felice
In accordo con la duplice concezione dantesca della felicità (v.) come stato di beatitudine naturale o sovrannaturale, l'aggettivo qualifica appunto in primo luogo la condizione di chi ha raggiunto in terra il pieno appagamento delle proprie aspirazioni etiche e dianoetiche, sulla linea di un'integrazione della dottrina aristotelica con la parola biblica: E queste [le undici virtù morali] sono quelle che fanno l'uomo beato, o vero felice, ne la loro operazione, sì come dice lo Filosofo nel primo de l'Etica quando diffinisce la Felicitade (Cv IV XVII 8; il rimando è ad Arist. Eth. nic. I 6, 1098a 16-18; e v. anche Le dolci rime 83, con ripresa in XVII 1); E però si dice nel libro di Sapienza: " Chi gitta via la sapienza e la dottrina, è infelice " [tradotto da Sap. 3,11 " Sapientiam enim et disciplinam qui abicit infelix est "]: che è privazione de l'essere felice. Per l'abito de la sapienza seguita che s'acquista e[ssere] felice - [che] è essere contento - secondo la sentenza del Filosofo (Cv III XV 5: il testo aristotelico di Eth. nic. X 7, 1178a 5-8 suona: " unicuique proprium natura optimum et delectabilissimum est unicuique homini utique, quae secundum intellectum vita, siquidem maxime hoc homo, iste ergo felicissimus "). Al traguardo di tale felicità terrena mira appunto l'opera del monarca: Lo fondamento radicale de la imperiale maiestade, secondo lo vero, è la necessità de la umana civilitade, che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice (Cv IV IV 1).
A una felicità perfetta e godibile solo in cielo l'aggettivo si riferisce invece frequentemente nel poema, sin dal malinconico sospiro di Virgilio, in If I 129 oh felice colui cu' ivi elegge! (e v. anche Pg XVll 133). Alludendo a Beatrice, creatura del cielo, e alla sua apparizione nel Paradiso terrestre, anticipo del Paradiso celeste, lo stesso Virgilio annuncia a D.: tu la vedrai di sopra, in su la vetta / di questo monte, ridere e felice (Pg VI 48). Dal canto suo Beatrice accoglie D., al suo ingresso nella selva edenica, con un rimprovero: Come degnasti d'accedere al monte? / non sapei tu che qui è l'uom felice? (XXX 75), in cui è esplicito riferimento alla beatitudine goduta dall'anima prima del peccato originale, e quindi recuperata e ampliata nella dimensione ultraterrena.
La cantica della felicità assoluta è, naturalmente, il Paradiso: voi che siete qui felici (III 64); vid'ïo uscire un foco sì felice, / che nullo vi lasciò di più chiarezza (XXIV 20; superfluo avvertire che la felicità delle anime paradisiache si manifesta attraverso l'intensità della luce in cui esse sono involte: ne viene che f. diventa talora sinonimo di " luminoso ", risvolto sensibile di un ardore tutto e solo spirituale); benché io fossi / presso di lei, e nel mondo felice (XXV 139); Quei due che seggon là sù più felici (XXXII 118).
Altrove ha senso più generico: il tempo felice ( If V 122) amaramente contrapposto da Francesca alla miseria dell'Inferno, è la vita terrena, che appare lieta alla memoria dei dannati; in Pg XXVlll 140 si accenna all'età de l'oro e suo stato felice; in If XVI 81 tre sodomiti commentano la sincerità e franchezza di D. nel bollare le ‛ genti nove ' e i sùbiti guadagni (v. 73) con l'esclamazione felice te se sì parli a tua posta!; in Pd VII 18 Beatrice irraggia D. di un riso tale da far felice un uomo nel fuoco (che sembra locuzione corrente, senza riferimento al fuoco infernale).