Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Cinquecento una modesta casata dell’Argovia riesce, anche se a prezzo di grandi debiti, a trasmigrare la prospettiva tedesca nella “follia” di compiere la profezia di Daniele: una monarchia universale che non sarà mai ridotta in rovina, sussisterà per tempi indefiniti e stritolerà ogni altro potere; un regno sul quale non “tramonta mai il sole”. Su tutto giganteggia l’imperatore Carlo V: anche se alla fine del secolo il suo ambizioso sogno si polverizzerà in destini nazionali, il “cavaliere imperatore” monarca universale lo è davvero non solo perché assedia la Francia – a nord come a sud – con i territori sotto la sua corona; e neanche perché durante il suo regno si appalesano le fragilità di un’epoca intera e i suoi problemi, i suoi risucchi, le sue tensioni: la religione, l’esercito, il farsi degli Stati e i loro indebitamenti, le sovranità sempre contrattate e condivise, il nemico turco, un nuovo mondo che travolge – con argento e oro – il vecchio. Soprattutto perché, tra prospettiva spagnola e tedesca ed Europa universale, proprio come Carlo Magno ogni nazione ha, ancora oggi, il suo Carlo.
Nonno Massimiliano, pochi denari
Non è facile cominciare così. Avere un bisnonno – Federico III, collezionista di reliquie –che inoltra una modesta casata dell’Argovia verso l’Impero del mondo: unico Asburgo incoronato anche a Roma, sembra prefigurare il destino del pronipote Carlo quando conia l’acronimo dinastico AEIOU, Austriae Est Imperare Orbi Universo.
E poi un nonno, Massimiliano, che insiste nella saga familiare: mentre sogna di farsi eleggere papa e di organizzare la crociata definitiva contro gli infedeli, istituisce quel corpo dei lanzichenecchi che la saccheggeranno, la capitale della cristianità, nel 1527. Ma i sogni costano cari e sono sproporzionati alle risorse, sia pur coronate; così si indebita “Massimiliano pochi denari”, come lo chiamano i Veneziani, quel “Fanciullo ignudo” per papa Giulio II che, con accorte politiche matrimoniali, sprona i mai sopiti sogni ghibellini: e al figlio Filippo – il Bello nonostante il labbro pendulo, altro tratto distintivo della casata – fa sposare Giovanna, l’anticonformista figlia di Isabella di Castiglia e di Ferdinando d’Aragona, che affianca con la sua presunta pazzia quella genealogica degli Asburgo, regalando a Carlo dalla prigione di Tordesillas un regno su cui non tramonta mai il sole.
Il secolo comincia così: il 24 gennaio 1500 nasce a Gand, nel cuore delle ricchissime Fiandre e dell’Europa, Carlo, figlio di Filippo il Bello e Giovanna la Pazza e nipote di Massimiliano I d’Asburgo. Da quest’ultimo eredita non solo i territori del Sacro Romano Impero e il titolo di Kaiser ma anche, anzi soprattutto, la “follia” di una monarchia universale.
Certo Massimiliano I d’Asburgo, re dei Romani dal 1486 e imperatore dal 1493, deve aver a lungo riflettuto su quanto gli scrive un ragusano: mentre l’Europa è internamente divisa, “nell’impero turco tutta l’autorità suprema è nelle mani di un uomo solo, tutti obbediscono al sultano, unico governo; a lui vanno tutte le entrate; insomma, egli è il padrone, mentre tutti gli altri sono suoi schiavi”. Il confronto è drammatico: il suo regno, transnazionale ma non universale, è invece un agglomerato istituzionale, tra feudi e città libere con i quali è necessario contrattare.
L’imperatore governa uno stato composito dall’andamento “sinusoidale”: un conglomerato politico austriaco con un baricentro fiammingo-tedesco e ostinate tradizioni di resistenza degli “ordini”, intorno a cui si aggregano via via le acquisizioni territoriali: dopo il “ritorno” del Tirolo (1490), la pace stipulata a Senlis con la Francia nel 1493 significa appropriazione della Franca Contea e, soprattutto, dei ricchissimi Paesi Bassi. Qualcosa sfugge sempre: i “montanari” svizzeri conquistano cantoni e baliaggi, dando vita alla Confederazione; la Repubblica di Venezia si rivela pervicacemente imbattibile: il risultato di otto anni di scontri – dal 1508 al 1516, sullo sfondo delle guerre d’Italia e del conflitto imperituro con la Francia – lasciano gli equilibri territoriali sostanzialmente inalterati. La riforma istituzionale varata nel 1495, che istituisce un consiglio imperiale (Reichstag) di diciassette membri, l’introduzione dell’imposta per il pagamento delle spese militari prima progressiva (Gemeiner Pfennig) e poi generalizzata (Hussitenpfennig), segnalano la persistenza di particolarismi che è impossibile eludere e con i quali, con riluttanza, bisogna continuamente negoziare.
Più facile con i matrimoni, che portano figli, terre e un consistente futuro ai nipoti: quello con l’amatissima Maria di Borgogna, la più ricca ereditiera d’Europa, da cui nascono Filippo e Margherita e relazioni sempre più cogenti con la Spagna e, poi, con i signori della Savoia; quello con Anna di Bretagna, che sarà poi regina di Francia, matrimonio per procura e sterile nella discendenza (quattro figli, tutti morti); quello con Bianca Maria Sforza, la nipote di Ludovico il Moro al cui seguito viaggiava Leonardo da Vinci. Intanto, gli accordi con gli Jagelloni di Polonia e di Boemia-Ungheria conducono ad altri matrimoni ossia alleanze: quelle della nipote Maria con il re di Boemia-Ungheria Luigi II incrociato a quello di Anna Jagellone con l’altro nipote Ferdinando.
Il problema è il destino di Carlo: servono soldi, tanti, per convincere i sette grandi elettori a preferirlo alla concorrenza di Francesco I, re di Francia, e di Enrico VIII, re d’Inghilterra: ma la firma di Massimiliano è ormai inflazionata sulle cambiali. Eppure, è il figlio di Filippo l’erede morale e materiale del sogno di monarchia universale; in anni di pericolo per la civitas christiana è lui che potrà compiere, come dirà di lì a poco il suo consigliere Mercurino Arborio da Gattinara tentando di convincere Erasmo a compilare una versione imperiale del De Monarchia, l’opera iniziata da Carlo Magno. Ed è per l’imperium cristiano, ossia universale, che Massimiliano intraprende – in pieno inverno – un viaggio da Augusta verso la Dieta, verso l’Austria: muore nel 1519, nel gelido castello di Wels che è sulla strada, senza aver risolto il problema.
Carlo, monarca universale
Alla fine il Cinquecento, e forse l’intera età moderna, girano tutti intorno a lui: Carlo di Gand, Carlo I di Spagna dal 1516, Carlo V imperatore del Sacro Romano Impero dal 1519. Goffo e impacciato, così come lo descrive l’ambasciatore veneziano Lorenzo Pasqualigo, è stato cresciuto da Adriano di Utrecht, il futuro papa Adriano VI, alla corte della coltissima Margherita d’Austria, governatrice dei Paesi Bassi: da questi assorbe una religiosità intransigente, un acuto senso dinastico e l’indubitabile certezza – mentre il mondo conosciuto si allarga vieppiù – di essere destinato a realizzare la profezia di Daniele (citata nell’Antico Testamento): una monarchia universale, che non sarà mai ridotta in rovina, sussisterà per tempi indefiniti e stritolerà ogni altro potere. D’altra parte, nei giorni della sua costosissima elezione si scopre il Golfo del Messico.
Non è facile però, per Carlo, cingersi della corona imperiale: pagando sin da subito lo scotto di non essere né compiutamente spagnolo, né fino in fondo principe tedesco, alla morte di Massimiliano non può andare immediatamente in Germania perché il patriziato urbano delle città castigliane è in rivolta. E quando viene incoronato imperatore – il 28 giugno 1519 a Francoforte e poi ad Aquisgrana il 23 ottobre 1520 – sa di doverlo ai Welser di Augusta, ai Gualterotti di Firenze, ai Fornari e ai Grimaldi di Genova che gli prestano 30 mila fiorini in cambiali da riscuotere presso Jacob Fugger che ne aggiunge altri 50 mila sottolineando sprezzante “è di dominio pubblico e chiaro come il sole che Vostra Maestà imperiale non avrebbe potuto, senza di me, ottenere la corona imperiale”. Il prezzo è una fideiussione di 3 milioni di fiorini sui tesori di Castiglia e d’Aragona e un impegno da imperatore, cui segue – nel 1522 – un accordo a Bruxelles nel quale Carlo cede il patrimonio degli Asburgo al fratello Ferdinando, promettendogli la corona dei Romani. In cambio, Ferdinando cede ai finanzieri concessioni minerarie nel Tirolo cominciando a “mettere all’asta” il regno.
E sono solo i primi, di debiti e problemi: ché, intanto, il 3 gennaio 1521 con la bolla Decet Romanum Pontificem, Leone X scomunica – con l’accusa di eresia hussita–Martin Lutero. Carlo è costretto a convocare subito a Worms la Dieta imperiale iniziando la lunga fase di temporeggiamenti strategici e di tentativi di inglobare particolarismi e tensioni, sullo sfondo di un immarcescibile grande progetto di cristianità universale. Eppure proprio durante il suo regno, irreversibilmente, questa si frantuma: la pace di Augusta (24 settembre 1555), che precede di poco l’abdicazione, riconosce ai principi tedeschi lo ius reformandi e il rassegnato principio cuius regio, eius religio.
Anche sul piano territoriale si procede a singulti e il regno si conclude con un sostanziale fallimento; l’infinito contrasto per la supremazia tra Asburgo e Valois sullo sfondo delle guerre d’Italia, se da un lato ribadisce la difficoltà di essere l’erede di Costantino e Carlo Magno nel nascere degli Stati nazionali, dall’altro coinvolge e viola alleanze consolidate: le reti di patronato che si stendono dalla Sicilia ai Paesi Bassi devono essere costantemente confortate, giostra di attori ora accelerati ora rallentati nel ruolo di “cittadini fedeli”. Lo si vede con chiarezza dinanzi al “pericolo turco” che, sin dalla battaglia di Mohács, spiana non solo la strada al fratello Ferdinando ma soprattutto spinge l’esercito di Solimano fino alle porte di Vienna. Certo la reazione non manca mai, ed è degna di un monarca universale: nel 1536 la flotta imperiale, comandata da lui stesso, si muove alla conquista di Tunisi. Ma ogni vittoria prelude a uno smembramento successivo, mentre il luteranesimo si configura come una mina identitaria collocata nel cuore dell’impero: il passaggio da civitas a missione non aveva prodotto il trascinamento auspicato: anzi, le identità parcellizzate ne escono rafforzate.
Resta solo l’uso della forza, e Carlo i suoi comandanti sa sceglierli bene: da Andrea Doria a Ferrante Gonzaga a Hernán Cortés: ma se, tra il 1524 e il 1526, non era stato difficile ridurre a ragione una massa di contadini disorganizzati, ben diversa si rivela la situazione con i principi tedeschi: ancora una volta è necessario l’impegno militare, e tanto denaro, per ottenere una vittoria comunque transitoria a Mühlberg, che prelude la disgregazione del sogno universale sancita dalla pace di Augusta.
Gli anni che precedono la morte sono, per Carlo, l’orgogliosa constatazione di un fallimento, sia pur non del tutto ammesso: il “cavaliere-imperatore della cristianità, votato alla conservazione delle virtù imperiali cristianizzate e alla loro diffusione nel mondo” (Yates) deve abdicare alla violazione del principio di sovranità e indivisibilità scomponendo un regno che era stato davvero “plus ultra”. Eppure Carlo V monarca universale lo è davvero: non solo perché, appunto, assedia la Francia – a nord, come a sud – con i territori sotto la sua corona; e neanche perché durante il suo regno si appalesano le fragilità di un’epoca intera e i suoi problemi, i suoi risucchi, le sue tensioni: la religione, l’esercito, il farsi degli Stati e i loro indebitamenti, le sovranità sempre contrattate e condivise, il nemico turco, un nuovo mondo che travolge – con argento e oro – il vecchio. Soprattutto perché, tra prospettiva spagnola e tedesca ed Europa universale, proprio come Carlo Magno ogni nazione ha, ancora oggi, il suo Carlo.
I “parenti poveri” di Filippo II
Dopo l’abdicazione di Carlo V, l’impero non solo diventa più piccolo e aggrappato a un destino che volge a est ma, soprattutto, sembra rendersi chiuso e dimesso: i successori (Ferdinando I, Massimiliano II, e Rodolfo II) sembrano la controfigura sbiadita, i parenti poveri dell’altro ramo familiare, quello di Filippo II. La corona imperiale, comprata a caro prezzo dai merchant bankers e subito promessa da Carlo al fratello Ferdinando per pagare i debiti, alla sua abdicazione è smantellata in primo luogo nella sua autorevolezza simbolica; il monarca universale lascia infatti a Ferdinando un impero dilaniato da lotte intestine e immiserito nella credibilità e nella sovranità. Lo stesso Ferdinando, d’altra parte, ha dovuto riconoscere l’autorità del sultano sull’Ungheria e la Transilvania.
Tuttavia, è durante il regno di Ferdinando che si realizza una razionalizzazione istituzionale destinata a durare fino all’età teresiana: la creazione del “consiglio segreto” (Geheimrat), della “Cancelleria aulica” (Hofkanzlei) e del “Consiglio aulico di guerra” (Hofkriegsrat) producono nel lungo periodo effetti benefici sulla compattezza e l’efficacia dello Stato, mentre sul “fronte religioso” l’iniziale periodo di rigida intransigenza viene – anche grazie ai consigli di Erasmo – mitigato: è Ferdinando, in fondo, l’erede di Massimiliano e anche il suo epigono. Tuttavia, il patteggiamento si conferma componente indispensabile per governare: anzi, le torreggianti ambizioni dei suoi predecessori sono crollate sotto il peso dell’esercizio condiviso del potere, indispensabile in uno Stato – quale il suo – composito. Persiste, peraltro, una concezione patrimoniale confermata dalla scelta della successione: prima di morire, nel 1564, Ferdinando frantuma l’impero lasciando al poliglotta figlio Massimiliano II la dignità imperiale, la corona d’Ungheria e i ducati austriaci; a Ferdinando il Tirolo e i possedimenti occidentali e a Carlo Stiria, Carinzia e Carniola. Né, peraltro, la situazione cambia durante il regno di Massimiliano II: costretto dal padre a non abiurare la fede cattolica, l’imperatore che simpatizza per il credo protestante si piega alla ragione dinastica. Ma nel contempo, mentre il mondo cattolico si schiera a Lepanto, rifiuta di entrare nella Lega Santa e continua a pagare il tributo al sultano e prepara e ottiene la successione per il figlio Rodolfo, eletto nel 1576.
Ed è un altro impero, quello di Rodolfo: la periferia diventa capitale, con il trasferimento a Praga di una corte alla ricerca di fantasmagoriche magie e indecifrabili saperi, Praga stessa diventa un cantiere: crocicchio di poeti, drammaturghi, scienziati, musici, alchimisti, pittori strampalati, riformatori. Il ribelle Rodolfo “di poche parole”, come lo definisce l’ambasciatore veneziano, cresciuto alla corte dell’umbratile Filippo II, con fiuto politico capisce che le “forze diaboliche” sono quelle che stanno continuando a trascinare l’Europa in contrapposizioni viepiù amplificate e le ingloba invece, le aspettative chiliastiche diverse, in direzione di una peculiarissima, incuriosita identità cosmopolita. L’impero dell’erede del regno che non vedeva mai tramontare il sole si rinchiude – certo – in uno strampalato mondo sempre più piccino, quasi sospeso nella “stanza delle meraviglie”. Ma da questa, la più grande d’Europa, con il tempo scandito dal ticchettio dei mille orologi di una “Praga magica” conserva, raccoglie, incita quello che pungolerà la fantasia del Novecento.