Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’invenzione della fotografia ha un’importanza considerevole per la cultura e la società ottocentesche. La possibilità di riprodurre in modo esatto qualsiasi soggetto e di moltiplicarne l’immagine rendendola disponibile a un pubblico vasto è in sintonia con la trasformazione della società in senso borghese. Il clima tumultuoso della cultura, in particolare francese e inglese, favorisce la discussione e infine l’accettazione della fotografia come nuova arte.
Premessa
Nel 1839 a Parigi, dinanzi all’Accademia delle scienze e delle belle arti in seduta comune, il fisico François-Dominique Arago presenta il procedimento, messo a punto da Daguerre, per riprodurre in modo permanente un’immagine mediante la luce; nello stesso anno, per indicare questo procedimento, alcuni scienziati usano il termine “fotografia”.
Il nuovo mezzo scatena immediatamente reazioni opposte: gli entusiasti ne riconoscono il valore estetico, ma anche la funzione rivoluzionaria di documentare con esattezza la realtà; i detrattori lo ritengono un processo puramente meccanico e vedono con ostilità la sua apparente sovrapposizione alla pittura.
Nei primi decenni della fotografia le scoperte tecniche si susseguono a ritmo incalzante, consentendo progressivi ampliamenti delle possibilità espressive del nuovo mezzo; in quegli stessi anni, nonostante le dispute sul suo valore, la fotografia si afferma come uno dei miti di massa dell’Ottocento.
L’invenzione del procedimento fotografico
I principi fondamentali su cui si basa la fotografia erano noti da tempo, ma a determinare l’invenzione è la combinazione tra la capacità della luce di proiettare un’immagine all’interno di una camera oscura – strumento familiare ad artisti e scienziati fin dal Cinquecento – e la tendenza di certe sostanze chimiche ad annerire se esposte alla luce, scoperta nel Settecento.
Tra gli anni Venti e Trenta dell’Ottocento si può dire che quest’invenzione è nell’aria: ricerche risolutive vengono svolte contemporaneamente dai francesi Joseph-Nicéphore Niépce e Louis-Jacques Mandé Daguerre, e dall’inglese William Fox Talbot.
Il procedimento di Niépce e Daguerre – che si associano nel 1829, dopo aver raggiunto in modo autonomo il risultato cercato – utilizza come supporto una lastra di metallo, sulla quale si viene a creare un’immagine unica, in sostanza un positivo, che viene brevettata da Daguerre nel 1839 col nome di “dagherrotipo”. Il procedimento Talbot sfrutta invece un supporto cartaceo, sul quale si imprime un’immagine coi colori invertiti, il negativo, da cui si può ricavare un illimitato numero di positivi. Con il suo “calotipo”, messo definitivamente a punto nel 1840, Talbot crea un’immagine riproducibile, come la moderna fotografia.
Le invenzioni provocano un interesse enorme, ma si avverte la necessità di rendere più maneggevole il mezzo, visto ad esempio che per il dagherrotipo – e il calotipo presenta difficoltà analoghe – l’esposizione dura da 15 a 30 minuti, e le complesse operazioni di preparazione devono esaurirsi in un’ora.
In sintesi, si lavora alla fissazione dell’immagine – inizialmente piuttosto instabile – e si studiano nuovi procedimenti: in appena un decennio, dopo numerose innovazioni, Frederick Scott Archer presenta il metodo del collodio umido su lastra di vetro, grazie al quale con una posa di appena tre secondi si ottiene un’immagine riproducibile, il negativo, caratterizzata da grande finezza di dettagli.
Lo sviluppo della fotografia tra mode e ricerca espressiva
Il procedimento al collodio decreta il successo della fotografia: già i ritratti su dagherrotipo, nonostante la fatica delle sedute interminabili, erano stati prodotti in numero impressionante; ora il ritratto fotografico diviene per i borghesi europei e americani un mezzo di affermazione accessibile.
André Disdéri entusiasma Parigi, lanciando la moda dei ritratti al collodio come cartes de visite: nel 1859 Napoleone III al comando delle truppe in partenza per la campagna contro l’Austria si ferma al suo studio, posa per le foto e ordina di distribuirle come propri biglietti da visita. Dal giorno seguente, com’era prevedibile, il gabinetto Disdéri è preso d’assalto dal pubblico parigino.
Accanto alla produzione corrente, che soddisfa il gusto poco coltivato del ceto emergente e viene ridicolizzata da scrittori quali Baudelaire e Dumas, ritratti superbi per penetrazione psicologica e sottigliezze tecniche sono ottenuti da grandi fotografi come Etienne Carjat (1828-1906) e Nadar, Lewis Carroll e Julia Margaret Cameron.
Le possibilità del nuovo mezzo si moltiplicano. Nel 1844 Fox Talbot pubblica il primo libro illustrato da fotografie, The Pencil of Nature, nel quale ventiquattro immagini di architetture e nature morte accompagnano un testo che presenta appunto la scoperta della fotografia. Lo stile degli scatti riflette le convinzioni estetiche di Talbot, espresse nel libro: “la scuola d’arte olandese è un precedente autorevole che ci permette di scegliere come soggetto scene della vita di tutti i giorni. Accade sovente che l’occhio del pittore si soffermi dove la gente comune non trova nulla di interessante”. La fotografia diventa dunque un’arte paragonabile alla pittura, per qualità di intenti e risultati, e il linguaggio minimalista di Talbot presenta in effetti analogie con certa pittura del suo tempo.
Proprio l’affinità evidente tra la fotografia delle origini e la pittura contemporanea è la chiave di uno studio del 1981 in cui Peter Galassi (1981) propone un’interpretazione inedita e convincente della nascita della fotografia. Poiché l’invenzione non è legata a scoperte recenti (i principi su cui si fonda erano noti già nel Settecento), secondo Galassi è la pittura di paesaggio, praticata en plein air da tanti artisti europei fin dal XVIII secolo, ad aprire la strada al nuovo mezzo. L’aspetto apparentemente casuale di molte fotografie, realizzate con tagli ravvicinati e punti di vista inconsueti, troverebbe un precedente negli studi sur nature e il fatto che molti tra i primi fotografi fossero anche pittori, rafforza la convinzione che la nuova arte abbia soddisfatto un’esigenza espressiva latente nella cultura del tempo.
La formula del libro illustrato si diffonde rapidamente, soprattutto per le raccolte di immagini cittadine e i reportage. In Francia, già nel 1839, la Commissione dei monumenti storici auspica che sia realizzata una collezione degli edifici antichi grazie alla scoperta di Daguerre, e nel 1851 le innovazioni tecniche rendono possibile questo censimento, diretto da una commissione presieduta da Mérimée. Tra i cinque fotografi coinvolti nell’operazione figura Gustave Le Gray (1820-1882), paesaggista raffinato, la cui ispirazione emerge nelle fotografie che gli vengono commissionate nel 1857, in occasione dell’inaugurazione del campo militare di Châlons-sur-Marne. Le manovre della cavalleria sono viste in distanza, sulla linea dell’orizzonte, e divengono soggetto di raffinati esercizi di stile invece di essere documentate in senso stretto.
Con lo sviluppo della fotografia nascono in questi anni i primi reporter. Le conquiste coloniali in India sono documentate da uomini della Compagnia inglese delle Indie Orientali con immagini solenni e spesso bellissime che raffigurano i monumenti della civiltà indiana passata: di rado l’obiettivo di questi fotografi cerca l’India contemporanea e i suoi abitanti che il pregiudizio colonialista considera poco degni di interesse. Eccezionalmente stimolanti per i fotografi-viaggiatori sono anche i grandi spazi nord-americani: l’avanzata verso ovest è testimoniata tra gli altri da Timothy O’Sullivan, attivo durante i rilevamenti geologici disposti dal governo degli Stati Uniti. Le sue immagini restituiscono con sensibilità il silenzio di territori sterminati fino ad allora ignoti.
Le guerre forniscono molto materiale ai primi reporter: la guerra di Crimea viene immortalata dall’inglese Roger Fenton per iniziativa del governo inglese; è poi alla guerra di secessione americana che Mathew Brady dedica una campagna fotografica, e infine sul conflitto franco-prussiano i fotografi raccolgono una straordinaria quantità di testimonianze. Il limite di questi documenti visivi consiste nell’impossibilità di mostrare le fasi della guerra combattuta, ancora al di là delle potenzialità tecniche della fotografia; protagonisti, luoghi delle operazioni e campi di battaglia disseminati di cadaveri, come appaiono per esempio nelle immagini di Felice Beato, forniscono però al pubblico visioni desolate, nelle quali sembra raggiunta l’oggettività assoluta.
Le polemiche sul valore della fotografia. L’opera di Nadar
Nel 1858 lo sviluppo di lastre più sensibili e di otturatori più efficienti segna la comparsa dell’istantanea: le immagini urbane fino ad allora deserte – perché veicoli e persone, troppo veloci, non venivano “catturati” dall’obiettivo – si popolano, inaugurando l’inizio di un periodo dedicato allo studio dei movimenti umani e animali non percepibili dall’occhio umano.
Tra gli anni Settanta e Ottanta Eadweard Muybridge offre immagini sconcertanti della corsa dei cavalli che contraddicono secoli di rappresentazioni figurative e determinano il nascere di un’interessante polemica. Mentre alcuni sostengono che la pittura deve adattarsi alle novità portate dalla fotografia, pena la messa al bando da parte di un pubblico a conoscenza delle recenti scoperte, altri affermano la necessità di cercare l’efficacia artistica nella rappresentazione del movimento, anche qualora non trovi corrispondendenza nelle istantanee. Evidentemente non si tratta di una reazione indispettita nei confronti della fotografia, ma del tentativo di individuare un criterio di validità interno all’arte che i movimenti artistici dall’impressionismo in avanti sembrano affermare con sempre maggior vigore, in quanto l’esistenza della fotografia esenta la pittura dal “dovere di cronaca” e dalla fedeltà alla natura.
Se artisti di avanguardia come Delacroix e Degas fanno apertamente uso della fotografia, ed essa è per altri l’occasione di riconsiderare la propria attività, la frase pronunciata dal pittore Paul Delaroche davanti a una delle prime fotografie – “Oggi la pittura è morta” – esprime il timore diffuso e motivato che una pittura puramente mimetica possa risultare sconfitta in una competizione con la macchina. Mentre sull’altro versante non è meno caratteristica la persuasione che la fotografia, proprio a causa della mediazione del mezzo meccanico, non possa essere considerata attività creativa.
Nel 1851 in Francia viene fondata la Société Héliographique che, attraverso la rivista “La lumière”, dà voce ai sostenitori del valore artistico della fotografia; nel 1862 queste convinzioni sono espresse con chiarezza esemplare nell’argomentazione svolta da un avvocato in difesa dei fotografi Mayer e Pierson, ai quali una sentenza storica garantisce la difesa dei diritti di riproduzione delle proprie opere.
L’importanza di questa decisione diventa ancor più evidente dopo la richiesta di annullamento presentata da Ingres e da molti altri pittori, la cui posizione si rivela però del tutto anacronistica, dato che già dal 1859 la Société ottiene l’affiancamento di un Salon della fotografia a quello tradizionale: le foto non sono più esposte con i prodotti dell’industria, ma come espressione artistica in senso pieno.
La Francia, e in particolare Parigi, diventa il centro delle dispute sul nuovo mezzo e nello stesso tempo il centro d’affermazione della fotografia. Tra coloro che la favoriscono c’è Félix Tournachon Nadar, importantissimo per il suo talento ma non meno per la forte coscienza e l’acume di pubblicista con cui sostiene la propria attività. Come osserva Walter Benjamin, scrivendo a proposito della qualità artistica della prima fotografia, “la ragione sociale è che i primi fotografi appartenevano all’avanguardia e che la loro clientela usciva in gran parte da essa”. Niente di più vero per Nadar, che in gioventù fa parte del gruppo di artisti e intellettuali cui Henri Murger dedica le Scènes de la vie de bohème (1845-1849) ed è amico, tra gli altri, di Baudelaire, Courbet, Gérard de Nerval.
Nadar approda alla fotografia dopo aver praticato a lungo la caricatura: la capacità di cogliere al volo fisionomie e tic, e la passione per tutto ciò che riguarda l’essere umano lo rendono un ritrattista ideale. Sul piano tecnico la sua produzione si distingue per le notevoli dimensioni delle lastre al collodio umido e per lo splendido chiaroscuro. Nel 1855 Nadar realizza i primi ritratti e in pochi anni nascono i suoi capolavori; egli ama fotografare gli amici e le persone che ammira e, quando il successo allarga la sua clientela, sfugge al carattere ripetitivo di questa attività, affidando gli scatti ai propri aiutanti. Le sedute che ispirano i suoi ritratti più belli durano ore: il soggetto viene messo a proprio agio, chiacchiera, discute, mentre Nadar – di cui è nota la straordinaria amabilità – ne coglie l’espressione caratteristica e spesso sembra penetrarne lo spirito. Con piena consapevolezza, Nadar ci consegna il panthéon della Parigi colta di metà Ottocento e come altri fotografi contemporanei, ma da una posizione eccezionale, persegue l’idea di rendere omaggio al genio umano attraverso le proprie fotografie.
Dal 1857 Nadar si appassiona alle ascensioni in pallone aerostatico, da cui trae l’idea di realizzare fotografie aeree; pochi anni dopo, dal 1862 al 1865, porta la sua macchina nel sottosuolo di Parigi e, servendosi dell’illuminazione elettrica, ottiene immagini inedite delle catacombe e delle fogne. In anticipo sui suoi colleghi – come nota ancora Walter Benjamin – Nadar attribuisce all’obiettivo la capacità di effettuare scoperte. Non meno rilevante per le sorti della fotografia, inoltre, è la dichiarazione appassionata resa nel 1857 da Nadar al processo che intenta contro il fratello Adrien, colpevole di utilizzare il nome d’arte (Nadar, appunto) con cui tutti lo riconoscevano: “la Fotografia è una scoperta meravigliosa, una scienza che occupa le intelligenze più elevate... la cui applicazione è alla portata dell’ultimo imbecille... Ma c’è in essa qualcosa che non si impara: è il sentimento della luce... E ciò che si impara ancora meno è la comprensione morale del soggetto... È il lato psicologico della fotografia, la parola non mi sembra troppo ambiziosa”. Al processo Nadar non ottiene solo una vittoria personale, la forza con cui sostiene la causa della fotografia segna un momento importante nella storia della nuova tecnica artistica e due anni dopo essa viene ammessa al Salon.