ROMANI, Felice
– Battezzato Giuseppe Felice Romano, nacque a Genova il 31 gennaio 1788, primogenito di Angelo Maria e di Geronima Viacava.
Ebbero possedimenti in Moneglia, poi alienati in parte quando le condizioni familiari peggiorarono; il declino indusse il padre a tentare la fortuna come direttore di balli, indi ad abbandonare la famiglia. Responsabilità precoci gravarono dunque sul giovane, che studiò presso gli scolopi, in particolare con Giuseppe Solari, cattedratico di greco a Genova dal 1803, e Faustino Gagliuffi, ivi pure docente e poi poeta improvvisatore in latino. Diciassettenne, mutato il cognome in Romani, verseggiò in accademie (1805), ebbe premi di poesia (1806), fu supplente in università, scrisse poemetti nuziali per aristocratici (1808), fu poeta ufficiale per le nozze di Napoleone con Maria Luisa (1810) e la nascita di Napoleone Francesco (1811). Addottorato in lettere, forse laureato anche in legge, declinò un insegnamento universitario offertogli dopo che ne fu rimosso Solari (1809).
Tra il 1810 e il 1812, pare, Romani fu in viaggio all’estero, in Germania – con il giovane Giacomo Meyerbeer, cosa però non documentata – e a Parigi (molte notizie si desumono dai «cenni biografici e aneddotici» pubblicati dalla vedova, Emilia Branca, nel 1882: tardivi e agiografici, ma non per questo necessariamente inattendibili). Al rientro si stabilì in Lombardia; esordì come librettista a Genova, nel febbraio del 1813, aggiustando La rosa bianca e la rosa rossa per un compositore di spicco, Giovanni Simone Mayr, che forse ne favorì l’avvio in carriera: per lui scrisse pure Medea in Corinto, data al San Carlo di Napoli nel novembre successivo, e un patriottardo Atar inscenato nella Genova repubblicana nel 1814. Nel dicembre del 1813 firmò un contratto con Francesco Benedetto Ricci, impresario dei teatri di Milano: di lì a fine 1814, prima e dopo il ritorno degli austriaci, mandò in scena una commedia (L’amante e l’impostore, edita nel 1820) e cinque melodrammi, di cui due per l’astro montante, Gioachino Rossini (Aureliano in Palmira, Carnevale 1814; Il turco in Italia, da Caterino Mazzolà, autunno 1814). Nel 1815 avrebbe pubblicato solo componimenti poetici a Genova (in morte di Solari, in onore di Vittorio Emanuele I) e un’antologia di varietà letterarie. Tra l’aprile del 1816 e il marzo del 1820 si affermò definitivamente come librettista nei teatri di Milano, sovrintendente Angelo Petracchi, producendo almeno quindici melodrammi per i principali maestri scritturati alla Scala; ma ebbe commissioni teatrali anche da Napoli e Roma (ancora con Mayr), Venezia, Trieste. Nel 1819, da poligrafo, rilevò con il collega Antonio Peracchi la compilazione di un appena avviato Dizionario d’ogni mitologia e antichità, che uscì a Milano in otto ponderosi volumi fino al 1827.
Minori soddisfazioni professionali ebbe nel quadriennio seguente, quando i teatri di Milano vennero gestiti prima da un’impresa provvisoria (1820-21), poi direttamente dal governo (1821-24): il più anziano Luigi Romanelli fu reinsediato come poeta fisso (lo era stato già sotto i francesi, e dal 1816 era professore d’eloquenza in conservatorio). Meno numerose, le commissioni di libretti di questi anni rialzarono tuttavia le quotazioni di Romani – risulta infatti che musicisti di grido (Saverio Mercadante, Francesco Morlacchi, Meyerbeer) pretendessero di valersi di lui anziché del poeta stipendiato – anche se sul lato economico dovette patire qualche difficoltà, tanto da considerare seriamente una diversa carriera, sempre in società con Peracchi: prima da agente teatrale (Milano 1823), poi da impresario dei teatri di Genova (1824-25). Frattanto collaborò al periodico L’ape italiana (Milano 1822-24), edito da Nicolò Bettoni, e scrisse libretti per altre piazze; mentre un contratto da «poeta di teatro» a compenso fisso pagato a mesi, siglato dopo la metà del 1824 con il nuovo appaltatore milanese Peter Glossop, diede scarsi esiti (tre libretti fino a fine 1825, retribuiti a singhiozzo).
Le attività critico-letterarie lo assorbirono nel 1826. Redasse da solo i due volumi di supplemento del Dizionario mitologico; e da classicista tardoilluminista si gettò in una furibonda polemica contro I Lombardi alla prima crociata di Tommaso Grossi. Con due velenosi pamphlet, firmati Don Libero e Don Sincero, alimentati fors’anche dall’invidia per il successo tributato dalla Milano bene all’autore e al suo poema epico, ne attaccò la commistione di stili, l’«imitazione» d’una «natura […] abbietta [e] deforme» (Sui primi cinque canti dei Lombardi alla prima crociata, Milano 1826, p. 44), le contaminazioni tra storia e invenzione, scatenando peraltro una massiccia reazione di parte romantica (apparvero almeno quattordici opuscoli di confutazione). Tali rapporti di forza dovettero pesare anche nell’autunno del 1827: come direttore-compilatore della Vespa, nuovo quindicinale di Bettoni, Romani stroncò in quattro ampi articoli i Promessi sposi freschi di stampa; ma suscitò reazioni giornalistiche tali da indurre lo stampatore a ridimensionarne subito ruolo e interventi, e infine a sostituirlo nel giro di 4-5 mesi.
Forse per contraccolpo alle polemiche letterarie, negli anni 1827-30 Romani riprese a gran ritmo l’attività di librettista, ma più spesso del solito lontano da Milano. Influì probabilmente il recente sodalizio con la nuova stella del firmamento operistico, Vincenzo Bellini: in coppia furono a Genova, Parma (inaugurazioni di nuovi teatri, con il rifacimento di Bianca e Fernando, aprile 1828, e Zaira, maggio 1829), Venezia (I Capuleti e i Montecchi, marzo 1830), sull’onda dello straordinario successo scaligero del Pirata (ottobre 1827) e della Straniera (febbraio 1829). Ma dovette contare anche la crescente fama del poeta. Ad esempio, nella primavera-estate del 1828 Romani restò per mesi tra Moneglia e Genova, dove verseggiò – auspice il marchese Brignole Sale, ch’egli conosceva dal 1808, ora sindaco e condirettore dei teatri – tutte le novità musicali nella stagione inaugurale del Carlo Felice: oltre la ‘prima’ belliniana, l’inno per Carlo Alberto e La regina di Golconda (musicati da Gaetano Donizetti), e il Colombo (Morlacchi). Quanto a Venezia, la sua consuetudine con La Fenice – oltre che con una certa Marietta Franchi Tassini – era tale che ai primi del 1829 vi si stabilì per allestire Rosmonda (Carlo Coccia) invece di restare a Milano a inscenare La straniera (al poeta teatrale spettando all’epoca la direzione scenica): cosa che l’impresa pretese, mobilitando le autorità, ma senza successo, anche per intervento dello stesso Bellini. Chiaro sintomo della rinomanza acquisita fu il tentativo avviato a luglio del 1829 – primo d’una serie, tutti peraltro abortiti – di lanciare un’edizione in più volumi dei propri melodrammi.
Non meno intensa fu la sua presenza da librettista indipendente sulle scene milanesi a partire dal Carnevale del 1831, quando prestò i suoi servigi sia nei teatri di Stato, sia alla società di privati – il duca Pompeo Litta con i mercanti-finanzieri Giuseppe Marietti e Pietro Soresi – che nel secondario teatro Carcano, in concorrenza con la Scala, assoldò le star Giuditta Pasta e Giambattista Rubini per lanciare opere nuove dei due compositori in auge: Anna Bolena (Donizetti) e La sonnambula (Bellini); il successo fu tale che prima della fine dell’anno furono entrambe presentate dai due cantanti-divi a Londra e Parigi. Che in quest’epoca Romani fosse accarezzato da taluni circoli dell’alta società milanese lo mostrano anche i componimenti da lui declamati per occasioni pubbliche, spesso connesse con sculture dell’amico Pompeo Marchesi: Pel busto di Vincenzo Monti (1829); Pel busto di Giuditta Pasta (1830); Per la Venere e la Maddalena, statue collocate nel 1831 a palazzo Litta.
La predilezione dei maggiori musicisti – il fedelissimo Bellini, Donizetti, Mercadante – e i contratti fissi continuativi che infine gli stipularono le imprese milanesi fecero sì che dal maggio del 1831 all’agosto del 1834 Romani fosse travolto dalla mole di lavoro. Nella serratissima routine di questo periodo, con venti libretti nuovi – tra di essi Norma (Milano 1831-32) e Beatrice di Tenda (Venezia 1833) per Bellini, L’elisir d’amore (Milano 1832), Parisina (Firenze 1833) e Lucrezia Borgia (Milano 1833-34) per Donizetti –, il poeta gestì le commissioni provenienti da mezza Italia verseggiando in simultanea più libretti in vari stadi di lavorazione.
Per tenere i piedi in ogni staffa, di volta in volta fermo a domicilio oppure comandato sur place per polizia (a Venezia per Beatrice), ricorse spesso a rinvii, scuse, manovre e proteste rispetto a impresari, direzioni teatrali e compositori, nei casi più estremi rifugiandosi nel forfait. Ne derivarono litigi. Quello con Bellini, che con i libretti di Romani era divenuto l’operista dominante del momento, deflagrò sui giornali di Venezia e Milano nel marzo-aprile del 1833 per le recenti tensioni in laguna: il compositore fece scrivere informatissimi ignoti, Romani rispose per le rime con la sua penna più velenosa, ciascuno per scaricare sull’altro la responsabilità della ritardata e sfortunata messinscena di Beatrice (si rappacificarono a fine 1834, prospettando collaborazioni future: ma non si rividero più). Ci furono arrabbiature per Donizetti, sempre ai primi del 1833: da mesi in attesa di versi, solo una volta giunto a Firenze gli arrivò il libretto di Parisina, spedito a rate e in extremis, sicché dovette correggere di proprio pugno le bozze. Tra settembre e dicembre del 1833 Romani fece credere all’impresario fiorentino Alessandro Lanari di stare scrivendo un fantomatico Buondelmonte per Donizetti – impegnato con lui a Milano in Lucrezia Borgia – al solo fine di chiedere e ottenere l’assunzione d’una ballerina sua prediletta: infine ci si dové contentare di porre in scena una Rosmonda riattata.
All’inizio del 1834 Romani divenne direttore del periodico milanese Il corriere delle dame, forse più di nome che di fatto. Demandò le incombenze redazionali al collega e amico Francesco Regli e scrisse solo una decina di articoli; infine a luglio si dimisero ambedue. Si profilava peraltro una svolta: da Torino già a febbraio, anche per volontà di Carlo Alberto, gli era stato offerto il posto di direttore-compilatore del quotidiano governativo ufficiale La gazzetta piemontese. Per un compenso annuo minimo (9180 lire austriache) di due volte e mezzo superiore ai suoi introiti medi di venti anni da librettista, assicurato anche per la pensione, Romani accettò. Nella capitale sabauda si trasferì a ottobre e firmò il giornale dal 3 novembre 1834. Aveva ancora dei libretti da smaltire e forse non ebbe subito chiaro che la sua carriera teatrale si sarebbe interrotta: i contatti per forniture di melodrammi, tutti puntualmente disattesi, proseguirono a buon ritmo ancora per tutto il 1835.
Ormai in vista dei cinquanta, indossò con agio la nuova veste di giornalista e critico teatral-letterario e ne approfittò per costruirsi una reputazione da letterato autorevole, forte della fama di «principe degli scrittori melodrammatici italiani» (Regli, 1865, p. 21) acquisita grazie ai melodrammi di Bellini e Donizetti entrati in repertorio.
Il battagliero spirito classicistico esibito nelle polemiche del 1826-27 non gli venne meno negli anni torinesi, produsse anzi un’imponente mole di scritti critici e una lunga tenzone culturale con il liberale Angelo Brofferio, suo concorrente al Messaggiere torinese. Da direttore e recensore riceveva le sollecitazioni più varie, in particolare dagli editori (in primis il torinese Giuseppe Pomba) che dai suoi articoli si aspettavano ritorni pubblicitari. Nel frattempo, salvo due isolati libretti scritti o solo adattati per Mariano Obiols e Coccia nel 1837-38, accudì alla propria consacrazione letteraria pubblicando in volume una raccolta di prose critiche e narrative (Torino 1837) e soprattutto antologie di componimenti lirici (Genova 1839, Torino 1841 e 1843, Milano 1845); né mancarono un altro progetto d’edizione dei melodrammi (nel 1840 chiese e ottenne di poterla dedicare a Vittoria regina d’Inghilterra) e commissioni di versi celebrativi sia della dinastia sabauda (come nel 1842 per le nozze dell’erede Vittorio Emanuele II, con un Carme a Torino e una cantata a Genova musicata da Federico Ricci), sia dell’ideale panitaliano (come la cantata per l’inaugurazione di un busto a Rossini nel 1846 o quella stesa in parte ma infine naufragata – Giuseppe Verdi si sottrasse – per un congresso del 1844, ambedue a Milano).
Per anni Romani mantenne a Milano un punto d’appoggio e molti contatti, a partire dal salotto del facoltoso mercante Paolo Branca, dove facevano musica sia professionisti (Donizetti e Rossini erano tra gli habitués: nel 1838 un dipinto della ventenne Fulvia Bisi li immortalò insieme a Romani) sia dilettanti, prime tra questi le figlie del padrone di casa: Cirilla pianista, Luigia mezzosoprano, Matilde soprano (apprezzata da Rossini) ed Emilia arpista. Ventitré anni più giovane di lui, nel gennaio del 1842 costei sposò Romani, che la conosceva sin da fanciulla, l’aveva corteggiata già nel 1837-38 e però tergiversò a lungo nel convolare a nozze, per ragioni di dote e di altri legami amorosi a Torino.
L’affinità degli ambienti d’origine e lo stesso ingresso in un reticolo familiare alto-borghese così legato al mondo musicale – Matilde sposò un Giovanni Juva possidente torinese, Cirilla il milanese Isidoro Cambiasi, cofondatore nel 1842 e assiduo collaboratore della Gazzetta musicale di Milano Ricordi, mentre papà Branca non sdegnava le mediazioni operistiche paraimpresariali – favorirono un matrimonio che, se non diede figli, fu vivificato, in specie prima del 1848, da una mondanità di rango elevato, sia a Torino – la Branca ricordò le conoscenze a corte e un incontro con il sovrano nell’Accademia filarmonica – sia in vari viaggi: di ritorno a Milano nella casa dei suoceri o dei cognati (in trattenimenti che spesso ebbero eco sulla stampa, come nel 1842 e nel 1846), a Napoli ospiti di Mercadante per il Congresso degli scienziati (1845), delle nipotine Cambiasi portate a turno a Torino (1846 e 1847) da una zia Emilia spesso in preda alle nostalgie per la famiglia d’origine.
Gli eventi tumultuosi del 1848-49 furono traumatici per il ménage. Nella primavera del 1848 andò in bancarotta l’editore della Gazzetta piemontese Giuseppe Favale, bruciando guadagni ingenti («dai trenta ai trentacinquemila franchi annui», Branca, 1882, p. 61) che in qualche annata precedente erano stati suddivisi, da contratto, con il direttore Romani; di conseguenza a ottobre egli vide confermato, ma ridimensionato, il contratto del 1834, caricato ora di oneri maggiori; soprattutto, nell’ottobre-novembre 1849, stampata sul giornale una cantica in terza rima (Cielo e terra) sulla traslazione della salma di Carlo Alberto, che ad alcuni circoli torinesi avversi apparve offensiva dell’esercito e del monarca stesso, il nuovo governo lo licenziò in tronco. Gli anni seguenti furono amareggiati da defatiganti vertenze con lo Stato per farsi erogare una pensione almeno parziale (Urbano Rattazzi fu tra i suoi avvocati, e si addivenne a un accordo nel 1852, al 70% del pattuito nel 1834), e per il perdurante rischio che gli venissero addebitate alte cifre dal fallimento Favale (ancora a inizio 1858 la causa parve persa, con grande avvilimento di Romani; ma di lì a un anno si dissolse nel crogiolo di guerra e cambio di regime).
Negli anni più duri Romani si risolse a tornare al mestiere di librettista, vuoi recuperando melodrammi scritti anni prima (La spia, per Angelo Villanis, Torino 1850; Cristina di Svezia, per Sigismond Thalberg, Vienna 1855), vuoi cedendo alle insistenze di un nobile dilettante che aveva conosciuto bambino (Edita di Lorno, Genova 1853, per il milanese Giulio Litta, figlio del duca Pompeo). Già incaricato di presiedere una Commissione per i concorsi drammatici a Torino, nel 1855 venne richiamato da Rattazzi divenuto ministro a dirigere la sola sezione letteraria della Gazzetta piemontese, ma con tutt’altro appannaggio; altro incarico onorifico, in quell’anno, ebbe come presidente della Società degli autori drammatici italiani.
Sul piano privato risalgono a quest’epoca varie lettere tra lui e la moglie residenti a distanza per periodi prolungati, lei di preferenza presso le sue congiunte a Milano (padre e cognato Cambiasi morirono ambedue nel 1853), lui sempre più spesso con l’anziana madre a Moneglia, segnato da malinconie, ipocondria e qualche gelosia; un clima in cui dovettero fare da memorabile diversivo due loro soggiorni insieme ai cognati Juva a Parigi nel 1853 (Romani rivide Meyerbeer, con il quale accarezzò nuovi progetti) e a Firenze nel 1854 (frequentarono il salotto di Rossini, depresso, ma non insensibile alle sollecitazioni musicali della giovane Matilde).
Morì il 28 gennaio 1865 a Moneglia, dove s’era ritirato per ragioni di salute l’anno prima.
Nel febbraio del 1863 gli era stato conferito il titolo di ufficiale dell’ordine sabaudo dei Ss. Maurizio e Lazzaro, nel settembre del 1864 quello di cavaliere. La vedova ne custodì con devozione carte di lavoro e corrispondenza, e quando, anni dopo, si risposò con il marchese Enrico Cordero di Montezemolo, scrisse una biografia del poeta e progettò di pubblicarne in più volumi gli opera omnia, comprensivi di un epistolario e della tanto desiderata edizione letteraria dei melodrammi. Nell’impresa credette dapprima di potersi valere dell’aiuto di Edmondo De Amicis, che fu a tal uopo in Moneglia nel 1878: ma guai amorosi e familiari lo distolsero; determinante, per i cinque volumi pubblicati fino a quando ella si spense nel novembre del 1883, fu Isaia Ghiron, bibliotecario della Braidense di Milano.
Opere. Cataloghi dei 90 libretti di Romani, con dati bibliografici delle prime edizioni e riprese, in F. R.: melodrammi, poesie, documenti, 1996, pp. 203-255, e nel Catalogo dei libri italiani dell’Ottocento, Milano 1991, pp. 3986-3995; con integrazioni, in Roccatagliati, 1996 (pp. 293-306); Gabinetto di amena letteratura per il bel sesso…, Milano 1815; Sui primi cinque canti dei “Lombardi alla prima crociata” di T. Grossi. Ragionamento di Don Libero… e Secondo ragionamento sui “Lombardi alla prima crociata” di T. Grossi pubblicato da Don Sincero, Milano 1826; Miscellanee tratte dalla “Gazzetta piemontese”, Torino 1836; Critica letteraria, I, Novelle e favole in prosa ed in versi, II, Poesie liriche edite ed inedite, Torino-Milano 1883; Critica artistico-scientifica, Torino-Milano 1884.
Fonti e Bibl.: I fondi manoscritti più ampi concernenti Romani, tutti si direbbe appartenuti alla vedova, sono in: Archivio di Stato di Milano, fondo Galletti (cfr. M. Mauceri, Inediti di F. R.: la carriera del librettista attraverso nuovi documenti dagli archivi milanesi, in Nuova Rivista musicale italiana, XXVI (1992) pp. 391-432); Torino, Biblioteca nazionale universitaria, fondo Romani (cfr. L. Di Bari, Un archivio sconosciuto conservato presso la Biblioteca nazionale universitaria di Torino: F. R. alla direzione della “Gazzetta piemontese”, tesi di laurea, Università di Torino 2003-04; V. Nebulone, Uno spaccato dell’ambiente musicale nell’Ottocento italiano: l’archivio Romani-Branca-Cambiasi, tesi di laurea, Università di Torino, 2010-11); Siena, Accademia Chigiana; Milano, Libreria Gallini. Lettere di/a Romani in: Torino, Biblioteca civica, manoscritti Prior e Cossilla; Archivio di Stato di Milano, Spettacoli pubblici gestione governativa, 17; Milano, Archivio storico civico, Spettacoli pubblici; Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, ex Istituto di Storia economica, Archivio Visconti di Modrone; Genova, Istituto Mazziniano; Genova, Archivio storico civico; Genova, Biblioteca universitaria.
T. Solera, F. R., in L’omnibus pittoresco, III (1840), 23, pp. 177-179; F. Regli, Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici…, Torino 1860, ad vocem; Id., Elogio al commendatore F. R., Torino 1865; G. Da Fieno, Della vita e delle opere del commendatore F. R., poeta lirico, in Gazzetta musicale di Milano, XXV (1870), nn. 49-52 (rist. Milano 1872); L. Lianovosani (G. Salvioli), Saggio bibliografico relativo ai melodrammi di F. R., Milano 1878; E. Branca, F. R. ed i più riputati maestri di musica del suo tempo, Torino 1882; M. Rinaldi, F. R., Roma 1965; A. Roccatagliati, F. R. librettista, Lucca 1996; F. R.: melodrammi, poesie, documenti, a cura di A. Sommariva, Firenze 1996; A. Roccatagliati, F. R., in The new Grove dictionary of music and musicians, XXI, London-New York 2001, pp. 579-581; L. Di Bari, Lettere di Giuseppe Pomba a F. R. nella Biblioteca Nazionale di Torino, in Bibliofilia subalpina. Quaderno 2004, a cura di F. Malaguzzi, 2004, pp. 123-164; A. Roccatagliati, Sul cantiere dell’edizione critica della “Sonnambula”, in Vincenzo Bellini nel secondo centenario della nascita, a cura di G. Seminara - A. Tedesco, Firenze 2004, pp. 411-429; P. Russo, “Medea in Corinto” di F. R.: storia, fonti e tradizioni, Firenze 2004; A. Roccatagliati, Amina tra i generi e le fonti, in Studi comparatistici, 11-12, 2013, pp. 57-80.