Gilbert, Felix
Storico dell’età moderna e contemporanea, e in particolare del pensiero politico e storico del Rinascimento, nacque il 21 maggio 1905 a Baden Baden da una famiglia di origini ebraiche da parte di madre. Studiò storia e filosofia presso le università di Heidelberg, Monaco di Baviera e Berlino dove, sotto la guida di Friedrich Meinecke, nel 1931 conseguì il dottorato con un lavoro su Johann Gustav Droysen. Nel 1936 emigrò prima in Gran Bretagna e successivamente negli Stati Uniti, Paese di cui, nel 1943, ottenne la cittadinanza. Nel corso del 1943-44 lavorò con Herbert Marcuse e Franz Neumann come analista politico del regime nazista presso l’Office of strategic services statunitense. Dal 1946 insegnò presso il Bryn Mawr College, in Penn sylvania, e dal 1962 al 1975 fu professore presso l’Institute for advanced study di Princeton, dove morì il 14 febbraio 1991.
Raffinato studioso, capace di utilizzare ampiamente fonti archivistiche e di confrontarsi con studi in diverse lingue, G. si sforzò sempre di collocare la riflessione di M. negli specifici contesti culturali e politici in cui era emersa, d’opera in opera, resistendo alla tentazione di far sue le interpretazioni complessive, e semplificatorie, proposte in quegli anni da molti suoi contemporanei, interpretazioni che ne facevano di volta in volta o il primo scienziato politico moderno o il filosofo politico che aveva rotto con la filosofia pratica classica e tematizzato l’autonomia della politica.
Nei suoi studi, G. dimostrò sempre un’acuta sensibilità per le specificità, e le differenze, delle singole opere machiavelliane e fu in grado di mettere in luce i sottili cambiamenti di accento e i veri e propri mutamenti di concettualizzazione in esse presenti. Se il suo interesse per la cultura del Rinascimento risale agli anni precedenti la tesi di dottorato, il suo primo contributo decisivo alla comprensione del pensiero machiavelliano, The humanist concept of the prince and The Prince of Machiavelli, venne pubblicato nel 1939. G. vi studia i capitoli centrali del Principe, dal xv al xix, collocandoli in quello che ritiene essere il loro contesto culturale specifico. Prende in esame, così, l’ampia letteratura riconducibile al genere dello speculum principis elaborata dagli umanisti nel corso del Quattrocento. Chiarisce dapprima la peculiarità degli scritti di Bartolomeo Sacchi detto il Platina, Francesco Patrizi, Poggio Bracciolini, Giovanni Pontano (confrontandoli con il loro antecedente più sistematico, l’opera tardomedievale di Egidio Colonna, permeata di motivi religiosi) e procede quindi a mettere in luce, per differenza, il contributo specifico di Machiavelli. Se, da un lato, M. «tentò di adattare la forma del suo libro alla forma convenzionale del genere letterario» (Machiavelli e il suo tempo, 1964, 1977, p. 193), dall’altro, confutò consapevolmente le principali tesi degli umanisti, muovendo dai nuovi e radicali assunti di fondo del suo pensiero, che G. presenta sulla scorta di Meinecke, ricorrendo alle formule del «realismo politico» (pp. 186 e 193) e della tematizzazione della «politica come potenza» (p. 181). Nello stesso saggio G. interviene nella polemica sulla struttura e la composizione del Principe, che aveva visto contrapporsi negli anni Venti Meinecke e Federico Chabod, e prende una posizione vicina a quella del suo maestro, anche se non coincidente con essa: sottolinea, infatti, che la cosiddetta seconda parte dell’opera, quella che si apre con il cap. xii, non presenta una dimensione fortemente unitaria, e sostiene, di conseguenza, che l’ultimo capitolo, l’Exhortatio, deve essere interpretato come «una fiorita chiusa retorica» (p. 197) dell’opera.
Testimonianza della capacità di G. di leggere e interpretare tutto M. è il suo studio Machiavelli: the Renaissance of the Art of war, apparso come saggio di apertura nel volume Makers of modern strategy: military thought from Machiavelli to Hitler, stampato a Princeton nel cruciale anno 1943. G. ricostruisce dapprima le esperienze politiche e di governo che portarono M. a occuparsi di problemi militari, per poi mettere in luce come queste esperienze lo spinsero a un esame severo della crisi militare italiana post 1494 e a delineare quelle tesi e quelle proposte organizzative che, a suo giudizio, ne fanno «il primo teorico militare dell’Europa moderna» (Machiavelli e il suo tempo, cit., p. 266). G. non si limita a prendere in esame le tesi generali sul nesso tra politica e guerra, tra «buone arme» e «buone leggi», presentate a più riprese nel Principe e nei Discorsi, ma considera nei dettagli il programma di riforma militare presentato nelle pagine dell’Arte della guerra, incentrato sulla proposta di un esercito basato su una fanteria formata grazie all’arruolamento di ampi strati del popolo. Sottolinea sì il debito di M. nei confronti dei contributi classici di Vegezio e di Frontino, ma mette in luce come egli si distaccasse in modo originale dai modelli su più questioni: l’attenzione per lo svolgersi della battaglia e per il problema della disciplina ne costituiscono forse le principali. G. ricorda che l’Arte della guerra divenne ben presto «un classico militare» (p. 278), e ricostruisce le tappe della sua fortuna moderna, da Michel de Montaigne a Carl von Clausewitz.
Il saggio The composition and structure of Machiavelli’s Discorsi, pubblicato nel 1953, suscitò un’ampia eco internazionale. Muovendo da una discussione dell’edizione curata da Leslie Joseph Ignatius Walker (→), G. si propone di gettare luce sulla genesi dell’opera machiavelliana. Procede pertanto a un’attenta analisi delle corrispondenze e degli scostamenti dei singoli capitoli dei Discorsi rispetto ai corrispondenti capitoli del testo liviano, e ne ricava alcune indicazioni circa il processo di strutturazione del testo: a) i primi diciotto capitoli del primo libro furono redatti probabilmente nello stesso periodo in cui M. stava componendo il Principe e probabilmente costituiscono quel trattato o scritto sulle repubbliche cui fa cenno il secondo capitolo dell’opuscolo; b) la composizione dei Discorsi avvenne in due fasi: nella prima, M. si impegnò in un commento ai capitoli della prima deca di Livio seguendone l’ordine originale; nella seconda, organizzò questo materiale in tre libri, imponendo a esso un ordine tematico. Da un punto di vista cronologico, G. sostiene che la prima fase della composizione ebbe inizio, con gli incontri agli Orti Oricellari, nel 1515, mentre la seconda si avviò e si compì sostanzialmente nel 1517, trovando un terminus ad quem nel 1519, anno della morte di Cosimo Rucellai e dell’imperatore Massimiliano, entrambi citati come ancora in vita nei Discorsi. Sulla base di queste considerazioni sulla composizione e la struttura dell’opera, G. sostiene che i Discorsi testimonierebbero uno spostamento di M. verso le posizioni dell’«umanesimo ortodosso» (Machiavelli e il suo tempo, cit., p. 244): a suo giudizio, «il contrasto tra il realismo politico del Principe e l’idealismo politico dei Discorsi sarebbe piuttosto il risultato di uno sviluppo intellettuale che l’espressione di un contrasto nella mente di Machiavelli» (p. 244).
Il rilievo delle tesi proposte da G. negli studi appena ricordati, e la conoscenza approfondita della cultura fiorentina rinascimentale testimoniata da saggi come Bernardo Ruccellai and the Orti Oricellari: a study on the origin of modern political thought, del 1949, e Florentine political assumptions in the period of Savonarola and Soderini, del 1957, spinsero Vittorio De Caprariis e Nicola Matteucci a proporre all’editore Il Mulino una raccolta sistematica dei suoi contributi, che vide la luce nel 1964 con il titolo Machiavelli e il suo tempo.
Dell’anno successivo è la fondamentale monografia Machiavelli and Guicciardini. Politics and his tory in sixteenth-century Florence, in cui trent’anni di studi trovavano coronamento in una sintesi di raro equilibrio. G. sapeva passare, nei capitoli di quel lavoro, dall’analisi attenta delle istituzioni politiche fiorentine, nelle loro successive configurazioni nel corso del Quattrocento, a una considerazione precisa di quella che chiamava l’«ideologia politica aristocratica» (Machiavelli and Guicciardini, 1965, trad. it. 2012, p. V) e, più in generale, del pensiero di Francesco Guicciardini, fino a pervenire a una delineazione puntuale delle tesi machiavelliane. Ribadendo il valore dell’approccio storiografico già sperimentato nei saggi precedenti, G. insisteva sul fatto che le tesi del Principe e dei Discorsi erano legate anche «a problemi politici di interesse immediato» (p. 106). Ma lasciandosi alle spalle alcune tesi forse unilaterali del saggio del 1953, e opponendosi implicitamente alle tesi discontinuistiche proposte da Hans Baron, insisteva ora più sulle continuità che sulle discontinuità fra le due principali opere machiavelliane. Notava, per esempio, che l’«idea dominante» presente in entrambe era «l’appello a riconoscere l’importanza cruciale della forza nella sfera politica» (p. 106), e metteva in luce così che l’originalità di M. stava nella «nuova visione della politica» (p. 109) da lui proposta, visione che lo distingueva tanto dalle concezioni degli umanisti quanto dalle tesi degli aristocratici fiorentini. Da un lato, G. metteva in rilievo la convinzione machiavelliana dell’impossibilità di «fondare un ordine sociale permanente» (p. 137), che rispecchiasse la volontà di Dio o incarnasse norme di perfetta giustizia, e insisteva sulla sua profonda consapevolezza del fatto che le istituzioni politiche, repubbliche e principati, hanno una loro precaria esistenza solo nel drammatico fluire del tempo; dall’altro, sottolineava che questa originale consapevolezza assegnava un nuovo e cruciale ruolo in politica, non solo alla forza, ma alla scelta e alla decisione: «immergendo la politica nel flusso della storia, dimostrando che ogni situazione fa caso a sé e impone all’uomo di usare tutte le proprie forze per saggiare ogni possibilità del momento, Machiavelli ha rivelato più di chiunque altro prima e dopo di lui che la politica è, sempre, scelta e decisione» (p. 137).
Il lavoro di G. su M. e la cultura rinascimentale non si concluse con questo mirabile affresco d’insieme. Tra i suoi contributi successivi va almeno ricordato Machiavelli’s Istorie Fiorentine: an essay in interpretation, del 1972, dedicato all’opera in quei tempi meno studiata del Segretario fiorentino, e la voce Machiavellism, apparsa nel 1973 nel terzo volume del Dictionary of the history of ideas, rapido profilo, più che della ricezione delle tesi machiavelliane, dei «fraintendimenti» a cui esse furono sottoposte nei secoli dell’Europa moderna e contemporanea.
Merita di ricordare che se Baron, per riferirsi alle elaborazioni politiche degli umanisti fiorentini e di M., aveva fatto ricorso all’espressione civic humanism, G. preferì sempre parlare di classical republicanism o, più semplicemente, di republicanism. Le sue ricerche, e le sue scelte terminologiche, lasciarono il segno sulla generazione successiva di storici anglosassoni: in particolare, sul lavoro di John Pocock e, soprattutto, sugli studi di Quentin Skinner (→). Ma più in generale si può affermare che esse furono decisive per tutti coloro, anglosassoni o meno, che a partire dagli anni Sessanta lavorarono nel campo del pensiero politico rinascimentale.
Bibliografia: Fra gli scritti di G. su M. vanno ricordati: Machiavelli e il suo tempo, Bologna 1964, 19772 (ed. ampliata); Machiavelli and Guicciardini. Politics and history in sixteenth-century Florence, Princeton 1965 (trad. it. Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento, Torino 1970, 20122); History. Choice and commitment, Cambridge (Mass.) 1977; A European past: memoirs 1905-1945, New York 1988.
Per gli studi critici si vedano: G. Pedullà, Machiavelli dopo Auschwitz, in F. Gilbert, Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento, Torino 1970, 20122, pp. VII-XXXIX, con bibl. ragionata; Felix Gilbert as scholar and teacher, ed. H. Lehmann, Washington 1992; G.A. Ritter, Die emigrierten Meinecke-Schüler in den Vereinigten Staaten. Leben und Geschichtsschreibung zwischen Deutschland und der neuen Heimat: Hajo Holborn, Felix Gilbert, Dieter Gerhard, Hans Rosenberg, «Historische Zeitschrift», 2007, 284, pp. 59-102.