FELICIANO, Felice (Antiquarius)
Nacque a Verona nell'agosto del 1433 da Guglielmo il cui cognome era Da Feno, e da una Caterina figlia di un Francesco da Reggio. Il padre, trasferitosi a Verona da Reggio Emilia tra il 1415 e il 1423, era ufficiale del Comune addetto all'esazione delle gabelle sul vino e poi negli ultimi anni fattore del monastero di S. Maria delle Vergini di Campo Marzo. Al nome di battesimo il F. fece seguire il cognomen latino Felicianus o, volgarmente, Feliciano, desunto pare secondo il costume corrente tra gli appassionati d'antiquaria, da un'epigrafe romana. Fino al 1469 aggiunse al nome elettivo l'appellativo di Veronensis, sostituendolo con il titolo di Antiquarius quando abbandonò la città natale disgustato dalle maldicenze dei suoi concittadini. Il padre morì nel 1449, mentre la madre viveva ancora nel '66.
Della famiglia facevano parte anche due fratelli, maggiori del F., nati a Reggio: Andrea, prete, Bernabò, fattore nella campagna veronese, verso il quale egli nutrì - ricambiato - una costante avversione, e la sorella minore Masina, andata sposa nel 1453 al notaio Bartolomeo de' Magnini.Le condizioni modeste della famiglia non consentirono al F. un curriculum regolare di studi. È probabile che la prima formazione, comprendente anche un'infarinatura di greco, avvenisse ad opera del fratello Andrea, più vecchio di ventidue anni, e poi da autodidatta frequentando a Verona le biblioteche del capitolo del duomo e dell'abbazia di S. Zeno, ricche soprattutto di opere religiose. Non sappiamo quando prese gli ordini religiosi, ma ancora adolescente dovette cominciare a copiare codici per diletto o per denaro. Già al 1446 risalirebbe un suo manoscritto (Verona, Bibl. comunale, ms. 2845) per il quale Mitchell (p. 221), seguito da altri studiosi, avanza però l'ipotesi di una iscrizione erronea del colophon per 1466. In effetti questa prima prova resterebbe isolata fino al 1450, da quando la produzione manoscritta del F. si sviluppò con continuità.
Influì forse sul giovane studioso la scuola dell'umanista veronese Martino Rizzoni, allievo con il fratello Giacomo di Guarino e corrispondente di Ciriaco Pizzicolli d'Ancona. È probabile che attraverso il Rizzoni il F. conoscesse almeno indirettamente l'opera del grande epigrafista che morì nel 1455, dopo una vita dedicata alle ricerche antiquarie. Non sono provati contatti diretti, ma l'interesse archeologico maturò presto, quando Ciriaco era in vita, e con esso la consapevolezza di raccogliere l'eredità spirituale dell'illustre maestro, come è testimoniato da una lettera inviatagli da Venezia nel 1457 dall'amico Antonio Leonardi (Treviso, Bibl. capitolare, ms. 1.138, c. 198v), nella quale questi lo ringraziava di avergli scritto a proposito del "nostro Ciriaco". Intorno al 1465, ad istanza di Samuele da Tradate, cortigiano di casa Gonzaga, il F. trascrisse nel medesimo codice, testimone unico, la Vita diCiriaco composta dall'anconitano Francesco Scalamonti. Il Mitchell (pp. 209 ss.) ha inoltre rintracciato le prove del possesso di carte di Ciriaco da parte del F. nel cod. Ambrosiano Trotti 373, autografo dell'anconitano, che contiene nell'ultimo fascicolo aggiunte di pugno del F. con passi dei Trionfi del Petrarca.
Ad alimentare nel giovane F. la passione per l'antiquaria contribuì certamente l'influenza della pittura ricca di elementi. classicheggianti di Andrea Mantegna, che negli anni 1457-59 dipinse a Verona la pala di S. Zeno. Con una dedica al Mantegna si aprono infatti i due esemplari pervenutici della silloge epigrafica messa insieme dal F. in quegli anni. Le lettere dedicatorie portano rispettivamente le date del 15 genn. 1463 e 1464. Per la recensio completa delle raccolte attribuibili al F. e da lui derivate si veda lo stemma tracciato dal Mitchell (p. 210).
All'"amicus incomparabilis", "picturae decus", il F. dichiara entusiasta la propria vocazione maturata sin dalla prima giovinezza attraverso la lettura dei classici. Non appena raggiunta l'indipendenza dalla famiglia, egli si dedicò interamente agli studi, trascurando altri impieghi più lucrosi verso i quali non provava attrazione. Per formare la raccolta non si è limitato alle epigrafi cittadine e a quelle facilmente accessibili, ma ha viaggiato "per civitates Italiae" e nelle campagne ha estratto i reperti dalle viscere della terra per collocarli nella giusta posizione e poterne leggere le iscrizioni. La lettera si impenna nella chiusa, pervasa dall'orgoglio umanistico per il restauro delle vestigia antiche sottratte all'azione distruggitrice del tempo, che "quidem omnia delet". All'epigrafia spetta il compito di far risorgere le testimonianze del passato rispettandone i valori stilistici e quindi in primo luogo l'aspetto della scrittura, in esplicita polemica con coloro che la trascurano meritando di essere giudicati "rectius barbari quam Latini".
L'Epikrafon raccoglieiscrizioni provenienti da numerose località. Quelle del Veronese e di altre città settentrionali come Mantova, Venezia, Milano, Brescia erano frutto dei rilievi diretti del F. e in una breve introduzione che le precede egli afferma di avere copiato di persona anche quelle romane e delle località intorno all'Urbe. A Roma il F. doveva essersi recato prima del 1460 stante la notizia data in apertura dell'Alphabetum Romanum datato con sicurezza dal Mardersteig (1959) a quell'anno. Altre epigrafi erano trasmesse da amici e conoscenti. A. Leonardi nella lettera citata invia testi di iscrizioni ritrovate a Torcello e a Murano; a Calisto Montano in partenza per l'Oriente il F. raccomanda di trascrivere le scritte che avrebbe trovato sui muri e sulle lapidi per consegnargliele al ritorno (Brescia, Bibl. Queriniana, ms. C II 14, c. 26r). Ma una parte cospicua del corpus epigrafico del F. derivava dal materiale ereditato da Ciriaco di cui, come ha mostrato Mitchell (pp. 197-221 passim), lo scrittoio del F. sembra essere stato il luogo di raccolta e di diffusione.
L'interesse del F. per la scrittura emerge anche nell'uso della minuscola, che rivela l'influenza dello stile ricercato ed ellenizzante di Ciriaco. Il F. si attenne al sistema della minuscola cancelleresca accentuando o temperando di volta in volta le invenzioni del maestro, quali l'uso di capitali epigrafiche nel corpo della parola, alcuni nessi epigrafici e particolari legamenti. Ma la sua fama è legata all'Alphabetum Romanum, conservato dal cod. Vat. lat. 6852, della Biblioteca apost. Vaticana, che segna la rinascita della scrittura lapidaria romana in età umanistica. Il manoscritto contiene 25 disegni di lettere ciascuno corredato di una breve nota esplicativa. Quella della lettera A spiega che alla base del canone sta la combinazione geometrica di un cerchio inscritto in un quadrato (integrata per alcune lettere da figure accessorie), cui sovrintende il "numero perfecto" dieci. Vale a dire che il rapporto tra l'altezza e la larghezza delle aste è di 1:10, in modo che il carattere "haverà tanto del tondo quanto del quadro", secondo "l'usanza antiqua" ricavata "per misure".
Il F. ricostruì dunque empiricamente l'alfabeto utilizzando i segni geometrici tracciati dagli antichi lapicidi e ancora visibili su alcuni monumenti, ma egli doveva conoscere modelli coevi di costruzione delle lettere nella scrittura gotica e il numero dieci come sintesi perfetta delle proporzioni è in Vitruvio, derivato dalla tradizione pitagorica. È tuttavia improbabile che testi teorici abbiano avuto parte nell'elaborazione dell'alfabeto. Le lettere, alte 8 cm, in differenti colori, sono dipinte ciascuna con due tinte per dare risalto al gioco di ombre che deriva dall'incisione cuneiforme dei marmi, anche se non mancano errori dovuti presumibilmente ad imperizia. Il disegno geometrico di base è stato tracciato tenuemente con lo stesso inchiostro rosa usato in tonalità più carica per le lettere, allo stesso modo della rigatura in basso dov'è allogata la scrittura. Quasi completamente sbiadito, esso indica che l'intento del calligrafo era quello di far emergere le lettere con nitidezza pittorica, trascurando l'aspetto tecnico della loro fattura. La seconda parte del codice contiene un Ricettario molto dettagliato per la preparazione degli inchiostri colorati: il F., oltre a dare gli ingredienti e le dosi, precisa anche i periodi dell'anno in cui sono disponibili i fiori e le erbe necessarie alla preparazione. Egli impreziosì spesso i suoi codici con i caratteri capitali dei titoli e delle epigrafi vivacemente colorati e in generale il suo estro artistico fu attirato dalla scrittura, che arricchì con elementi decorativi anch'essi derivati dalle iscrizioni lapidarie. Il disegno, non infrequente, rivela invece spesso caratteri di rigidità nel tratteggio, temperati dall'uso generoso del colore.
Sembra certo che il modello scrittorio elaborato dal F. fu utilizzato da architetti e lapicidi contemporanei. Nel 1468 appare nelle due epigrafi del nuovo mattatoio a Verona e caratteri molto simili per tracciato e modulo presentano le iscrizioni della villa di Benedetto Rizzoni a Quinzano nei pressi della città. Ancora il Mardersteig (L. B. Alberti..., p. 245) ha rilevato forti affinità con il fregio inciso da L. B. Alberti sotto la cornice della riproduzione in scala ridotta del S. Sepolcro edificata nel 1467 nella chiesa di S. Pancrazio a Firenze.
Nel codice trevisano della Vita di Giriaco è contenuto il testo del F. che con più suggestione testimonia il suo amore per l'archeologia. Due brevi scritti, i Memoratu digna e la Iubilatio, contengono il resoconto di un'escursione compiuta sul lago di Garda alla ricerca di reperti il 23 e il 24 sett. 1464. La narrazione funge da cornice in cui sono incastonate le epigrafi scoperte. Accompagnano il F. l'amico Mantegna, dal 1460 al servizio dei Gonzaga, Samuele da Tradate e un Giovanni Antenoreo da identificare con il padovano Giovanni Marcanova, dottore in arti e medicina, bibliofilo e professore di morale a Bologna dal 1453 fino alla morte avvenuta nel 1467. Presso di lui il F. soggiornò proprio negli anni '64-'65 e la sua presenza nella Iubilatio vale come omaggio al dotto protettore. Il manipolo di archeologi si riunisce a Toscolano sulla riva bresciana e si inoltra nella natura rigogliosa che li avvolge con i colori e gli effluvi dei fiori e dei frutti. Trasferitisi sull'isola dei Frati al centro del lago, in un ambiente idillico, ridente per i laureti, i frutteti, i palmizi e i prati decorati da fontane, scoprono un pilastro con alcune iscrizioni. Il giorno seguente, unitisi alla comitiva l'Antenoreo e una frotta di conoscenti, si susseguono i ritrovamenti. Infine, gli archeologi attraversano il lago su un'imbarcazione arredata di tappeti e inghirlandata di fronde al suono della voce di Samuele che si accompagna col liuto. L'escursione termina nel santuario della Vergine a Garda con una preghiera di ringraziamento per il fausto esito del viaggio.
Colpisce in questa sorta di versione in scala minore, provinciale e conviviale, dei viaggi compiuti da Ciriaco in Oriente (non a caso i due testi sono conservati dal codice trevisano che rappresenta un monumento alla memoria di quest'ultimo) il travestimento in antiquo dei personaggi e la proiezione del paesaggio in un'aura favolosa alimentata dall'eloquio fiorito e artificioso. Fu questa fusione di paesaggio idillico con elementi archeologici a suggerire alla studiosa russa A. Khomentovskaia l'ipotesi, destituita d'autorità dagli studi successivi, che al F. andasse attribuita l'enigniatica Hypnerotomachia Poliphili. Quanto nell'opera del Colonna è pura invenzione e contaminazione fantastica di elementi antichi, nel F. resta esercizio filologico fondato sull'esame dei monumenti, anche se non disgiunto da una vibrazione emotiva che travalica lo spirito meramente scientifico e assume forti coloriture letterarie.
Il F. si dimostra però catalogatore e copista spesso impreciso ed approssimativo. Clamoroso è il caso segnalato dal Mitchell nel cod. Marcanova (Estense lat. a.L.5.15 della Biblioteca Estense di Modena) in cui egli disegna porta Borsari, insigne monumento veronese d'età romana, con due archi e dodici finestre distribuite su tre piani - mentre in realtà sono dieci su due piani - seguendo l'errata descrizione fatta da Ciriaco e riportata nella Vita dello Scalamonti. Il Campana (1973-74) ha segnalato come nella Vita sia trascritta in modo scorretto l'epigrafe greca del tempio dei Dioscuri a Napoli, per colpa non certo di Ciriaco quanto dell'ignoranza del greco del F. e della sua disinvoltura nel crearsi un alfabeto greco epigrafico. Eguale trascuratezza ha riscontrato L. Monti Sabia nella Naumachia regia di Ciriaco del codice trevisano che presenta errori grossolani tipici di chi trascrive frettolosamente e meccanicamente.
La precocità della vocazione, l'indole irrequieta e curiosa, gli attriti con il fratello e con il pettegolo ambiente veronese, le costanti difficoltà economiche spinsero per tempo il F. a cercarsi una sistemazione più sicura. Dopo il 1461 ricorse senza esito all'amico Mantegna per una raccomandazione presso il cardinale Francesco Gonzaga e nel biennio '64-'65 fu con sicurezza a Bologna presso Giovanni Marcanova, ebbe accesso alla sua ricca biblioteca e lavorò nella sua officina libraria. Anche il Marcanova era un cultore d'antiquaria: collezionava monete antiche e scrisse un trattato perduto di antichità militari. A Padova cominciò una raccolta epigrafica che fu terminata a Bologna nel 1460. Due dei codici che la tramandano sono di mano del Feliciano. Il citato ms. α.L.5.15 della Bibl. Estense, terminato a Bologna il 1º ott. 1465, splendidamente ornato, è considerato il suo capolavoro, forse destinato come esemplare di dedica a Malatesta Novello signore di Cesena, poi non consegnato per la sua morte nel 1465. Tra i codici della veneziana Biblioteca nazionale Marciana provenienti dallo scriptorium del Marcanova il Mitchell (p. 206) ha riconosciuto la mano del F. in un Marco Polo (ms. Lat. X.73 [3445]), nel ms. Lat. X.64 (3691) contenente la Brevis historia e la traduzione dell'Apologiadi Socrate di L. Bruni, nel ms. Lat. VI.135 (3641) delle Lettere di Platone nella traduzione del Bruni. Altri codici marciani presentano solo decorazioni o colophon vergatidal F., a testimoniare il suo inserimento nell'evoluto centro scrittorio bolognese in virtù della sua abilità di calligrafo e miniatore.
Il soggiorno bolognese dovette essere un periodo di attività fervida, ma all'inizio del 1466 il F. era di nuovo a Verona in ristrettezze economiche, se il 27 febbraio fu costretto a vendere la raccolta di rime, Oggi ms. 521 Library of the Earl of Leicester di Holkham Hall (Norfolk, Inghilterra), compilato quattro anni prima per suo uso privato "non per prestare salvo che a più carissimi compagni". E il 21 marzo dettò il suo testamento, forse in previsione di un lungo viaggio.
La qualifica di scriptor con cui vi è menzionato allude alla dignità professionale di copista riconosciutagli pubblicamente, ma il ritratto che ne emerge è di sostanziale povertà. Risulta in possesso di un patrimonio di libri ammontante a 80 ducati e in medaglie antiche per 20 ducati, oltre a disegni e pitture eseguiti "a pluribus excellentibus magistris", tra i quali possiamo immaginare opere di Mantegna e dello scultore Cristoforo di Geremia, da dividere tutti tra la madre e il cognato Bartolomeo de' Magnini. Nel testamento figura come legatario anche il fratello Bernabò, cui è destinata la metà di un'irrisoria rendita di un piccolo podere, da intendere piuttosto come gesto di dispetto e irrisione.
Una prova della considerazione raggiunta dal F. nell'opinione dei contemporanei è costituita dai tre epigrammi latini indirizzatigli da G.M. Filelfo e collegati dal Mardersteig (Tre epigrammi..., pp. 375-77) al soggiorno dell'umanista a Verona tra il '67 e '68. Invitato dal Comune a tenere una lezione, il Filelfo riscosse alla presenza dei maggiorenti della città un grande successo e undici giorni dopo gli fu conferita la cattedra veronese di grammatica e di retorica per due anni, incarico che abbandonò alla fine del 1468 o al principio dell'anno successivo assecondando il suo carattere irrequieto e volubile.
Il F. aveva probabilmente conosciuto il Filelfò a Bologna quando questi vi insegnava e non si può escludere del tutto che gli epigrammi siano da attribuire a questa occasione. Dai tre brevi componimenti, oltre alla familiarità e agli elogi per la perizia nel decorare e rilegare libri, si ricava che il F. aveva scritto un codice per l'umanista e questi, insoddisfatto del lavoro, se ne lagna scherzosamente. Tracce di scambi eruditi tra i due sono state rinvenute dal Mardersteig (Tre epigrammi, p. 382) nel codice autografo del Filelfo Vat. lat. 5245, dove alle cc. 69r-70r figurano tre epigrafi latine di mano del F., mentre il Vat. Urb. 804, cc. 232-233v, conserva due sonetti del Filelfo a lui dedicati.
Ma dopo la collaborazione con l'officina libraria del Marcanova sembra attenuarsi nel F. l'interesse per l'epigrafia ed emergere in primo piano quello per la poesia. Di poesia dovette dilettarsi già per tempo parallelamente alla passione antiquaria, se la prima silloge autografa risale al 1460 (attuale cod. Estense. It. 1155 [α N. 7.28] della Bibl. Estense) e contiene accanto alle rime di Niccolò Malpighi, Fazio degli Uberti, Simon da Siena, Filippo Nuvolone, Medea Aleardi e del Saviozzo, il citato sonetto del F. al Mantegna (c. 7r) e due allo scultore Cristoforo di Geremia (cc. 6v e 8v). Al luglio 1462 risale il cod. 521 della Library of the Earl of Leicester di Holkhain Hall venduto quattro anni dopo per bisogno; al 1465 la trascrizione del canzoniere La bella mano di Giusto de' Conti nel cod. Canon. it. 56 della Bodleian Library di Oxford e intorno al 1470 il F. scrisse buona parte dell'importantissimo cod. Ottelio della Biblioteca comunale di Udine che tramanda le opere dei poeti veronesi dei secc. XIII-XV, tra cui anche le rime dell'amico Giorgio Sommariva.
La produzione lirica del F. è trasmessa da vari codici inframezzata a rime di altri autori; alcuni sonetti sono sparsi nelle lettere. Dalla recensio operata dalla Gianella (pp. 469 s.) essa ammonta a 184 componimenti: 166 sonetti, dei quali 51 caudati e in maggioranza giocosi, seguono terze rime, solo tre canzoni, sirventesi, ballate, strambotti e una rima polimetra. La poesia del F. evidenzia in buona parte tratti comuni alla rimeria coeva. Il modello petrarchesco, sperimentato nelle versioni di Giusto de' Conti e del Sommariva, viene significativamente ridimensionato nella varietà metrica sacrificando le forme più illustri e impegnative - la canzone e la sestina - e accogliendone altre più pedestri. Allo schema del canzoniere il F. sembra aderire con le poesie per la sua amata Pellegrina da Campo (ms. Marciano it. IX.257 [6365]) composte durante il soggiorno veronese tra il '65 e il '69, dove riprende situazioni topiche della lirica amorosa: la celebrazione della bellezza della donna, il sentimento celato e non corrisposto una volta rivelato, il dono respinto. Estraneo all'ispirazione del F. è però il sottile gioco psicologico del Petrarca a cui egli sostituisce per lo più l'accentuazione iperbolica dei momenti dell'itinerafio amoroso. Costante sul piano dell'espressione la forzatura di stilemi del linguaggio petrarchesco come i sonetti costruiti per impossibilia, nei quali il risultato è di vacuo virtuosismo, in una ridda di immagini paradossali e grottesche concluse repentinamente in clausola. Così, ad esempio, è costruito il sonetto ad un amico nel medesimo codice Marciano, c. 76r: "In odio all'oche l'aqua, al mar il pesse" che itera questa figura fino al verso finale "prima che l'amor tuo m'escha dal core". Frequente l'esasperazione di altri procedimenti come le antitesi, l'accumulo nominale in uno o più versi (il sonetto "Io son tra tori, orsi e tra leoni / Tra bovi e porci che pascon gianda" nel cod. Canon. it. 15 della Bodleian Library), le iterazioni, le strutture dittologiche. Un'ispirazione cosi composita e sovrabbondante giunge ad esiti barocchi avanti lettera come nella corona di sette sonetti nei quali il F. immagina che i pianeti cantino le lodi di Pellegrina. Alla sua indole eccentrica sono più congeniali componimenti come le disperate, di cui fu assiduo praticante, e i sonetti giocosi o di invettiva. È in questi versi più scoperti e compromessi linguisticamente che affiora spesso l'altro modello poetico che influenzò lo stile del F. e cioè Dante, "il mio santissimo Dante degli Alighieri" e "la sua illustre Comedia", come scrive nella XIII epistola del cod. 3039 della Comunale di Verona (compilato nel '64-'65) diretta al fiorentino Giovanni Lattanzio. Non stupisce questa eredità dantesca condivisa con buona parte della rimeria veneta quattrocentesca e autorizzata a Verona dalla residenza nella città del ramo della famiglia del poeta discendente da Pietro Alighieri. Il F. mostra di orientarsi verso quei luoghi del poema più suggestivi per la grandiosità spettacolare delle invenzioni come nella lunga citazione del passo sul veglio di Creta da Inf. XIV, 94-111, nella lettera sull'amicizia ad Antonio Marino (in Riva, Un'epistola..., pp. 666 s.) oppure quelli più stimolanti per il repertorio linguistico cui attingere, come nel sonetto contro le malelingue "Chiunque tu sei che pensi de amorbare" (Parigi, Bibl. nationale, cod. It. 7789, c. 16r), nutrito di prelievi dai canti di Malebolge.
Nella primavera del 1467 è documentata la presenza del F. a Bologna, impegnato nella compravendita di codici. Nel 1468 era di nuovo a Verona, dove vendette un terreno di proprietà della madre, ma poi, seccato dalle voci infamanti sparse sul suo conto - correvano insinuazioni di omosessualità -, ritornò a Bologna. Qui, morto il Marcanova, si legò all'ambiente della corte bentivogliesca stringendo amicizia con il magistrato Antonio di Lino e frequentando letterati di corte come Giovanni Sabadino degli Arienti e Cesare Nappi.
Messa da parte la passione per l'antiquaria e l'esercizio della poesia è di questo periodo l'infatuazione per l'alchimia, che lo assorbì furiosamente in un alternarsi di slanci e delusioni da cui uscì spazientito e contrariato. Ne lasciò testimonianza in un opuscolo indirizzato all'anuco veronese Antonio Nogarola dove traccia un autoritratto comico seguito da otto sonetti di elogio e invettiva verso lo Geber, l'alchimista persiano dell'VIII secolo Giābir ibn Hayyān, la cui opera, sembra ereditata dal padre, lo aveva spinto a praticare quest'arte. Lo scritto del F. fu tenuto presente pochi anni dopo da Sabadino degli Arienti, quando nella novella III delle Porrettane fa narrare a Gregorio Lavagnola una disavventura occorsa al F. tutto preso dalla frenesia alchimistica. Anche la novella XIV, raccontata da Filippo Vitali, fratello di Giacomo cui è dedicato il ms. di Cambridge, Mass. (Harvard College Library, Ph. Hofer coll., ms. Typ. 157) che contiene l'opuscolo dedicato al Nogarola, è una rielaborazione della lettera del F. ad Antonio di Lino da Castel San Giorgio, dove questi lo aveva inviato come vicario, nella quale dipinge a tinte fosche l'ambiente rozzo e inospitale della villa. La dipendenza di altre novelle dall'epistolario del F., oltre a configurare rapporti precisi per quanto attiene alla dinamica delle fonti della raccolta, consente di riportare nei limiti di un autoritratto letterariamente atteggiato quell'aura di follia che si è voluta attribuire al personaggio sulla base delle due novelle arientiane.
Il soggiorno bolognese si protrasse fino al 1473. Successe un periodo fitto di spostamenti che non sempre è possibile ricostruire dagli epistolari. Per qualche tempo il F. fu segretario del vescovo Filasio Roverella, legato papale a Perugia e poi successore dello zio Bartolomeo nell'arcivescovado di Ravenna. Al seguito di Filasio il F. si trovava a Roma nel settembre del 1474. Di lì viaggiò in Liguria e, nel '75, di ritorno dalla Germania, fu a Venezia e poi a Ferrara. Meno certi sono viaggi in Spagna e Ungheria. Nel settembre del 1474, ospitato a Poiano, nel contado veronese, dall'amico Gregorio Lavagnola da poco sposato con Francesca de' Medici, scrisse il suo testo in prosa più lungo: la Gallica historia intitulata Iusta Victoria che offrì in dono alla donna. Nell'introduzione il F. dice di averla trovata "in lingua grammatica" in fondo ad un libro di "historie de' Longobardi" e tradotta in volgare. In effetti, una lettera della raccolta alla Queriniana, c. 79r, parla del ritrovamento di "fragmenti di antiqui libri longobardi" nella biblioteca di S. Ilario a Pavia, sebbene sembri trattarsi qui di carte sparse piuttosto che di un codice integro e soprattutto una chiesa con questo nome non risulta esistente nella città.
La novella narra la storia del giovane Drusillo, mandato dal padre, il conte Ubaldo, a Parigi presso la corte di Adoardo II. Qui egli si distingue per virtù e diventa amico inseparabile del figlio del re, Rodolfo, destinato a succedergli sul trono. Vittoria è rinchiusa nel frattempo in un palazzo per preservarne la virtù e darle conveniente istruzione in vista di un possibile matrimonio con Rodolfo. Ma il perfido siniscalco Galvano, invidioso di Drusillo, dopo essersi vantato di aver posseduto la fanciulla, corrompe le due ancelle che la accudiscono e da loro conosce l'arredo della camera da letto e un intimo particolare anatomico. Può così provare con la frode di aver detto la verità. Drusillo, che aveva sfidato il calunniatore, è condannato in giudizio; quando sta per essere eseguita la sentenza capitale viene salvato da Vittoria che prova davanti a tutti la propria innocenza. Il racconto segue il tema dell'onore della donna messo in dubbio, originario della letteratura francese e da esso passato in quella italiana. In particolare, è stata rilevata l'affinità con la novella di Zinevra Lomellina (Dec., II, 9) che presenta una trama analoga in versione romanzesca e condivide con la Iusta Victoria il particolare anatomico del neo sotto il seno. Qualche analogia è anche con la novella, attribuita a lungo a Leon Battista Alberti, di Ippolito Buondelinonti e Lionora de' Bardi ben nota al F. per averla copiata in quattro codici. Il F. traduce probabilmente con ampia libertà l'originale. Già il Di Francia notò alcuni elementi superflui non interamente sviluppati nel congegno narrativo, come il matrimonio tra Vittoria e Rodolfò che viene prospettato senza avere esito o il guanto sontuosamente ricamato che Vittoria esibisce per provare la falsità delle accuse di Galvano. Indicativi di uno stile compiaciuto e ridondante alcuni indugi descrittivi che interrompono la fluidità della narrazione: ad esempio, il minuzioso ritratto della camera della fanciulla o della processione che accompagna Drusillo al patibolo. Il tono stilisticamente ricercato, impreziosito da latinismi e costrutti artificiosi, conferisce alla leggerezza favolosa dell'originale che si intravede nella trama un andamento più sostenuto, come nel caso del vanto, luogo topico della letteratura romanzesca, che nell'interpretazione del F. perde il caratteristico tono giocoso per assumere un ritmo più misurato e solenne.
Accanto alla prova novellistica, sul versante della prosa il F. si segnala per una cospicua produzione epistolare. La Gianella (p. 473) ha catalogato 193 lettere tra quelle scritte dal F. e quelle dei corrispondenti, provenienti da quattro codici di cui tre autografi e il quarto copiato poco dopo la sua morte con pesanti interventi sull'originale. 1 terni ricorrenti nell'epistolario sono in parte quelli circolanti in più illustri raccolte umanistiche, in primo luogo l'amicizia e la paupertas, spesso sostenuti da un apparato classico e mitologico teso ad elevare il dettato ma avvertiti con sincerità da chi, come il F., condusse una vita randagia e inquieta. Opposto e complementare ricorre spesso il tono del risentimento e dell'invettiva verso i suoi ingrati concittadini. Emergono inoltre le curiosità e gli atteggiamenti del F. davanti ai fatti che coinvolgono lui e i suoi conoscenti: le consolazioni per la perdita di un familiare o delle ricchezze, la gioia per un matrimonio o per la nascita di un erede, il ritrovamento di antiche carte, il diletto per la musica.
Una precisa sezione costituiscono nel corpus le epistole dove prevale il tono giocoso e il F. cede al compiacimento della descrizione iperbolica o dell'autoritratto caricaturale mettendo in mostra un repertorio linguistico attinto agli strati popolareschi della lingua. Nelle lettere più impegnate sul piano intellettuale si evidenzia un andamento stilistico che risente della lezione boccaccesca, ma corretta in senso erudito. L'esasperata latinizzazione della grafia e il lessico artificioso risultano così i caratteri più vistosi di una tessitura preziosa del periodo. La scrittura epistolare del F. partecipa di quella prosa d'arte divisa fra toscanizzazione e suggestioni erudite fiorita in Italia settentrionale nella seconda metà del XV secolo e che nel Colonna ebbe il suo prodotto più eclatante.
Dopo il 1470 si colloca l'interesse del F. per la nascente arte tipografica, che fece la sua apparizione a Verona nel 1472 con l'edizione del De re militari di Roberto Valturio per i tipi di Giovanni da Verona. La stampa, presentata nella sottoscrizione come "liber elegantissimus", mostra spazi bianchi ai capilettera, ai titoli e alle tavole dove avrebbero dovuto figurare le eleganze. Evidentemente, secondo una prassi non insolita ai primordi della stampa, gli esemplari avrebbero dovuto essere completati a mano prima di essere messi in commercio. Che questo compito fosse stato intrapreso e poi abbandonato dal F. per qualche motivo mostra l'esemplare vaticano (Stampe Ross. 1335) decorato dal Feliciano. L'ingegno curioso del F. intuì, subito le possibilità che offriva l'unione dell'antico metodo scrittorio con il nuovo mezzo tipografico. Al 1475 risale il cod. 1659 della Bibl. comunale di Trento nel quale egli copiò lo scritto antiebraico composto e stampato l'anno prima a Padova da Giovanni da Lubecca Pronosticon super Antechristi adventu in carte ornate da cornici silografiche con volute vegetali. Gli stessi legni furono utilizzati per uno dei due tipi di comici della stampa del De viris illustribus del Petrarca nel volgarizzamento di Donato Albanzani eseguita dal F. a Poiano l'anno seguente insieme a Innocente Zileto. Alcune carte presentano solo le comici ed erano destinate ad accogliere i titoli dei capitoli in lettere capitali dell'Antiquario.
La stampa del Pronosticon era dedicata al vescovo di Trento Giovanni Hinderbach che il F. aveva conosciuto durante il viaggio in Germania nel '74. Lo Hinderbach era allora il principale artefice del processo contro gli ebrei della città accusati di un fatto di sangue avvenuto nella settimana santa del 1475. Il "martirio" del beato Simonino da Trento diede origine ad una nutrita pubblicistica antiebraica e sull'episodio scrisse un componimento in terzine tra gli altri Giorgio Sommariva. Anche il F. fece la sua parte, come mostra oltre al Pronosticon la registrazione nel catalogo seicentesco della biblioteca del convento del Corpus Domini bolognese (cfr. Spanò Martinelli, pp. 226 s.) di "una sceleragine de' Giudei tradotta in volgare et stampata in Verona l'anno 1473 alli 22 maggio, mandata alla badessa et composta per Feliciano antiquario". Il dono si spiega alla luce dei probabili contatti avuti negli anni del soggiorno a Bologna tramite il Marcanova che fu legato a vario titolo al monastero.
Ancora al 1475 risale la collaborazione del F. nella tipografia di Severino da Ferrara, dove curò l'edizione di cinque testi di vario argomento. Nel 1478 si trovava a Roma, residente nel popolare quartiere Parione e iscritto alla Confraternita di S. Spirito e S. Maria in Sassia. In condizioni economiche precarie, aspirò invano a qualche servizio in Curia.
A contatto con i monumenti sparsi in città e nei dintorni rinacque l'antica passione per l'antiquaria favorita dal nuovo protettore Francesco Porcari, autore a sua volta di una raccolta epigrafica descritta da fra' Giocondo da Verona nel 1480. Al Porcari è intitolata la quarta e più voluminosa raccolta di lettere (Brescia, Bibl. Queriniana, ms. C.II.14), contenente 135 pezzi, che è però un apografo generalmente in fido. Nel codice sono contenute le ultime lettere del F. rifugiatosi nel 1479 nelle "Silve de la Storta", località sulla via Cassia a pochi chilometri dall'Urbe, per sfuggire alla pestilenza che infuriava in città.
Qui, in uno stato di indigenza descritta ancora una volta in toni iperbolici nelle missive dirette agli amici (l'ultima lettera è datata 4 ag. 1479), il F. si spense probabilmente senza far ritorno in città e godere di una degna sepoltura.
Per un curioso scherzo del destino, l'autoepitafio che non figurò sulla sua lapide fu accolto come antico tra le Inscriptiones sacrosanctae vetustatis di Appiano (Ingolstadt 1534) finché non fu riconosciuto da Scipione Maffei.
La Gallica historia e l'Alphabetum Romanum sono stati pubblicati in edizioni numerate dal Mardersteig (rispettivamente Verona 1943 e 1960). L'Alphabetum haanche un'edizione facsimilare con prefazione di R. Avesani (Milano-Zurigo 1985-1987). Alcune piacevoli epistole e Beata dolcissima cosa fusempre la vera amicizia. Epistola dal cod. c.II 14 della Biblioteca Queriniana di Brescia ha pubblicato F. Riva (rispettivamente Verona 1965 e Poiano 1976).
Bibl.: I contributi più recenti e la bibliografia aggiornata sul F. sono nel recente volume miscellaneo L'"Antiquario" F. F. veronese tra epigrafia, letteratura e arti del libro. Atti del Convegno di studi Verona, 3-4 giugno 1993, a cura di A. Conto-L. Quaquarelli, Padova 1995. Qui di seguito si elencano i titoli principali. S. Maffei, Verona illustrata, Verona 1731, coll. 98-100; G. Tiraboschi, Storia della lett. it., II, Milano 1933, pp. 571 s.; R. Schoene, F. F. Veronensis opusculum ineditum, in Ephemeris epigraphica, I (1872), pp. 255-69; C. Mazzi, Sonetti di F. F., in La Bibliofilia, III (1901-02), pp. 55-68;L. Di Francia, Novellistica, I, Milano 1934, pp. 331-34; V. Scholderer, A note on F. Antiquarius, in Gutenberg Jahrbuch, VIII (1933), pp. 34 s.; G. Gerola, Codicetto trentino del 1475 a fregi silografati, in Accademie e biblioteche, VIII (1934), pp. 39-42; A. Khomentskaja, F. F. da Verona comme l'auteur de l'Hypnerotomachia Poliphili, in La Bibliofilia, XXXVII (1935), pp. 154-74 e 200-12; XXXVIII (1936), pp. 20-48 e 92-102; G. Mardersteig, Nuovi documenti su F. F., ibid., XLI (1939), pp. 102-10; A. Campana, F. F. e la prima edizione del Valturio, in Maso Finiguerra, V (1940), pp. 211-22; L. Pratilli, F. F. alla luce dei suoi codici, in Atti del R. Ist. veneto di scienze, lett. ed arti, classe di scienze morali e lett., XCIX (1940), pp. 35-105; G. Mardersteig, L. B. Alberti e la rinascita del carattere lapidario romano nel Quattrocento, in Italia medioev. e umanistica, II (1959), pp. 285-307; C. Mitchell, F. F. Antiquartus, in Proceedings of the British Academy, XLVII (1961), pp. 197-221 e tavv. XXVI-XLI;F. Riva, Saggio sulla lingua di F. delle "Epistole agli amici", in Atti dell'Ist. veneto di scienze, lett., ed arti, classe di scienze morali e lett., CXXI (1962-63), pp. 63-334;J. Wardrop, The Script of Humanism, Oxford 1963, pp. 16 ss.; G. Mardersteig, Tre epigrammi di G. M. Filelfo a F. F., in Classical, medioeval and Renaissance Studies in honour of B. L. Ullman, Roma 1964, II, pp. 375-83; G. P. Marchi, Due corrispondenti veronesi di Ciriaco d'Ancona, in Italia medioev. e umanistica, XI (1968), pp. 317-29; Ippolito e Lionora [trascr. del cod. Typ 24della Harvard College Library di Cambridge, Mass.], a cura di G. Mardersteig, Verona 1970;A. Scolari, Pagine veronesi, Verona 1970, pp. 53-70;O. Pächt-J. J. G. Alexander, Illuminated manuscripts in the Bodleian Library Oxford, II, Italian School. Oxford 1970, p. 65, nn. 636-41e tavv.; A. Tissoni Benvenuti, IlQuattrocento settentrionale, in Letteratura italiana. Storia e testi (Laterza), a cura di C. Muscetta, III, 2, Bari 1972, p. 266 ss.; A. Campana, Ciriaco d'Ancona e L. Valla sull'iscrizione del tempio dei Dioscuri a Napoli, in Arch. classica, XXVXXVI (1973-74), pp. 84-102;F. Riva, Un'epistola di F. sull'amicizia e proposte di ulteriori accertamenti, in Atti dell'Ist. veneto di scienze, lett. edati, classe di scienze morali e lett., CXXXIV (1975-76), pp. 663-80;L. Monti Sabia, La "Naumachia regia" di Ciriaco d'Ancona, in Annali della Fac. di lett. e filosofia dell'univ. di Napoli, n.s., VIII (1977-78), pp. 146 ss.; G. Gianella, Il F., in Storia della cultura veneta, III, 1, Vicenza 1990, pp. 460-77; E.B. Welles, The unpublished alchemical sonnets of F. F.: an episode in science and humanism in 15th century Italy, in Ambix (Lonson), XXIX (1982), pp. 1-16;R. Avesani, Verona nel Quattrocento. La civiltà delle lettere, in Verona e il suo territorio, IV, 2, Verona 1984, pp. 113-44;S. Spanò Martinelli, Note intorno a F. F., in Rinascimento, XXV (1985), pp. 221-38;S. Marcon, Vale Feliciter, in Lettere italiane, XL (1988), pp. 536-56;G. Castiglioni, Il calamo felice. Noterella su F. F. decoratore, in Verona illustrata, I (1988), pp. 19-30;M. Billanovich, Incontro alla "Iubilatio" di F. F., in Italia medioevale e umanistica, XXXII (1989), pp. 351-358; A.Hobson, Humanists and bookbinders: the origins and diffusion of the humanistic bookbinding 1459-1559, Cambridge 1989, p. 255;L. Quaquarelli, "Intendendodi poeticamente parlare"; la "Bella mano" di Giusto de' Conti fra i libri del F., in La Bibliografia, XLIII (1991), pp. 177-200; D. Fattori, Spigolature su F. F. da Verona, in La Bibliofilia, XCIV (1992), pp. 263-269; P. Simoni, Una attribuzione a F. grande umanista veronese, in Verona fedele, n.s., XLVIII (1993), 37, p. 13; A. Comboni, Rarità metriche nelle antologie di F. F., in Studi di filologia italiana, LII (1994), pp. 65-92.