CLERICI, Felice
Figlio di Giuseppe e di Lucia Pirovano, non se ne conosce la data di nascita. Manca d'altronde a tutt'oggi qualsiasi notizia sulla vita del Clerici.
I pochi cenni di G. Nicodemi (p. 842) si devono intendere come una svista, dovuta all'esistenza di un omonimo. Né le fonti permettono di risalire più indietro del Settecento, sicché la stessa origine milanese del C. (che in giovinezza risiedeva in S. Tecla) è per lo meno opinabile. Parziale anche la conoscenza che si ha della famiglia, che sembra di estrazione modesta, ma non umile (a giudicare dalla dote della madre). Ad elevarne comunque il tenore sociale ed economico fu per primo il fratello più anziano del C., Francesco, partito dalla mediocre condizione di aiutante di bottega. Fra gli altri fratelli si distingue Andrea, che nel 1724 possedeva un negozio di seta e telerie a Monza e il cui figlio, Giuseppe, a partire dal 1718 compare di frequente fra gli appaltatori di pubbliche imprese (prestini, bastioni).
Cresciuto in casa del fratello Francesco, dove continuò a vivere anche dopo essersi sposato con Clara Mantegazza (da cui ebbe quattro maschi e una femmina), il C. fece pratica di commercio nelle due botteghe che Francesco gestiva in contrada dei Pennacchiari per conto del socio Giovan Battista Gioietti. Nell'una si smerciavano articoli prevalentemente di seta. L'altra vendeva anch'essa generi di lusso (per lo più tessuti d'oro e d'argento) ad una clientela altolocata di Milano e delle altre province lombarde. Entrambi i negozi rendevano ai soci utili cospicui, sicché il loro valore si era notevolmente accresciuto dalla data della costituzione in società (1703 per il negozio di seta e 1722 per quello di oro e argento). Ciò permise al Gioietti di trattare più vasti affari. Nel 1719 si era trasferito a Venezia, delegando la cura degli interessi milanesi a Francesco. Qualche anno dopo aprì una filiale a Napoli, lasciando anche questa volta il socio a capo delle due fiorenti imprese di Milano.
Nel 1724, data probabilmente l'età avanzata, Francesco declinava i suoi impegni. Quell'anno stesso, contando di recarsi a Roma per la celebrazione dell'anno santo, designò il C. a succedergli nella procura Gioietti e nel 1726 fece un'ampia donazione in vita, grazie alla quale il fratello, che veniva designato suo erede universale in assenza di una discendenza diretta, si trovò padrone di un patrimonio di 77.553 lire. Esso era in massima parte costituito dalla partecipazione nelle due società; ma comprendeva anche una bottega e l'alto valore della carica di molassaro del Broletto nuovo (pubblico sensale dei grani), che Francesco aveva comperato nel 1718 per intestarla al Clerici.
Subentrando a Francesco, il C. diede subito prova di voler allargare la propria sfera d'azione, pur rimanendo nell'ambito del commercio dei tessuti d'importazione. Nel 1727 aprì infatti in Milano un esercizio per la vendita all'ingrosso e al minuto di tele di buona qualità, associandosi con Francesco Maggioni e Alessandro Giuseppe Bianchi. L'anno successivo perfezionò un'operazione che era già nell'aria da qualche tempo, mediante la quale si rendeva totalmente indipendente: sciolse la società con il Gioietti e rilevò i due negozi milanesi, riservandosi il socio la filiale di Napoli.
Per il decennio successivo mancano dati accessibili sull'attività commerciale del C., ma indicazioni indirette ci fanno presumere un ulteriore ampliamento dei suoi interessi, tant'è che nel 1745 egli si trovò padrone, in Milano, di ben cinque negozi. Né dovette limitarsi a commerciare sulla piazza di Milano, dal momento che, sempre nel 1745, fu in grado di richiamare liquidi da varie parti d'Italia per investirli nell'impianto di una fabbrica di maioliche "quasi all'uso di Sassonia" e di una filatura e torcitura di peli di capra e di cammello tinti.
La motivazione ad impegnarsi nel ramo manifatturiero, così poco promettente in Lombardia nonostante i continui inviti e le agevolazioni del governo austriaco, non ci è rivelata da nessun elemento. Né si spiega facilmente la decisione di intraprendere la fabbricazione di maioliche, che richiedeva personale altamente specializzato e un lungo periodo di sperimentazione (Federico Lattuada, che gli si era associato, desistette infatti subito, visti il prolungarsi della fase d'avvio e i costi iniziali). Il C. ci fornisce solo indicazioni sulle spese che dovette affrontare; ma queste ci appaiono piuttosto enfatizzate, anche se indicative: 120.000 lire per la ristrutturazione dello stabile e per gli impianti; 90.000 lire in viaggi, incentivi agli artigiani, esperimenti; 46.000 lire per l'acquisto dell'ospedaletto di S. Ambrogio di proprietà dell'Ospedale Maggiore (quest'ultima cifra è l'unica degna di tutta fede).
Le fabbriche, una volta avviate, non incontrarono per altro difficoltà, vuoi perché c'era in Lombardia un'alta domanda di quei prodotti, solitamente importati dall'estero, vuoi grazie all'appoggio governativo, vuoi perché esse non assunsero mai dimensioni eccessive, rimanendo anzi piuttosto contenute (rispetto ad analoghe esperienze coeve di altre regioni) in una proporzione intermedia fra la bottega artigiana e l'opificio padronale.
La manifattura delle maioliche, che poté avvantaggiarsi fin dall'inizio di una esenzione ventennale da ogni dazio regio d'importazione, dell'esenzione per dodici anni dai tributi civici sulle maestranze, di un contributo a copertura delle spese per materiale da costruzione e legna da ardere, si compose da principio di due sole fornaci. Ben presto però il C. fece installare una nuova fornace di grandi dimensioni e destinò le minori alle maioliche di fattura più fine. La macinatura degli ingredienti per l'incrostatura delle maioliche veniva compiuta al mulino della Cavalchina, in località Sant'Angelo; le terre fittili erano in gran parte importate dal Novarese. Quanto alle maestranze, il numero iniziale degli addetti, pari a ventotto (fra maestri, allievi, uomini di fatica e incaricati delle vendite), non venne praticamente mai sensibilmente aumentato. Anzi, il loro numero in taluni periodi decrebbe, come risulta dai ruoli del 1758-59, sicché, pur ottenendo il C. una produzione di crescente qualità, non si staccò mai decisamente da una dimensione artigiana. Se la manifattura ebbe le caratteristiche accentrate di un vero opificio, in questo caso lo si deve in gran parte al fatto che la produzione di maioliche, per il genere stesso della loro lavorazione, non consentiva il ripiego sulla produzione a domicilio.
Analoga vicenda caratterizza la storia dell'altra manifattura, sulla quale il C. faceva affidamento non solo in vista del consumo interno, ma anche in vista di una ambiziosa penetrazione nei mercati esteri più vicini (il Veneto soprattutto). Installata anch'essa nel vasto complesso dell'Ospedaletto (tanto vasto da essere in parte affittato per uso abitazione), da principio si compose di due mulini di 16 aspi ciascuno. Nel 1752 vi fu aggiunto un grande mulino di 72 aspi, servito da 432 rocchelli, che destò la meraviglia del Lalande quando nel 1765-66 venne in visita in Italia. Nell'opificio trovarono lavoro da principio solo venti addetti, in prevalenza donne. Otto anni dopo il numero dei lavoranti ammontava a cinquantatré e nel 1759 esso raggiunse il tetto delle sessantasette unità.
Tuttavia in quest'ultimo computo sono comprese venti donne che lavoravano a domicilio, sicché la dimensione media dell'azienda è quella che il filatoio aveva allo scadere del primo dodicennio di esenzioni fiscali: uno scritturale del negozio, tre impiegati per la vendita all'ingrosso, un direttore di fabbrica, tre uomini che attendevano al mulino, tre donne che facevano girare il rodone del mulino, una direttrice delle donne, due donne che facevano i filzoli, due donne che facevano "giù il pelo a quattro fili", undici donne che innaspavano i filzoli, quattordici donne che lavoravano il pelo colorato ad un filo solo, tre tintori. Tale manifattura era già un primo passo verso il modello di fabbrica; ma occorre considerare che era destinata unicamente a produrre semilavorati e che il meccanismo stesso delle concessioni e agevolazioni governative (analogo a quello per le maioliche) imponeva al C. di accentrare le varie fasi della produzione nell'ambito della manifattura, vincolandolo a tentare la sostituzione del lavoro manuale con quello meccanico.
Differente, e cioè improntata ancora al modello tradizionale del mercante imprenditore che integra ampiamente il lavoro svolto alle sue dirette dipendenze con il lavoro a domicilio, appare la manifattura che il C., sostenuto da una privativa ventennale e da un prestito agevolato di 100.000 lire, introdusse nel 1763. In essa si sarebbero dovuti produrre panni londrini, rattine, felpe, velluti di pelo, amiens operati e a fiori, scotti d'Inghilterra, ogni sorta di camellotti fini ed ordinari, saglie romane e scotti di Zurigo; l'impegno vincolante, inoltre, era quello di portare in breve i telai dai 38 iniziali a 60.
In effetti il C. si mantenne all'altezza degli impegni presi. Non solo. Col tempo diede a questa azienda dimensioni che, senza essere "grandiose", come egli le definiva, erano sicuramente ragguardevoli.
Però con gli anni ilpotenziamento venne sempre più realizzato a discapito della concentrazione manifatturiera.
Nel 1763 il C. faceva lavorare, in funzione di 38 telai, duecentosessantacinque dipendenti, tutti impegnati in fabbrica. Tre anni dopo al "visitatore" governativo De La Tour il C. denunciava cinquecento lavoranti, parte operanti in sede, parte nel circondario di Milano. I telai erano 56, ma a questi andavano aggiunti altri 11 telai battenti a domicilio. Nel 1771 una nuova ispezione, compiuta questa volta dal marchese Molinari, accertava l'esistenza di 64 telai, più 10 dislocati nella comunità di Lissone. Gli addetti erano trecentoventitré, tutti operanti in fabbrica.
Le maestranze non si erano dunque accresciute in proporzione alle macchine e ciò dovevasi al fatto che il C. aveva quasi completamente affidato la filatura ai contadini, mentre nel 1763 impiegava al mulinello ben centottantacinque operai, in massima parte donne. Quanto alla qualità delle lane prodotte dal C., è noto il giudizio quasi stroncatorio che ne diede nel 1766il De La Tour (in Relazioni…, 1941, pp. 9 s.). Ma esso contrastava con il parere positivo espresso tre anni prima dal marchese Pio Pallavicino, delegato della Giunta urbana del mercimonio (in Arch. stor. civico, Materie, 574), e con il giudizio più benevolo dato dal De La Tour stesso a distanza di un anno (Arch. di Stato di Milano, Commercio,p. a., 202). D'altronde il C., pur non rinunciando a produrre anche tessuti fini composti di lana, pelo e seta, aveva preferito specializzarsi nella produzione di tessuti correnti (dei quali rifornirà l'esercito e l'Ospedale Maggiore), che richiedevano fra l'altro un numero minore di addetti per unità produttiva (si intende il telaio). Complessivamente egli era comunque in assoluto il maggior produttore a Milano (1.127pezze nel 1771), seguito a grande distanza da tre soli concorrenti minori (in tutto 590pezze). In tutta la Lombardia, negli anni Ottanta, solo un'altra ditta, la Manzoni Aurelio e Sottocasa, contrasterà il primato del C. in questo tipo di produzione.
Per gli anni che seguono la visita del Molinari i dati sulle tre manifatture scarseggiano. Si conosce un tentativo, compiuto nel 1772, di introdurre la filatura idraulica, che ebbe riuscita "lodevole", ma che non sollevò affatto il C. dall'onere di dover importare il filato dalle valli bergamasche. Nello stesso anno dovette rinunciare alla privativa accordatagli nel 1763 dal governo, onde conformarsi alla nuova politica economica dell'Austria, che, rinunciando all'accentuato mercantilismo praticato fino ad allora, andava ripiegando su un più moderato protezionismo. La nuova linea di politica economica, compendiata nella massima di "premiar l'opera già fatta" (C. Beccaria, Elementi di economia pubblica, in Illuministi italiani, III, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1958, p. 182), gli costò anche la rinuncia alla speranza di garantirsi un'altra privativa per il reparto che aveva da poco aperto per la produzione di flanelle fiorate e lavorate a più colori, cui aveva destinato 14 telai.
Nei confronti della ditta Clerici, tuttavia, l'Austria non abbandonò mai completamente la pratica di favori che aveva consentito al C. di ridurre considerevolmente i costi dell'impresa. Per compensarlo della rinuncia alla privativa, nel 1772 applicò un dazio suppletivo temporaneo sul pelo di capra lavorato e tinto d'importazione. Inoltre, quando nel 1783 lo stabilimento patì un rovinoso incendio, che distrusse macchine e scorte, il governo intervenne in soccorso del figlio del C., Giuseppe Maria, che ormai dirigeva l'impresa, con un nuovo prestito agevolato di 100.000 lire. Del C. non si trova più cenno neidocumenti di quegli anni e ciò fa presumere, se non altro, che si fosse ritirato da ogni attività per l'età troppo avanzata. Purtroppo non è stato possibile accertare la data della sua morte e non s'è trovata neanche traccia del fedecommesso che istituì a favore del figlio.
Giuseppe Maria gestì con buon esito l'impresa per alcuni anni, com'è testimoniato dalla relazione dello Scorza (ispettore dei dazi dello Stato di Milano) del 1785 (in Verga, 1902, p. 132). Ma per una serie di difficoltà, di cui si ignorano la natura e la portata, la ripresa successiva all'incendio risultò ben presto effimera. Nel 1788Giuseppe Maria era fortemente indebitato con vari privati e non era in condizione di restituire allo Stato la forte somma prestatagli nel 1783. La proprietà ancora libera da oneri si riduceva d'altronde quasi soltanto allo stabilimento e divenne giocoforza alienarlo per soddisfare i creditori. A questa estrema soluzione si giunse nel 1789dopo svariate ispezioni governative, che accertarono l'ormai irreversibile decadenza dell'impresa, la quale aveva ridotto la produzione al punto d'impiegare soltanto 19 telai, sospendendo ben presto completamente la filatura a domicilio nelle comunità del Milanese.
La fabbrica di maioliche nel 1756, prima del 1º giugno, subì una grave perdita: il migliore dei suoi pittori, Pasquale Rubati, si era staccato e aveva deciso si fondare una manifattura indipendente che certamente produsse non pochi problemi di concorrenza al Clerici. Infatti in un'istanza del 27 giugno 1759 il C. si lamentava che il Rubati gli aveva copiato segreti e disegni per la sua nuova fabbrica. La diserzione del Rubati fu una delle prime, ma non l'unica; in seguito lavoranti di vario genere abbandonarono il C. per trasferirsi chi alle Nove di Bassano presso Pasquale Antonibon e chi a Roma.
Con un decreto del 13 maggio 1767 si riduceva a metà il dazio per l'ingresso della porcellana, e nonostante ciò l'attività della fabbrica continuò con vigore fino al 1776 circa. Da una delle solite istanze per l'esenzione di tasse, del 3 marzo 1772, la manifattura risulta in piena efficienza.
"Fissare e piantare in questa città una fabbrica di maiolica fina..., quasi all'uso di Sassonia,... che coll'andar del tempo può essere un tale negozio di sommo profitto al pubblico che al privato, oltre il decoro della medesima città...". Con queste parole il C. dichiarava esplicitamente i propri intendimenti. Superare le dirette concorrenti Lodi e Pavia ed avvicinarsi il più possibile alla leggerezza d'impasto ed alla qualità di decoro della porcellana. I suoi propositi certamente sono stati raggiunti tanto che la sua produzione spazierà nelle più svariate tecniche di decorazione: dal genere della cineseria, a quello di figure isolate o scenette inserite in motivi naturalistici, ad un genere che si rifà solo vagamente alle porcellane orientali ed occidentali, sviluppando i motivi in modo originale. Caratteristici sono i decori detti "Pino d'oro", "Struzzo" e "Carabiniere" ottenuti trattando i pezzi sia a "gran fuoco" per i colori come blu, giallo e manganese, sia a "piccolo fuoco o muffola" per il verde e il rosso. L'esotismo è anche rappresentato dai tipi con peonie, fior di pesco e bambù dipinti su grandi vasi ornamentali e servizi da tavola. La manifattura del C. è famosa soprattutto per quella gran varietà di prodotti realizzati traendo spunto da scene di vita e di costume dell'epoca o dalla "commedia dell'arte", schizzati con vivace realismo a macchiette di colore; sono giocolieri, straccioni, cacciatori, balli in maschera, soldati, maschere teatrali attorno alle quali volano uccelli e insetti giganti ed inquadrate da alberi o da rovine. Oltre alla produzione più comune di servizi da tavola, completi di ogni pezzo utile, vasi, fioriere, la fabbrica si distinse per l'elegante produzione plastica di statuine e magots porta orologio, eseguite pressando la creta in una matrice e perciò dette "a stampo". Queste morbide e graziose figure venivano rifinite con colori a freddo (soprasmalto) e talvolta sono scolorite in alcune parti.
F. Moro
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Notarile, 38.535 (14 apr. 1704), 38.537 (20 ag. 1715), 38.538 (24 marzo 1718), 37.401 (29 maggio 1720), 38.539 (22 apr. 1721 e 1º apr. 1723), 37.178 (23 marzo 1722), 38.540 (23 marzo 1724), 40.655 (27 sott. 1726), 40.656 (27 febbr. e 6 marzo 1727), 40.657 (26 febbr. 1728 e 27 ag. 1729), 41.818 (9, 20 e 30 dic. 1728), 41.837 (22 maggio 1745), 41.838 (11 ott. 1745); Ibid., Uffici regi,p. a., 446; Ibid., Commercio,p. a., 199, 202, 254; Milano, Arch. storico civico, Materie, 574, 897; Ibid., Famiglie, 477; Ibid., Località milanesi, 30, 44, 61, 76, 322; Milano, Ospedale Maggiore, Uffici e Officine, 147; Ibid., Passività, 26; J. Lalande, Voyage d'un français en Italie fait dans les années 1765et 1766, Genève 1790, I, pp. 350 s.; A. Genolini, Maioliche ital., Milano 1881, pp. 153 s., 157 s.; E. Verga, Le leggi suntuarie e la decadenza dell'industria in Milano(1565-1750), in Arch. stor. lomb., s. 3, XIII (1900), p. 96; Id., Un campionario dell'industria della lana milanese e comasca nel 1785, in Riv. delle bibl. e degli arch., XIII (1902), p. 132; Id., Le corporaz. delle industrie tessili in Milano: loro rapporti e conflitti nei secc. XVI-XVIII, in Arch. stor. lomb., s. 3, XIX (1903), pp. 109 s.; E. Chinea, Dalle antiche botteghe d'arti e mestieri alle prime scuole industriali e commerciali in Lombardia,ibid., s. 6, XIX (1932), pp. 470 s.; C. A. Vianello, L'industria,il commercio e l'agricoltura dello Stato di Milano nella seconda metà del secolo XVIII, Como1932, pp. 14, 18, 24; Id., Il Settecento milanese, Milano 1934, pp. 225, 231, 239, 272 n. 290; F. Valsecchi, L'assolutismo illuminato in Austria e in Lombardia, II, La Lombardia, Bologna 1934, p. 326; C. Baroni, Come sono state ordinate le ceramiche del Castello Sforzesco, in Milano, LII (1936), 3-4, p. 74; Relazionisull'industria,il commercio e l'agricoltura lombardi del '700, a cura di C. A. Vianello, Milano 1941, pp. XVI, 9 s.; L. Dal Pane, Storia del lavoro in Italia. Dagli inizi del sec. XVIII al 1815, Milano 1958, pp. 61, 66, 71 s., 166; G. Nicodemi, L'arte della maiolica nel Settecento a Milano, in Storia di Milano, XII, Milano 1959, pp. 842 s., 851 s.; B. Caizzi, Industria,commercio e banca in Lombardia nel XVIII secolo, Milano 1968, pp. 63 s., 121, 145; A. Forti Messina, La "disciplina degli operai" in Lombardia dopo la soppressione delle corporazioni(1787-1796), in Società e storia, 1978, n. 3, p. 485.
P. Cabrini
Per la bibliografia specifica: C. Baroni, Saggio sulle antiche ceramiche di Milano, in Arch. stor. lombardo, s. 6, VII (1931), pp. 420-465; Id., Maioliche di Milano, Milano 1940, pp. 35 ss.; G. Morazzoni, Maioliche diMilano, Milano 1948, pp. 15 s.; G. Gregorietti, Maioliche di Lodi,Milano e Pavia (catal.), Milano 1964, pp. 71 ss.; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, VII, p. 90.
F. Moro