felicità (felicitade)
La parola è usata da D. quasi esclusivamente in prosa, per indicare una condizione di lieto e pieno appagamento spirituale, con riferimento sia alla vita terrena che a quella ultraterrena.
In Cv IV XVII 9, riallacciandosi all'insegnamento aristotelico, D. distingue due diverse forme di f. ottenibili in terra: Veramente è da sapere che noi potemo avere in questa vita due felicitadi, secondo due diversi cammini, buono e ottimo, che a ciò ne menano: l'una è la vita attiva, e l'altra la contemplativa; la quale, avvegna che per l'attiva si pervegna, come detto è, a buona felicitade, ne mena ad ottima felicitade e beatitudine, secondo che pruova lo Filosofo nel decimo de l'Etica, e da Aristotele deriva anche la dichiarata subordinazione della f. connessa con l'esercizio degli uffici politici e civili, alla f. insita nella speculazione filosofica:" Intellectus autem operatio studio differre videtur speculativa existens, et praeter ipsam nullum appetere finem, habereque delectationem propriam: haec autem coauget operationem " (Eth. nic. X 7, 1177b 20-21).
Di questa gerarchia fra le due f., D. torna a parlare in Cv IV XVII 11 la felicitade de la vita contemplativa è più eccellente che quella de l'attiva, mentre più oltre (XXII 11), trattando l'uso dell'animo, che è doppio, pratico e speculativo, il primo consistente nell'operare secondo prudenza temperanza e fortezza, il secondo nel considerare l'opere di Dio e de la natura, attenua il divario: E questo [come] quell'altro è nostra beatitudine e somma felicitade (cfr. anche § 9).
Il sommo grado di f. terrena è comunque riposto secondo D. nell'esplicazione delle facoltà razionali, ovvero nell'uso amoroso della scienza: la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade (Cv I I 1); Filosofia è... vera felicitade che per contemplazione de la veritade s'acquista (III XI 14).
Ma né questa, né, a maggior ragione, l'altra f. la quale diffinisce Aristotile nel primo de l'Etica, dicendo che è operazione secondo vertù in vita perfetta (Cv III XV 12, e cfr. Arist. Eth. nic. I 7, 1098a 16-18), toccata anche in Cv II XIV 18, III XV 11, IV Le dolci rime 119 (con ripresa in XX 10), XVII 8 (due volte), XX 9 (tre volte),XXI 9 e 14, XXIl 2 (in un'integrazione della '21 accettata anche dagli altri editori), assicurano la beatitudine suprema alla quale l'uomo irresistibilmente aspira. La contemplazione è infatti come la Galilea, dove le tre Marie, secondo l'annuncio dell'angelo ( Marc.16,7) troveranno Cristo. Poiché però Dio sempre precede, né mai lui giugnere potemo qui, lo quale è nostra beatitudine somma (Cv IV XXII 17), le parole dell'angelo " ibi eum videbitis, sicut dixit vobis " sono da interpretare in senso restrittivo e relativo: cioè quivi avrete de la sua dolcezza, cioè de la felicitade, sì come a voi è promesso qui; cioè, sì come stabilito è che voi avere possiate (§ 17). Per mezzo della contemplazione l'uomo ottiene dunque quella f. che è compatibile con la sua natura umana e con le ridotte misure della sua intelligenza, in attesa di godere la beatitudine assoluta nella casa celeste: E così appare che nostra beatitudine (questa felicitade di cui si parla) prima trovare potemo quasi imperfetta ne la vita attiva, cioè ne le operazioni de le morali virtudi, e poi perfetta quasi ne le operazioni de le intellettuali. Le quali due operazioni sono vie espedite e dirittissime a menare a la somma beatitudine, la quale qui non si puote avere, come appare pur per quello che detto è (§ 18; cfr. Tomm. Comm. Eth. nic. I lect. X 129; per altre precisazioni, v. BEATITUDINE).
Per il fatto stesso poi che mortalis ista felicitas quodammodo ad immortalem felicitatem ordinetur (Mn III XV 17), il Romanus Princeps, guida degli uomini ad temporalem felicitatem (XV 10), secundum phylosophica documenta è tenuto a osservare filiale reverenza nei riguardi del sommo pontefice, che secundum revelata conduce i credenti all'eterna beatitudine (§ 10; per la sinonimia beatitudofelicitas, e quindi beatitudine - f., v. Tomm. Sum. theol. I 26 1 ad 2).
Solo Cristo è via per la quale sanza impedimento andiamo a la felicitade di quella immortalitade (Cv II VIII 14), cioè a Dio, f. assoluta, buona / essenza, d'ogne ben frutto e radice (Pg XVII 134). E non sarà fuori luogo ricordare che l'autore dell'epistola a Cangrande assegna alla Commedia appunto il fine di removere viventes in hac vita de statu miseriae, et perducere ad statum felicitatis (Ep XIII 39). Ha valore più comune di " benessere ", in Cv IV IV 2 E sì come un uomo a sua sufficienza richiede compagnia dimestica di famiglia, così una casa a sua sufficienza richiede una vicinanza: altrimenti molti difetti sosterrebbe che sarebbero impedimento di felicitade;e IV 3.