasso (fegato degli alcoolisti), che molto probabilmente predispone a più gravi lesioni di quest'organo. Si possono osservare particolari mutamenti di colore dell'organo quando vi si depositino sostanze pigmentali; per es., tinta verde scura o verde ocra per arresto della sostanza colorante della bile, tinta argilloso-rugginosa per deposito di pigmento derivante dalla materia colorante del saugue, prodottasi in eccesso per intensa distruzione di globuli rossi (anemie) o perché non viene convenientemente elaborata ed eliminata (emocromatosi), ecc.; talora si tratta di sostauze pigmentate che provengono dal mondo esterno e che arrivano al fegato per mezzo del sangue (per es., pulviscolo di carbone; caso raro). Fra i processi necrotico-degenerativi gravi va ricordata la cosiddetta atrofia giallo-acuta, malattia che si presenta clinicamente con una sintomatologia abbastanza caratteristica e che ha per lo più esito infausto. Il fegato in un primo tempo presenta un aumento di volume, che poi rapidamente si riduce e all'autopsia di solito troviamo l'organo assai rimpicciolito. Il tessuto è di consistenza assai molle, così che non mantiene la sua forma caratteristica; la capsula è rugosa, il colorito rosso-scuro verdognolo; di solito troviamo aree rosso-scure alternate con aree giallognolo-verdastre; queste ultime più compatte e più sporgenti sulla superficie del taglio in confronto delle prime; in queste la distruzione e la scomparsa delle cellule è quasi completa e non restano che i capillari intercellulari dilatati; nelle aree giallastre la struttura acinosa del fegato è ancora conservata ma le cellule dimostrano fasi diverse di metamorfosi regressive. Il tessuto epatico è imbevuto di pigmento biliare e la malattia s'accompagna con itterizia. Le cause sono spesso oscure; si tratta certamente di azioni tossiche violente sulla cellula epatica forse predisposta a risentirne gli effetti. L'atrofia giallo-acuta s'è osservata in concomitanza con infiammazioni gastroduodenali, in gravi malattie da infezione (febbre gialla, erisipela, setticemia, tifo, polmonite crupale, tubercolosi miliare acuta, malaria), in rapporto con la gravidanza e puerperio, ecc.; alcuni tossici esogeni possono avere importanza patogenetica, cioè il cloroformio (atrofia giallo-acuta dopo narcosi), l'arsenico (alcuni casi dopo il trattamento della sifilide con salvarsan), il fosforo, ecc. La malattia, sebbene di rado, può passare a guarigione e allora dalle aree di tessuto epatico non distrutte si svolgono lentamente fenomeni d'accrescimento, così che il fegato da ultimo viene a essere costituito da tante irregolari nodosità (esito in iperplasia nodosa), che alterano la forma complessiva della ghiandola conferendole un aspetto grossolanamente bernoccoluto.
I processi infiammatori del fegato provocano lesioni anatomiche che variano a seconda dell'intensità e della natura della malattia. Abbiamo infiammazioni che s'accompagnano con formazione d'essudato purulento e però sono dette epatiti suppurative. Si tratta della presenza nel tessuto di germi infettivi dotati, come si dice, di proprietà piogeniche. Tali germi arrivano al fegato per diverse vie con maggiore frequenza v'arrivano per mezzo della vena porta che raccoglie molta parte del sangue venoso degli organi addominali; se questi sono sede d'un processo infettivo i germi patogeni possono penetrare nelle rispettive piccole diramazioni venose ed essere trasportati al fegato con la corrente sanguigna (ulcerazioni intestinali, dissenteria, appendiciti acute, ecc.) provocandovi suppurazione e ascessi. Con minore frequenza i germi della suppurazione vengono portati al fegato per mezzo dell'arteria epatica o sono propagati da focolai esistenti in organi vicini (v. più avanti per gli ascessi derivanti dalle vie biliari). Gli ascessi possono essere multipli e fondersi fra loro in focolai più vasti; l'ascesso può essere anche unico e se si tratta d'una fluidificazione del tessuto, di piccolo volume e circoscritta da uno strato periferico di tessuto connettivo, si può arrivare alla cicatrizzazione. Talora però l'area ascessuale può progressivamente ingrandirsi e si può pervenire a raccolte purulente imponenti, che possono occupare quasi un intero lobo (per lo più il destro). L'ascesso epatico si riscontra con una certa frequenza nei paesi tropicali e subtropicali o in individui che vi abbiano soggiornato, e stanno spesso in rapporto con la dissenteria da amebe. Il pus contenuto nella sacca ascessuale è di colore giallo o gialloverde, spesso abbastanza fluido, ma talora anche denso e filante; può contenere i germi che l'hanno provocato, ma, quando si tratti di un'infezione molto cronica, questi possono mancare. Salvo l'intervento chirurgico, a lungo andare l'ascesso può aprisi nelle parti vicine (peritoneo, pleura, intestino, ecc.), creando condizioni morbose varie e complesse che possono migliorare o aggravare le condizioni dell'ammalato, a seconda dei casi (figg. 6-7).
Vi sono infiammazioni del fegato che non portano a raccolte d'essudato, ma che si svolgono con proliferazione e secondario raggrinzamento del connettivo di sostegno dell'organo. Importante per la sua frequenza è la cosiddetta cirrosi atrofica volgare o di Laënnec (dal suo illustratore; la lesione era già stata notata da G. B. Morgagni; fig. 7). La malattia ha lento decorso; la riduzione di volume del fegato è forse preceduta da un periodo d' aumento. Nel periodo in cui gli individui vengono a soccombere, il reperto anatomo-patologico è molto caratteristico. Il fegato di solito è diminuito, talora sensibilmente, di volume; conserva la sua forma, la membrana che ravvolge l'organo è irregolarmente ispessita, spesso è anche parzialmente aderente alle parti vicine. La superficie esterna, invece d'essere liscia, è più o meno regolarmente bernoccoluta. Il parenchima epatico è aumentato di consistenza; tale aumento è spesso considerevole e s'apprezza ancora meglio dalla resistenza che incontra la lama del coltello nell'incisione, nel praticare la quale si avverte come una specie di stridore. Considerato l'organo sulla superficie di sezione ha di solito una complessiva tonalità giallastra (donde il nome di cirrosi, κιρρός "giallo"); la superficie non è liscia e omogenea ma si presenta granulosa, bernoccoluta e le singole sporgenze (queste hanno colorito giallo) sono separate da un tessuto rientrante grigio o rossastro costituito dall'abbondante connettivo che separa le singole nodosità, di cui il parenchima epatico risulta ora costituito. S'è molto discusso sul modo di formazione di questa lesione epatica, che nella sua fase terminale porta a un grave pervertimento della struttura dell'organo. S'ammette che avvengano ripetute e subentranti distruzioni di cellule epatiche, cui seguono neoformazioni di elementi e ingrandimento di volume di alcune cellule dell'acino non distrutte; gli acini però rimangono deformati in questo processo riparatore e s'alterano i loro rapporti vascolari; s'associa una proliferazione del connettivo interstiziale sia all'esterno sia all'interno degli acini (dove le cellule epatiche sono andate distrutte) e lentamente si perviene a un'atrofia dell'organo con sclerosi del tessuto connettivo e conseguente profonda modificazione dei rapporti normali fra cellule epatiche, connettivo e apparato vascolare. Nello sviluppo di tale pervertimento della struttura del fegato s'obliterano molte piccole diramazioni vascolari, così che il sangue della vena porta negli stadî inoltrati trova difficoltà ad attraversare il fegato; questa circostanza provoca un ristagno nel sistema venoso addominale e ne consegue una trasudazione di siero sotto forma di raccolta libera nella cavità peritoneale, che può arrivare a proporzioni cospicue (idrope ascite); se il liquido che rigonfia il ventre viene svuotato, si riproduce di solito rapidamente perché la causa persiste. La natura cerca di provvedere allo scarico del sangue addominale per vie collaterali, ma il compenso è insufficiente; la progressione delle lesioni epatiche e l'intervento d'una insufficienza del cuore aggravano vieppiù le condizioni del circolo, le quali si riflettono anche sulle funzioni d'altri organi, specialmente del tubo gastro-intestinale. La cirrosi epatica ha esito letale per il progressivo deperimento organico dell'individuo oppure per l'intervento di qualche complicanza che lo acceleri. Non s'è in grado di precisare con assoluta esattezza la causa o le cause della cirrosi. La malattia, almeno la forma classica di Laënnec, compare nel periodo medio della vita ed è più frequente nel sesso maschile. Certamente deve avere importanza l'alcoolismo cronico (specialmente l'introduzione d'alcool concentrato, liquori), ma come l'alcool agisca non è facile stabilire. Si può dire che in una parte notevole di cirrotici è constatabile l'alcoolismo, ma d'altro lato vi sono molti alcoolisti conclamati in cui il fegato è indenne da cirrosi, come vi sono dei cirrotici che non hanno mai usato o abusato di alcool. Probabilmente l'alcoolismo crea nel fegato una predisposizione che facilita l'azione d'altre cause. Vanno prese in considerazione nell'eziologia della cirrosi le intossicazioni gastrointestinali, la sifilide costituzionale, ecc. Presumibilmente su di un fegato predisposto (alcoolismo, per es.) possono aver parte nella patogenesi della cirrosi anche le varie malattie da infezione. Vi sono lesioni epatiche classificate fra le cirrosi, in cui il fegato presenta un aspetto alquanto diverso da quello descritto. L'organo può essere aumentato di volume e allora spesso presenta un colore giallo chiaro, le granulazioni sono minute e uniformi, la superficie di taglio liscia, il coartamento cicatriziale lieve (cirrosi ipertrofiche, cirrosi grasse, cirrosi glabre). Sono forme che s'osservano più raramente della comune cirrosi atrofica volgare. Le lesioni descritte non sono di solito accompagnate da un'evidente itterizia, sebbene lievi stati subitterici siano frequenti. S'osservano invece processi di sclerosi diffuse del tessuto epatico in cui l'itterizia è un sintomo precoce e costante; si parla, alquanto impropriamente, di cirrosi biliari. Anche il fegato in questi casi ha una colorazione giallo-verde o verde serpentino talora molto intensa. La lesione può stare in rapporto, per es., con un lungo ristagno della bile, oppure con lesioni di solito infiammatorie dei piccoli vasi biliari; qualche volta la genesi è oscura come nella cosiddetta cirrosi biliare ipertrofica di Hanot (malattia assai rara). Per maggiori notizie sul significato del concetto di cirrosi v. cirrosi.
Nella tubercolosi miliare generalizzata compaiono anche nel fegato minuscoli tubercoli miliari grigiastri ben visibili sulla superficie esterna al disotto del rivestimento peritoneale; talora troviamo dei noduli di maggior volume e d'aspetto caseoso (nei bambini) quando l'infezione si dissemina con minore violenza (fig. 9). Sono descritti anche alcuni casi (rari) in cui il processo tubercolare assume l'aspetto di voluminosi infiltrati e nodosità caseose (tubercolosi a tipo di tumore). Per la tubercolosi in rapporto con le vie biliari intraepatiche v. sotto.
La tubercolosi può certamente produrre nel fegato processi più o meno evidenti di sclerosi, ma generalmente non si crede che in sé e per sé essa possa determinare una forma analoga alla cirrosi atrofica volgare (cirrosi tubercolare). La sifilide, sia congenita (frequentemente accompagnata dalla presenza di numerosi germi specifici, treponemi), sia acquisita, provoca con relativa frequenza alterazioni anatomiche. Tipica dei feti e neonati sifilitici è una forma d'indurimento diffuso dell'organo per aumento del connettivo, in cui sono disseminati pochi residui d'elementi epatici per lo più sotto forma di tubuli isolati; oltre l'indurimento il tessuto epatico presenta un colorito grigiastro lucente con tonalità giallognole (fegato a pietra focaia). La lesione può essere circoscritta in determinate zone (specie verso il bordo libero) e associata a infiltrazioni nodulari e nodose, grigiastre o caseose (gomme; talora queste infiltrazioni sono piccolissime: gomme miliari). Nel periodo tardivo della sifilide acquisita si producono dei focolai circoscritti d'infiltrazione, spesso multipli e talora anche abbastanza voluminosi (gomme). Hanno alcune sedi di predilezione (ilo del fegato, vicinanze del legamento sospensore, ecc.) e subiscono le solite fasi di queste produzioni granulomatose; dapprima molli, grigiastre, umide, poi asciutte, necrotiche, d'aspetto caseoso; infine interviene la cicatrizzazione che produce grande quantità di connettivo, il quale raggrizzandosi e determinando una specie di guarigione, deforma in quel punto il tessuto con forti rientramenti cicatriziali (cicatrici stellate). Quando tali fenomeni siano intensi e si ripetano in molti punti del fegato, l'organo può subire una completa deformazione, anche perché zone di tessuto rimaste integre possono per proliferazione compensativa aumentare di volume (cirrosî deformante, hepar lobatum) a guisa di grosse e sporgenti nodosità come è dimostrato dalla fig. 10.
Sono conosciute anche forme specifiche in cui s'ha un aumento diffuso del connettivo interstiziale, il quale viene cancellando il normale aspetto acinoso dell'organo; queste lesioni, in cui il tessuto appare per lo più levigato, s'accentuano in alcune località donde tendono a conquistare progressivamente anche il rimanente tessuto ghiandolare; possono venir definite come epatiti interstiziali luetiche a tipo diffuso e vanno differenziate dalla comune cirrosi atrofica di Laënnec. Talora, sebbene raramente, possono concomitare lesioni nodulari circoscritte sotto forma di focolai gommosi. Non bene individuate anatomicamente sono le alterazioni del periodo secondario della lue. Verosimilmente si tratta di alterazioni degenerative delle cellule epatiche (epatosi), fino a un certo grado passibili d'una reintegrazione completa. La particolare labilità delle cellule epatiche in queste circostanze dev'essere tenuta presente sia per la possibilità dell'accentuarsi dell'epatosi, con pericolo per l'intero organismo, e sia in rapporto con l'eziologia e con la patogenesi della cirrosi volgare (frequenza della lue nell'anamnesi dei cirrotici). Nella sifilide il fegato può presentare i caratteri della degenerazione amiloide, associata più o meno a lesioni specifiche propriamente dette. Va ricordata anche la possibilità di localizzazioni nel fegato dell'actinomyces (fungo raggiato) che dà luogo a focolai talora multipli e capaci di pervenire a un notevole sviluppo. Rarissima è una localizzazione primitiva; per lo più la malattia è propagata da organi vicini (ossa, peritoneo, ecc.). Le lesioni sono abbastanza caratteristiche; il tessuto epatico assume un aspetto areolare e spugnoso, con piccole cavità contenenti materiale purulento e particolare colorazione giallo-zolfo. Microscopicamente vi si possono dimostrare i caratteristici parassiti.
I tumori possono essere primitivi o derivati da trapianto di tumori d'altri organi (questi tumori secondarî sono molto più frequenti). Fra i primitivi sono abbastanza frequenti i cosiddetti angiomi o angiocavernomi; si tratta di nodi isolati, di colore rossoscuro, con lacune piene di sangue e vengono considerati spesso come malformazioni. Non hanno importanza pratica perché restano stazionarî o regrediscono; in rari casi però possono assumere proporzioni notevoli o dar luogo a complicanze. Molto rari sono i sarcomi (derivati dal substrato connettivo) che possono avere struttura istologica variabile e gradi diversi di malignità (fig. 12). Gli adenomi sono tumori benigni che ripetono atipicamente la struttura del tessuto epiteliale del fegato; sono costituiti da nodosità (talora sono multipli) ben circoscritte, di colore grigio giallognolo, talora anche verdastro (gli elementi possono secernere bile), delimitati da una capsula connettiva. Non hanno importanza pratica salvo nel caso, che è ritenuto possibile, di una loro trasformazione maligna, cioè in carcinoma.
Il cancro primitivo del fegato (fig. 11) è raro; si presenta con aspetti anatomo-patologici diversi; o come una massa unica talora molto voluminosa, che s'accresce invadendo progressivamente il tessuto epatico; oppure esiste una massa centrale con nodi isolati nelle vicinanze e anche in parti lontane; altre volte si presenta con nodosità piuttosto piccole disseminate in tutto il fegato e intercalate da tessuto epatico in stato di cirrosi (cancrocirrosi); si riceve in questo caso l'impressione che il carcinoma non si sia sviluppato da un centro unico ma contemporaneamente in molte località; vi sono anche carcinomi che non formano focolai nodosi ma che vanno infiltrando la ghiandola in modo pianeggiante e uniforme (rari). Il tessuto neoplastico riproduce in forma più atipica dell'adenoma i caratteri del tessuto d'origine; sono frequenti le degenerazioni e la necrosi del tessuto neoplastico, che può portare anche a uno sfacelo emorragico completo. Il carcinoma secondario (metastatico) è invece molto frequente; di solito si presenta a nodosità multiple, di grandezza varia, disseminate a capriccio; presentano spesso degenerazioni e rammollimento centrale, così che i nodi che sporgono sulla superficie del fegato appaiono come infossati (ombelicati). Il tumore d'origine (nello stomaco assai di frequente) può essere molto circoscritto, a sintomi incerti, mentre le metastasi epatiche producono talvolta un aumento di volume considerevole dell'organo così da simulare una malattia primitiva di esso. Anche i sarcomi dei diversi organi si trapiantano facilmente nel fegato (specialmente i sarcomi melanoblastici, dal color nero del tessuto, dànno spesso delle metastasi imponenti). Un considerevole aumento di volume s'osserva anche nei rari casi di fegato cistico (cisto-adenoma); si tratta d'un complicato sistema di cisti, a contenuto per lo più liquido, che interessa di solito tutto l'organo; la lesione va probabilmente riferita a una malformazione congenita ed è associata spesso ad analoga lesione dei reni; può causare nel suo progredire manifestazioni cliniche rilevanti. Fra i parassiti animali per frequenza e importanza pratica va ricordato l'echinococco (v.).
Anatomia patologica delle vie biliari. - La più importante alterazione congenita o di prima formazione è la mancanza (aplasia) o la chiusura (atresia) dei dotti che dal fegato portano la bile nell'intestino. I neonati presentano itterizia intensa e possono vivere solo per breve tempo; si può trovare la mancanza isolata della cistifellea o uno sviluppo rudimentale; difetti che non hanno conseguenze gravi, essendo essa un organo di deposito inserito come appendice sul dccorso delle vie biliari. Non di rado le atresie dipendono da processi infiammatorî sviluppatisi durante la vita fetale (sifilide). Le infiammazioni prendono il nome di angiocoliti quando interessano i dotti e di colecistiti quando interessano la cistifellea. Dipendono dall'azione di batterî che arrivano o dall'intestino (infiammazioni ascendenti) o per eliminazione di germi attraverso il fegato (discendenti); anche sostanze tossiche eliminate dal fegato per mezzo della bile possono irritare la mucosa delle vie biliari (per es., l'arsenico) fino a produrre reazioni flogistiche più o meno accentuate. La forma più comune è la catarrale e desquamativa; le cellule epiteliali che tappezzano la mucosa si sfaldano in gran numero e si mescolano alla bile; le piccole ghiandole della mucosa secernono in abbondanza del muco che contribuisce ad alterare la composizione del secreto; la congestione della mucosa presenta gradi varî d'intensità con relativo turgore. Vi può essere difficoltà allo scarico della bile nell'intestino e quindi ristagno con conseguente itterizia. Quando non vi siano circostanze sfavorevoli, la lesione può rapidamente regredire e scomparire. Talora l'infiammazione assume carattere purulento per il grande numero di globuli bianchi che si mescolano alla bile e, quando colpisce i piccoli canali dentro il fegato, l'essudato purulento si raccoglie anche attorno al vaso biliare (periangiocolite), donde derivano piccoli ascessi multipli e confluenti nel fegato (il pus ha un colore verdognolo, perché mescolato a pigmento biliare). La lesione ha maggiore gravità della forma semplice catarrale. Quando l'infiammazione purulenta colpisce la cistifellea e s'abbia atresia del relativo condotto escretore, la cavità può venire distesa per notevole accumulo d'essudato (empiema della cistifellea) e si possono avere gravi complicazioni per infezione delle parti vicine. Se l'essudato resta a lungo chiuso dentro la cavità, le pareti s'ispessiscono, la parte liquida si riassorbe e nell'organo ridotto di volume si forma un materiale denso, poltiglioso, qualche volta cretaceo. Processi più gravi a carattere difterico, necrotico e ulcerativo delle grosse vie, interessando anche il connettivo che sta sotto la mucosa, possono determinare forti restringimenti cicatriziali, con ristagno della bile e ittero cronico.
Nelle vie biliari (specialmente nella cistifellea) s'osserva con relativa frequenza (molto più accentuata nel sesso femminile) la formazione di concrezioni solide (calcoli biliari). Il loro modo di formazione ha ancora dei punti oscuri; le cause vanno cercate in processi infiammatorî delle vie biliari e in modificazioni del ricambio che inducono anomalie nella composizione della bile; particolari abitudini di vita, ristagno del secreto, ecc., facilitano la precipitazione dei materiali in soluzione. Il calcolo può essere unico, spesso si tratta di calcoli multipli che talora possono essere numerosissimi (nella cistifellea). Vi sono calcoli costituiti da colesterina, per lo più solitarî, di forma ovoidale, della grandezza media d'una piccola noce, leggieri, friabili, d'aspetto cristallino e di colore cereo biancastro. I più comuni sono quelli costituiti da colesterina, calce e pigmenti biliari, di solito a strati concentrici, più o meno pigmentati; sono spesso multipli e allora si presentano faccettati, irregolarmente poliedrici per mutua compressione, di volume variabile, ma per lo più piccoli. Quando si tratta di un calcolo solitario della stessa composizione il volume può essere considerevole e la forma insolita. Si trovano anche calcoli cosiddetti composti con una parte centrale cristallina (colesterina) di forma ovoidale; hanno complessivamente forma ovoidale e per lo più come tali sono unici, associati però ai calcoli faccettati. S'ammette che il calcolo di colesterina non abbia origine infiammatoria; tuttavia la sua presenza nella cistifellea e nelle vie biliari può determinare nella cistifellea e nelle vie biliari ristagno biliare e flogosi catarrale (catarro litogeno), donde la formazione dei calcoli di colesterina, calce e pigmenti, ritenuti d'origine infiammatoria. Il calcolo composto è considerato come un primitivo calcolo cristallino di colesterina sul quale si sono formate delle precipitazioni concentriche secondarie. Un'altra specie di concrezioni è dovuta in prevalenza a precipitazioni del pigmento biliare; sono calcoli molto scuri, friabili, che degradano fino a costituire una specie di sabbia, sabbia biliare; queste concrezioni sono facilmente multiple e si trovano disseminate nei canalicoli biliari, anche di piccolo calibro; meno facilmente si trovano nella cistifellea. Raramente si trovano piccoli calcoli duri, biancastri, tondeggianti o irregolari costituiti essenzialmente da sali calcarei. Non di rado all'autopsia si trovano calcoli nella cistifellea senza riscontrare nella storia clinica dell'individuo sintomi rilevanti riferibili a una calcolosi biliare possono avvenire delle complicazioni talora molto gravi (coliche biliari, occlusione delle vie biliari, ecc.) quando il calcolo emigra dalla cistifellea nel coledoco e non può essere eliminato, come del resto può avvenire, attraverso l'intestino. La calcolosi mantiene e aggrava lo stato flogistico delle vie biliari, che può assumere il carattere suppurativo e diffondendosi in via ascendente provocare lo sviluppo d'ascessi multipli del fegato (v. calcolosi).
La tubercolosi di rado si sviluppa in modo autonomo e sistematico nelle vie biliari. Questo può avvenire in certi casi rari (specialmente nell'infanzia); si formano allora infiltrati caseosi che seguono i dotti i biliari, sviluppandosi in forma tubulare attorno alle loro pareti; nel centro del canalicolo, apparentemente pervio, dilatato e di colore verdognolo, si raccoglie materiale d'essudazione, pigmento biliare, detrito cellulare, e cristalli di colesterina; questi focolai si vedono bene nello spessore del fegato.
Il tumore di gran lunga più importante è il carcinoma primitivo. Si può sviluppare nella cistifellea o nei dotti biliari. Il carcinoma della cistifellea è più frequente nella donna e spesso all'autopsia si trova associato a calcoli biliari; il rapporto di causa a effetto è variamente interpretato, tuttavia è importante il fatto che in genere nel sesso femminile si trovano più frequentemente calcoli nella vescica biliare e così si può pensare esservi una condizione predisponente. Il tumore ha vario aspetto; talora dà luogo a ispessimenti e indurimenti notevoli delle pareti e può simulare così una colecistite cronica fibrosa; altra volta s'hanno focolai nodosi bernoccoluti oppure il cancro si sviluppa verso la cavità con vegetazioni abbondanti che facilmente cadono in sfacelo. Non sempre il carcinoma provoca aumento di volume dell'organo, ché anzi talvolta, per processi di sclerosi e obliterando la cavità, lo riduce. Si diffonde facilmente per contiguità e anche in modo discontinuo nel tessuto epatico e può dare anche ripetizioni in altri organi. Il carcinoma ha origine con relativa frequenza anche dai grossi dotti biliari e si suppone che parta dalle ghiandole della mucosa; può conservare un tipo nettamente adenocarcinomatoso. Dà luogo a infiltrazioni nelle tonache sottostanti con notevole sclerosi del connettivo, donde precoce e grave stenosi con dilatazione delle vie biliari a monte del punto ristretto con conseguente ristagno biliare e ittero intenso; anche la cistifellea in questi casi si riempie notevolmente di bile e assume volume considerevole. Questa localizzazione sembra essere più frequente nel sesso maschile ed è particolarmente grave per l'impedimento talora precoce e completo al deflusso della bile nell'intestino. Questo impedimento da qualunque causa sia determinato (oltre ai varî processi patologici delle vie biliari già ricordati, vanno ricordate le cause di compressione provenienti dalle parti vicine: tumori dell'ilo del fegato, tumori della testa del pancreas e del duodeno, infiammazioni croniche del peritoneo circostante) provoca dilatazioni dei canali biliari, le quali talvolta possono essere assai rilevanti ed estendersi anche ai canali situati dentro il fegato. La bile che ristagna anche nei piccolissimi canali in rapporto diretto con gli acini viene riassobita dalle vie linfatiche e da queste passa nel sangue, provocando il cosiddetto ittero meccanico o da stasi. Vi può essere itterizia senza che vi siano ostacoli apprezzabili al deflusso della bile e in questi casi la causa va ricercata non in ostacoli meccanici al deflusso della bile ma in alterazioni anatomiche e funzionali della cellula epatica (avvelenamenti, malattie tossico-infettive, emolisi, ecc.). Oggidì si ammette da talune scuole che la bilirubina possa formarsi dall'emoglobina anche in sedi extra-epatiche (apparato reticolo-endoteliale) donde, in condizioni patologiche, itterizia poiché la bile si verserebbe direttamente nel sangue senza l'intermezzo della cellula epatica (ittero anepatogeno).
Chirurgia. - L'epatoptosi costituisce un'indicazione non frequente d'intervento chirurgico. L'epatoptosi parziale anzi non dà pressoché mai motivo d'intervento, e anche allorché, come in certi casi di calcolosi biliare, si riscontrano ipertrofie circoscritte del lobo destro del fegato che vengono a ricoprire la colecisti a guisa di lobi o lobuli accessorî, non è generalmente indicato agire su questi. Quanto all'epatoptosi totale, la quale generalmente s'osserva accanto alla ptosi d'altri visceri addominali (v. splancnoptosi), oggi si è assai meno propensi di qualche tempo fa a procedere a operazioni fissatrici (epatopessi), perché il quadro clinico dipende generalmente non soltanto dalla ptosi epatica, ma dalla compartecipazione d'altri visceri addominali, e un intervento circoscritto al fegato generalmente non vale a guarire la sindrome.
Le lesioni traumatiche del fegato e delle vie biliari hanno all'incontro un altissimo interesse chirurgico, sia per la loro frequenza, sia per la gravità che ad esse generalmente è connessa. Basti pensare che la rottura del fegato è la più frequente delle lesioni addominali sottocutanee. Devono poi ancora essere prese in considerazione le ferite sia d'arma bianca sia d'arma da fuoco, la cui gravità è dipendente da condizioni inerenti alla qualità, alla forma, al numero dei proiettili. Nel caso di lesioni traumatiche sottocutanee, poiché queste dipendono generalmente da un urto molto violento sull'addome e in particolare sulla regione epatica, è frequente conseguenza immediata lo shock, come s'osserva anche nelle contusioni addominali senza lesioni d'organi interni. Perciò la diagnosi può essere molto delicata, a meno che non s'abbiano rapidamente i segni dell'anemia postemorragica in rapporto con la fuoruscita dall'organo di grandi quantità di sangue, come può avvenire per larghe lacerazioni o per lesioni dell'ilo. Questi fatti, accanto alla conoscenza della sede e della natura del trauma, e alla localizzazione del dolore, possono aiutare nella diagnosi e quindi nello stabilire l'indicazione dell'intervento, l'emorragia essendo la conseguenza più immediata e pericolosa delle lesioni traumatiche del fegato. Se poi si verificano lesioni delle vie biliari extra-epatiche, la conseguenza immediata è il versamento della bile nella cavità addominale, cioè il cosiddetto coleperitoneo traumatico che può determinare raccolte intraperitoneali anche molto notevoli, non limitate soltanto al quadrante superiore destro. Il coleperitoneo può rimanere a lungo asettico e anche riassorbirsi, ma spesso, anche per effetto di lesioni concomitanti di visceri cavi, soprattutto frequenti in caso di gravi contusioni o di ferite d'arma da fuoco, s'osserva l'infezione, la quale determina una peritonite fibrinoplastica o addirittura purulenta. In qualche caso in cui s'ha peritonite fibrinoplastica pur essendo il versamento asettico, si può pensare a condizioni che si vengono a determinare nella sierosa peritoneale in seguito alla stessa azione traumatica.
La formazione di aderenze può valere a determinare una limitazione della raccolta, cosicché, invece d'osservarsi un coleperitoneo libero, s'osserva il colocele traumatico (Pick). In caso di versamento cospicuo si può avere esito letale anche a lunga scadenza, sia per assorbimento dei componenti biliari determinante colemia, sia per complicazioni infettive. La diagnosi di rottura sottocutanea delle vie biliari extra-epatiche si può dire impossibile nelle prime ore dopo il trauma. In un secondo tempo può essere consentita dalla comparsa d'una sindrome d'assorbimento biliare, soprattutto evidente se insorge acolia fecale. La prognosi, a sua volta, è diversamente grave a seconda che il peritoneo dimostri maggiore o minore potere di assorbimento della bile versata e a seconda che si riversa una quantità totale o subtotale o relativamente scarsa di bile; il volume della raccolta contribuisce a dare un indizio al riguardo. Ma le difficoltà diagnostiche non consentono in questi casi una dilazione all'intervento; e poiché anche lesioni gravi delle vie biliari extra-epatiche possono non determinare sintomi immediati di qualche gravità, è sufficiente che la lesione del fegato o delle vie biliari appaia verosimile, perché sia giustificato l'intervento immediato. Se poi vi sono segni d'emorragia interna, l'indicazione all'intervento è asoluta e urgente. La via d'accesso in questi interventi varia secondo le circostanze. In alcuni casi può essere indicata la laparotomia mediana; altre volte l'incisione parallela all'arco costale destro, altre volte ancora l'incisione posteriore per via transpleurale. In caso di ferite, la stessa ferita può indicare la via d'accesso chirurgica verso la profondità. L'operazione, quando vi sono segni d'emorragia, deve essere condotta rapidamente, preceduta o accompagnata da trasfusione di sangue o da fleboclisi. La ricerca della lesione può essere molto difficile, sia per l'importanza del versamento, sia per la sede e l'estensione della lesione stessa. Specialmente le lesioni traumatiche delle vie biliari possono sfuggire, se non si fa metodicamente l'esplorazione dell'ilo epatico. Alle lesioni del fegato si provvede generalmente con la sutura o col tamponamento o con entrambi i mezzi. Possibilmente si deve cercare d'ottenere l'emostasi immediata e completa con sutura, serrando i fili sopra lembi di omento o anche di fasce, per evitare che essi taglino il fragile parenchima epatico. Qualora vi fossero difficoltà a mettere in evidenza le lesioni, non si deve esitare ad allargare la ferita, poiché la via d'accesso deve essere larga; soprattutto questa regola vale nelle ferite toraco-addominali, che esigono l'intervento dalla via posteriore transpleurale. Il chirurgo non dimenticherà in ogni caso di accertarsi, con un'ispezione quanto più possibile accurata, che non coesistano lesioni di visceri cavi addominali. Nelle ferite della cistifellea si può eseguire la sutura; ma se si tratta di lesioni ampie o a bordi irregolari, è da preferirsi la colecistectomia. Invece nelle ferite del coledoco o dell'epatico è necessario drenare il dotto leso con un tubo di gomma a T. Suturare il coledoco con fili molto fini di catgut sopra un tubo di caucciù, che poi si lascia abbandonato nelle vie biliari, come taluno consiglia, espone al pericolo che il tubo rimanga in sito e non venga eliminato successivamente attraverso il duodeno. Si dovrà poi giudicare caso per caso se sia conveniente drenare la cavità peritoneale o se, specialmente nelle lesioni isolate del fegato che si siano potute suturare ottenendo una buona emostasi, sia possibile chiudere senz'altro l'addome. Sui risultati degl'interventi nelle lesioni traumatiche del fegato e delle vie biliari ha favorevolmente influito il concetto adottato dalla generalità dei chirurghi d'intervenire precocemente, a meno che lo stato generale eccessivamente grave del paziente non costituisca una netta controindicazione all'intervento; si aggiunga che, sebbene siano stati immaginati molti ingegnosi accorgimenti o artifici per riparare particolari tipi di lesioni traumatiche, specialmente delle vie biliari, in generale gl'interventi più semplici sono quelli che hanno maggior probabilità di riuscire.
Per ciò che riguarda il trattamento chirurgico della cirrosi epatica (v.), i tentativi di deviare la circolazione portale ottenendo la costituzione di vie sanguigne collaterali, sia mediante l'omentopessia (operazione di Drumond-Talma) con fissazione intra- o extra-peritoneale dell'omento, sia mediante splenoplessia, sia mediante l'anastomosi porto-cava (operazioni di Vidal, I. Tansini, E. A. Francke), sia ancora con l'impianto nel peritoneo della vena safena interna (operazione di Ruotte), sia infine col drenaggio chirurgico del peritoneo alla E. Tavel (fili di Lambotte, tubi di W. Handley, escissioni parziali di peritoneo secondo Kalb, fissazione sottocutanea del peritoneo secondo F. Erkes), se hanno perduta parte della loro importanza, perché i risultati lontani sono stati non di rado inferiori all'aspettativa, meritano tuttavia d'essere sempre ricordati e, in casi opportuni, usati. Fra tutte ha certamente maggior valore l'operazione di Talma, purché eseguita precocemente; secondo certe statistiche essa darebbe buoni risultati in un terzo circa di casi.
L'ascesso epatico ha diversa importanza chirurgica secondo che si tratta d'ascesso amebico oppure da piogeni. Invero gli ascessi da ameba, siano essi secondarî o concomitanti alla dissenteria amebica, sono suscettibili di guarigione senza intervento, con la pura terapia emetinica, la quale può ottenere risultati favorevoli anche in casi d'ascessi voluminosi. La cura con l'emetina deve essere continuata a lungo e ha valore di trattamento specifico; ma non basta nei casi d'infezione antica e di ascessi di volume molto grande. In questi casi si può associare in primo tempo al trattamento emetinico la puntura evacuatrice; se ciò non basta, si deve fare l'incisione dell'ascesso. In tal caso si sceglierà la via posteriore transpleurale se l'ascesso è della convessità del fegato, l'anteriore transperitoneale con incisione verticale oppure parallela all'arco costale, quando l'ascesso s'è sviluppato anteriormente. Gli ascessi non amebici sono di rado dei grandi ascessi solitarî passibili d'intervento con una certa speranza di successo; frequentemente sono ascessi di piccolo volume, multipli, difficilmente accessibili e accompagnati a gravi fatti generali. Per tutto ciò si dovrà essere molto prudenti nello stabilire l'indicazione operatoria, tanto più che le difficoltà diagnostiche non sono lievi, e l'ascesso può essere simulato da un fegato infettivo (C. Bozzolo) senza focolai suppurativi.
La cura delle cisti d'echinococco (v.) è puramente chirurgica; l'echinococco alveolare invece, a decorso fatalmente mortale, non beneficia dell'intervento operativo. Secondo la sede della cisti o delle cisti, la loro eventuale molteplicità, l'assenza o la presenza di complicazioni infettive, è necessario procedere in vario modo. Si tratta di risolvere infatti un duplice problema, e cioè quale deve essere la via d'accesso e con qual metodo deve essere trattata la cisti una volta raggiunta. Quanto alla via d'accesso, a seconda della sede si sceglierà volta per volta la via transperitoneale per mezzo di laparatomia mediana e paracostale, o la via lombare, o la via transpleurale. Una volta scoperta la cisti, ci si deve guardare da manovre che possano produrre un innesto idatideo per effetto della penetrazione nella cavità peritoneale di liquido cistico. A questo scopo Dévé ha consigliato da lungo tempo di trattare la cisti con una soluzione di formolo all'i %, che si fa rimanere a contatto con la faccia interna della cisti per circa cinque minuti, dopo aver fatto l'aspirazione di una parte del liquido contenuto nella cisti stessa. Questa può allora essere aperta largamente, svuotandone il contenuto senza tema alcuna; oppure, volendo seguire il cosiddetto "metodo chiuso" ci si può limitare allo svuotamento della cisti e all'introduzione di formolo. In generale però è preferibile un procedimento più radicale, e cioè: l'estirpazione della cisti, metodo ideale che è possibile in caso di cisti peduncolate o di cisti che per essere operate relativamente presto non presentano aderenze infiammatorie; la marsupializzazione della cisti, o fissazione della sacca aperta alla parete, seguita da drenaggio; la riduzione senza drenaggio della cisti, suturata semplicemente e con addossamento delle pareti, dopo averla svuotata e trattata con formolo; la sutura della cisti, seguita da fissazione alla parete addominale. La marsupializzazione è indispensabile nelle cisti suppurate, e per molti rappresenta la tecnica da preferire nelle cisti voluminose. Allorché una cisti da echinococco si rompa, sia nelle vie biliari, sia nei bronchi, sia nella cavità peritoneale, è necessario l'intervento chirurgico quanto più presto è possibile.
I tumori benigni del fegato possono essere oggetto d'un utile trattamento chirurgico: sono citati infatti esempî abbastanza numerosi di tumori cistici (cisti ematiche, cisti linfatiche, cistadenomi), e anche di tumori solidi (adenomi solitarî) per lo più peduncolati, che sono stati asportati felicemente. Essi sono difficilmente diagnosticabili con esattezza prima dell'operazione; particolarmente frequente è scambiarli con cisti d'echinococco. Anche gli angiomi cavernosi sono suscettibili d'essere asportati, mediante resezione epatica.
I tumori della cistifellea, a lor volta, di regola se benigni, quali gli adenomi, soprattutto nella loro varietà papillomatosa, qualche volta anche nella loro varietà maligna, che generalmente s'osserva in vecchie colecisti litiasiche, permettono d'essere trattati con la asportazione. All'incontro i carcinomi dell'ilo epatico non consentono un trattamento chirurgico, poichê essi, siano sviluppati a livello del confluente cistico-epatico-coledoco, oppure in uno dei dotti, dànno generalmente segno di sé quando hanno raggiunto uno sviluppo troppo grande, e hanno determinato ittero da ritenzione. Quando l'itterizia dati da tempo, si può osservare a monte del tumore la dilatazione delle vie biliari per parte di una bile incolore, che fu detta bile bianca; ritenuta da principio come un segno di arresto della secrezione biliare per disfunzione epatica grave, essa ci rivela soprattutto un'ipersecrezione mucosa del tratto extraepatico delle vie biliari, con mucostasi. In casi fortunati nei quali l'ostruzione era nel coledoco e l'intervento è stato superato, s'è veduto infatti, dopo due o tre giorni, ripristinarsi il flusso di bile pigmentata, dimostrante che la cellula epatica era tuttora in grado di funzionare.
La chirurgia dell'arteria epatica può avere indicazioni in casi di ferite chirurgiche dell'arteria, e d'aneurismi, nei quali la legatura dell'arteria è indicata anche se possa rappresentare un pericolo per la vitalità del fegato. Sono tuttavia eccezionali i casi di aneurismi finora operati (Kehr, Sudeck). Le lesioni traumatiche della vena porta esigono la sutura laterale o la forcipressura a permanenza; la legatura della porta, che sperimentalmente s'è dimostrata operazione non tollerata, sarebbe stata possibile nell'uomo.
Fra le affezioni delle vie biliari, la più importante dal punto di vista chirurgico è indubbiamente la calcolosi biliare (VIII, p. 358)
All'infuori della calcolosi, si debbono ricordare la colecistostasi, le colecistiti non calcolose, le angiocoliti. La colecistostasi è dovuta all'esistenza d'una cistifellea molto allungata, ptosica, o alla compressione per parte di tumori o dell'utero gravido; essa può dar luogo a sintomi clinici simulanti la calcolosi biliare, ma ne è differenziabile coi mezzi moderni d'indagine (colecistografia, sondaggio duodenale); la cura di elezione è la colecistectomia.
Le colecistiti non calcolose, spesso associate ad angiocolite, possono essere acute o croniche. Le acute esordiscono con febbre alta, dolore più o meno vivo all'ipocondrio destro; la palpazione del punto cistico riesce assai dolorosa ed è spesso ostacolata da una contrattura di difesa dei muscoli del quadrante superiore destro dell'addome. La cistifellea può essere talvolta avvertita alla palpazione e risulta ingrandita e dolente. La leucocitosi è cospicua, soprattutto nellc forme suppurative, che s'accompagnano ai sintomi generali e locali più intensi e dànno alla febbre un tipo intermittente caratteristico. Le forme più acute, a tipo perforativo o cancrenoso, dànno luogo rapidamente a sintomi di peritonite più o meno circoscritta e a segni di tossinfezione gravissima, e non sempre l'intervento chirurgico giunge tempestivamente a salvare i malati. In queste forme l'intervento stesso è urgente, e consiste nella colecistostomia e drenaggio peritoneale.
Gli stati di colecistite cronica sono diagnosticabili per le turbe dispeptiche, per il dolore alla pressione sul punto cistico, e talora per la palpabilità d'una cistifellea ingrandita, per i segni radiologici, ecc.; la diagnosi differenziale più delicata è quella con la colecistite calcolosa. L'intervento chirurgico non deve essere troppo procrastinato qualora si tratti di forme che non cedono facilmente alle cure mediche; infatti la colecistectomia non riesce spesso a guarire i pazienti di tutti i disturbi, soltanto perché eseguita troppo tardivamente. Possono in tal caso sussisteie fatti d'angiocolite non suscettibili di regressione spontanea, che sono la causa del parziale insuccesso dell'ectomia. Ciò deve essere ben conosciuto e vagliato per decidere se non convenga senz'altro, in certi casi inveterati, associare alla colecistectomia il drenaggio delle vie biliari intraepatiche (coledoco- o epaticostomia), la cui durata sarà di volta in volta stabilita, in base alla regressione dei sintomi febbrili e dispeptici, e al più o meno rapido chiarificarsi della secrezione biliare, che l'infezione aveva reso torbida per contenuto di muco-pus.
Che le angiocoliti si associno alla colecistite è quasi la regola; il quadro clinico dell'una e dell'altra localizzazione ne resta pertanto influenzato, e se talora dominano i sintomi dell'infiammazione della cistifellea altre volte prevalgono quelli dell'infiammazione dei dotti biliari. L'angiocolite suppurativa, che di regola s'associa a litiasi delle vie biliari, si diagnostica per la febbre a tipo remittente o intermittente, con brividi spesso assai intensi, per l'itterizia con feci non sempre acoliche, per il dolore epatico e l'ingrossamento del fegato; s'osserva leucocitosi, e l'emocultura è facilmente positiva durante gli accessi febbrili; si notano urobilina e pigmenti biliari nelle urine; rapidamente insorgono anoressia, vomiti, diarrea, lo stato generale si fa grave e appaiono i segni d'una grave insufficienza epatica (epatargia). Occorre dunque agire rapidamente stabilendo il drenaggio delle vie biliari; le cure mediche, quali la somministrazione d'alte dosi di salicilato di soda e le iniezioni endovenose d'urotropina, non hanno che un valore sussidiario. Sarà dunque eseguita la colecistectomia e in certi casi l'epatico-coledocostomia naturalmente associandole all'ablazione degli eventuali calcoli che occludessero i dotti biliari.
Patologia veterinaria. - L'ittero (v.) è sintoma frequente di malattie proprie degli animali (piroplasmosi, anemia infettiva del cavallo, tifo equino, ecc.). Lesioni epatiche s'hanno in molte affezioni parassitarie (echinococcosi, distomatosi, cisticercosi, coccidiosi, ecc.). Le infezioni, le intossicazioni d'origine gastroenterica, specialmente in rapporto a errori d'alimentazione, possono essere causa di fenomeni degenerativi o infiammatorî (degenerazione grassa, amiloidosi, atrofia giallo-acuta, cirrosi, ecc.). Rari sono la calcolosi biliare (equini, bovini, cani), il cancro e in generale i tumori; non è infrequente, specialmente nei piccoli animali, la rottura del fegato, spesso mortale per la cospicua emorragia interna.