FERDINANDO di Borbone, duca di Parma, Piacenza e Guastalla
Nacque a Parma il 20 genn. 1751, secondogenito e primo maschio del duca di Parma Filippo di Borbone e di Luisa Elisabetta di Francia. F. era nato dieci anni dopo l'infanta Isabella, all'epoca in cui, dopo un lunghissimo distacco, il docile Filippo si era conquistato il suo "establecimiento" italiano così fortemente perseguito dalla madre Elisabetta e si era riunito alla volitiva consorte nella loro definitiva destinazione italiana.
Al giovanissimo erede venne destinato nei primissimi anni di vita un precettore gesuita, padre T. Fumeron, che lo accompagnerà sino alla prima comunione amministratagli a sette anni. Giunto all'età in cui poteva legittimamente iniziare la preparazione più atta a plasmare un giovane principe destinato a reggere le redini di uno Stato, ancorché non di prima grandezza, la madre - l'infanta Luisa Elisabetta - vera reggitrice del ménage familiare e dei destini politici del Ducato decise una svolta.
Durante uno dei numerosi e prolungati soggiorni alla corte paterna di Versailles, nota caratteristica del suo matrimonio con il consorte perennemente e placidamente impegnato tra Parma e la prediletta Colorno, essa designò l'abate Etienne Bonnot de Condillac a educatore del giovane Ferdinando.
Notoriamente aliena dalla religiosità feroce e spesso bigotta della madre, la polacca Maria Leszczyúska regina di Francia, e avendo in più occasioni epresso giudizi dubbiosi sui gesuiti e infastiditi sulla prêtraille italiana (C. Stryenski, Le genre, p. 409), Luisa Elisabetta consegnò, in una missiva, la sua scelta all'attenzione del marito con un giudizio che suona epitaffio e archiviazione del problema: "Malgré ce livre que l'on dit un peu métaphysique, nous n'aurons, je crois, rien à réprocher sur ce choix ni en ce monde ni en l'autre" (ibid., p. 410). Intellettuale di levatura europea, giunto a Parma nell'aprile 1758, Condillac si dedicò con fervore illuminato alla formazione del giovane infante al punto da teorizzarne il cammino intellettuale in un Coursd'études pour l'instruction du Prince de Parme (Paris 1769-73). Con i gesuiti J.-F. Le Sucur e F. Jacquier, lo storico abate G. Bonnot de Mably, fratello maggiore dello stesso Condillac, l'ateo A. Deleyre e L. M. de Kéralio, egli partecipava certo di un corpo docente di assoluto prestigio, sicura garanzia culturale e anche politica, dal momento che la provenienza di tutti loro assicurava la continuità nel rapporto privilegiato con la potenza europea che era garante a livello internazionale del piccolo Ducato padano.
F., pur ligio ai doveri del suo stato e ossequiente alla direttive tracciate per lui, non riuscì a instaurare un buon rapporto personale con i precettori, tutto preso da simpatie e devozioni religiose di cui è rimasta traccia evidente nel diario manoscritto da lui redatto sino al 1765. Questo tratto distintivo - e non solo giovanile - di F., che tanto contribuì a orientare anche le sue scelte più mature, fu verosimilmente tenuto alquanto a freno in ossequio alle direttive del sensista Condillac, sulle cui capacità a porgere in modo psicologicamente accattivante le proprie teorie educative altrove così brillantemente esposte pesa più di un sospetto: era probabilmente da annoverarsi tra "les hommes les plus propres à faire un livre ... le moins à faire une éducation" (parere di A. Creuzé de Lesser in Voyage en Italie, Paris 1803, cit. in Pezzana, Memorie, p. 559). Circondato così da alcuni degli intellettuali più validi che la moda filosofica francese avesse prodotto e controllato da lontano dallo stesso avo Luigi XV, che per legami affettivi e politici aveva tanto a cuore i destini parmensi, F. rimase prematuramente orfano della madre - sempre molto assente, del resto - nel 1759.
Era stato, tra l'altro, frutto dell'incessante lavorio diplomatico di Luisa Elisabetta il patto matrimoniale che avrebbe legato nel 1760 la primogenita Isabella e l'arciduca Giuseppe d'Austria, primo consistente segnale del nuovo orientamento filoaustriaco che sempre di più prenderà piede a Parma proprio a partire da quell'anno. Ma altri grossi rivolgimenti andavano maturando nel quadro europeo di metà secolo: il fallimento sostanziale del progetto uscito dalla pace di Versailles (1756), l'iniziativa presa da Federico II con la guerra dei Sette anni, il conseguente sostanziale ridimensionamento della Francia a vantaggio delle potenze emergenti; di conseguenza il "patto di famiglia", a suo tempo imposto dal ministro francese E.-F. de Choiseul, si andava mostrando orinai superato dagli stessi avvenimenti. Il microcosmo parmense finiva di fatto per riproporre in proporzioni ridotte i più ampi equilibri europei, costituendo da tempo il piccolo Ducato padano un campo di sperimentazione politica, col vantaggio di unire un notevole prestigio a un trascurabile peso specifico internazionale. Qui, proprio negli anni 1756-59, l'onnipotente ministro G. du Tillot, forte della delega totale avuta da parte del duca Filippo e delle coperture francesi, aveva affrontato il problema della regolamentazione della presenza dell'onnipotente clero, questione tanto più delicata in uno Stato considerato per sua stessa genesi storica legato al Papato. La sfida all'autorità di Roma si concretizzò nel 1764 nella legge sulle manimorte, prima misura importante sul piano giurisdizionale, e l'anno seguente nella creazione di una "giunta di giurisdizione", tesa ad assumere alcune delle prerogative e dei compiti di sorveglianza prima affidati a istituzioni ecclesiastiche.
Il 18 luglio 1765 era morto ad Alessandria il duca Filippo, mentre accompagnava in Spagna la figlia Maria Luisa verso gli sponsali con il principe delle Asturie. Una manovra di Carlo III di Borbone, fratello del defunto e zio del giovane erede, che da Napoli tentò immediatamente di assumere il controllo della situazione a Parma, venne abilmente sventata dal du Tillot, che provvide a dichiarare maggiorenne, il 18 agosto di quell'anno, il giovane F., come del resto era esplicitamente stabilito nel testamento paterno. A soli 14 anni, dunque, F. assunse giuridicamente la pienezza di un potere che nella pratica il suo ministro eserciterà in modo onnipotente almeno sino alla fine di quel decennio. Il du Tillot, intelligente e culturalmente aggiornato, era sensibile alle novità, non solo francesi ma anche a quelle italiane, soprattutto milanesi. In particolare nei confronti del clero la mano del ministro fu pesante e ferma, godendo in questo della collaborazione degli efficienti giuristi locali, da N. Tofferi a G.M. Schiattini e a G. B. Riga. La graduale e progressiva emancipazione da Roma - i cui moventi erano fondati su motivi giuridici e finanziari, non certo dottrinali - culminò nel vistoso provvedimento di espulsione dei gesuiti del 3 febbr. 1768. In quell'occasione il piccolo Ducato - superando certo le intenzioni dei dirigenti parmensi - si pose veramente al centro dell'attenzione europea: in realtà il monitorio di Clemente XIII del 30 genn. 1768 aveva inteso accomunare nella condanna tutti i rami dei Borbone regnanti in Europa di cui Parma era solo un'appendice. In questo senso la reazione di solidarietà dinastica che ne era seguita aveva dato la misura di una interpretazione corretta: Napoli occupava Benevento e Pontecorvo e Luigi XV si impadroniva di Avignone con la forza.
Quanto al giovane duca, appare in quegli anni impegnato - stando ai suoi ricordi manoscritti - a raccogliere di nascosto immagini devote regolarmente sottrattegli dai precettorì, portato sempre più a scandire gli attimi significativi della sua giovane esistenza sulla base delle poche processioni, preghiere pubbliche, divini uffici che inutilmente gli venivano centellinati. Ma certo egli era docile, studioso sino ad essere considerato quasi colto, indubbiamente sovrastato da personalità troppo superiori per riuscire a seguire le sue naturali inclinazioni. La circostanza che gli offrirà la possibilità di uscire allo scoperto con le sue vere propensioni, di emanciparsi dalla tutela del du Tillot e delle potenze protettrici, giungerà con il matrimonio, a diciotto anni e mezzo, annunciato ufficialmente ai sudditi il 6 giugno 1769. La sposa, di cinque anni più anziana, era Maria Amalia, sesta figlia della prolifica Maria Teresa d'Austria.
In realtà la scelta non era stata né ovvia né indolore: du Tillot soprattutto non aveva visto affatto di buon occhio il progettato connubio, avendone intravisto le neppure remote implicazioni politiche. Ma era stato inutile dirottare in un primo tempo la scelta su Maria Beatrice d'Este, figlia unica di Ercole Rinaldo d'Este futuro duca di Modena: l'acquisizione in prospettiva di questa città al Parmense non era stata approvata da Carlo III di Spagna che pensava, invece, a una principessa Savoia. Naufragato questo progetto e anche i due.successivi promossi dal Choiseul, che coinvolgevano prima l'arciduchessa Maria Elisabetta d'Austria, di ben otto anni più anziana di F., e poi una principessa d'Orléans, partito economicamente eccezionale, alla fine riuscì a spuntarla Maria Teresa.
Imponendo come sposa la più ribelle delle sue figlie l'imperatrice confidava certo che l'abbinamento con il placido F. ne avrebbe attutito le punte caratteriali, ma soprattutto era decisa a non lasciarsi sfuggire una così propizia occasione per ampliare la sua presenza nella penisola. Non è detto, infatti, che il comportamento umorale e volubile ben presto manifestato dalla duchessa non rispondesse in realtà alle direttive e al gioco politico che l'Austria conduceva abilmente in Italia alla metà del XVIII secolo. Certo tra la presentazione della proposta ufficiale di matrimonio e la cerimonia, celebrata per procura il 27 giugno 1769 a Vienna, intercorsero ben quindici mesi: intervallo più che sufficiente perché Maria Amalia avesse più di qualche sentore dell'opposizione che il ministro du Tillot aveva mosso alla sua candidatura e decidesse fin da allora di vendicarsene. Il conflitto tra i due non tardò a manifestarsi in modo eclatante e visto con sempre maggiore preoccupazione dalle corti europee che tutelavano il Ducato di Parma e che erano ben conscie del valore del du Tillot. In effetti la coppia ducale che si era formata metteva insieme antinomie caratteriali foriere di serie complicazioni: F. appariva debole, timoroso della moglie, religioso fino allo scrupolo, dominato anche pubblicamente dai capricci di lei; questa, che dalla madre imperatrice aveva recepito solo l'orgoglio di principessa tedesca, faceva pesare l'aver accondisceso a una sistemazione di livello tanto più basso del suo usando un dispotismo le cui connotazioni di puro capriccio finivano per rasentare il cattivo gusto. Comportamento privato e - molto più grave - condotta pubblica divennero deprecabili al punto da irritare la stessa imperatrice Maria Teresa, i cui ripetuti richiami tuttavia non ottennero alcun effetto.
La corte francese decise di inviare, già alla fine del 1769, un diplomatico di grande abilità ed esperienza quale il marchese H.-Ph. de Chauvelin perché riconducesse ad una gestione più tranquilla quello che eufemisticamente du Tillot definiva "desordre" (Bédarida, Les premiers Bourbons, p. 87).
Le disposizioni concertate dal ministro Choiseul e dallo stesso Luigi XV, patentemente infastidito, suonavano essenzialmente in questi termini: ridurre l'organico di palazzo e dell'amministrazione, confermare e, anzi, consolidare l'autorità di du Tillot, attutire l'infatuazione religiosa del duca, esprimendo a F. un rimbrotto affettuoso perché, tquand on est prince, on ne peut sans ridicule étre moine" (cit. in Pigorini Beri, La corte, p. 276). La relazione stesa con acume e grazia non comune da Chauvelin stesso offre un quadro illuminante della corte di Parma, dei conflitti psicologici e dei possibili rimedi applicabili alla coppia ducale. In sostanza Maria Amalia se non era proprio mentalmente limitata come era dipinta dalla sua stessa famiglia di origine, "a méme des idées, mais sans ordre et sans liaisons...", in compenso possedeva indubbiamente "du caractère", trabordante spesso in una vera cocciutaggine che non le faceva controllare "l'essor de sa colère". Il problema era "modérer ses écarts et régler sa conduite". Quanto a F., Chauvelin ravvisava acutamente proprio nelle attenzioni pedagogiche a suo tempo impartitegli la radice delle distorsioni manifestatesi poi in età adulta. I difetti radicali di quell'operazione erano stati due: il non avergli consentito "d'étre enfant dans l'áge ou il est nécessaire de l'étre", spostando manifestamente molto oltre nel tempo le sue puerili inclinazioni e - l'altro - l'avere prodotto una educazione rigida e severa al punto da sviluppare in lui la pratica della dissimulazione vissuta come unica via di fuga per un carattere debole e senza energia. I rimedi erano individuati nell'opportunità di fare uscire il duca dal ristretto mondo della provinciale Parma con viaggi e contatti in altri ambienti e, per madama infanta, di accostarla a persona "éclairée, honnéte et patiente ... pour modérer ses écarts et régler sa conduite". Stando così le cose il lavoro di ritessitura paziente in cui si impegnò Chauvelin in una lunga serie di colloqui costituì un abile saggio di diplomazia, oscillando tra deferenza formale e suggerimento del più pesante dei ricatti e unico vero pericolo: la sospensione delle pensioni versate dalle corti europee al Ducato di Parma, la fonte di reddito, cioè, che consentiva un apparato di corte sproporzionato rispetto alle risorse.
Alla fine del '69 il diplomatico francese riparti per la Francia con la promessa formale di un più dignitoso ménage ducale e dopo aver rafforzato la posizione dell'indispensabile du. Tillot. Nel novembre 1770 venne al mondo la primogenita dei duchi di Parma, Carolina Maria Teresa, futura sposa di Massimiliano di Sassonia, ma né questa nascita né quelle successive di altri cinque figli varranno a cementare una unione iniziata e proseguita su binari assolutamente divergenti. Ludovico (1773), futuro sposo di Maria Luigia di Borbone-Spagna, Maria Antonia Giosefa (1774), badessa delle orsoline a Roma, Carlotta Maria (1777), Filippo (1783), Maria Luisa (1787) vennero al mondo frutto dei rari incontri di Ferdinando e Maria Amalia che ormai di fatto vivevano separati, impegnati in frenetici spostamenti tra le dimore di Sala, Colorno e la corte di Parma.
La tregua, a suo tempo voluta da Luigi XV e organizzata tanto abilmente da Chauvelin, durò ben poco. Già nel corso del 1770 la lotta, sorda e occulta, della duchessa e del partito antifrancese contro du Tillot era ripresa, acuita e quasi segnata nell'esito dalla crisi del governo a Versailles e dalla disgrazia di Choiseul, allontanato alla fine del 1771. li successore, l'incolore duca L. de La Vrillière, era di fatto portavoce dell'abbé de la Ville, meno favorevole al ministro italiano e del tutto accessibile alle manovre del cardinale J.-R. de Boisgelin, il cui fratello Louis fungeva, proprio dal 1770, da improvvido ambasciatore a Parma. Trame segrete della duchessa, legami personali ma certo anche redistribuzione dei giochi di potere all'interno della Francia ed in Europa, segnarono il destino inevitabile del du Tillot, da lui del resto acutamente previsto: sospeso il 7 sett. 1771, sostituito il 3 novembre successivo, egli lasciò il 19 dello stesso mese Parma e il suo duca, ormai saldamente controllato dalla Spagna e dalla moglie. In realtà, nel biennio 1769-70 i meccanismi di difesa di uno Stato - ancorché minimo - di ancien regime sierano mossi tutti contro il ministro "straniero": le resistenze della corte e dei centri di potere si erano coalizzate con i vescovi e con il popolo stesso, strumentalizzato dalle forze reazionarie, mostrando la fragile consistenza della politica riformatrice.
Nel giro di pochi anni vennero annullate le leggi così faticosamente introdotte nell'età precedente: il ripristino dei privilegi ecclesiastici avvenne con un ritocco della Prammatica (1774), con la riapertura dei conventi già soppressi (1778) e con la riammissione dei gesuiti (1793). Tali mosse, con il ripristino delle manimorte e delle esenzioni ecclesiastiche, il mantenimento dei dazi sul commercio e dei vincoli sulle esportazioni, costituirono una parte significativa dei provvedimenti che segnarono il ritorno al passato, mentre ormai gli avvenimenti rivoluzionari d'Oltralpe stavano per sottolineare in modo drammatico l'impossibilità di contenere i cambiamenti del vecchio ordine entro i limiti di riforme parziali.
Il torpore mediocre in cui s'era attestata la vita politica del Ducato fu scosso nell'estate del 1799 dall'arrivo delle armate napoleoniche, che già dal maggio 1796 erano entrate in territorio piacentino. Toccò all'allora ministro parmense, Pietro Cavagnari - ultimo di una ragguardevole serie aperta da J. A. Llano, marchese di Zuvero all'indomani della caduta di du Tillot - farvi fronte. L'anno seguente, all'indomani della vittoria di Marengo che eliminava l'Austria da ogni sfera d'influenza sul medio corso del Po, iniziò la vera e propria occupazione francese mirata a garantire, attraverso il Parmense, un comodo collegamento tra la Cisalpina e il mare attraverso il passo della Cisa. Gli ultimi sussulti del vecchio dominio famesiano accompagnarono lo scorcio esistenziale di Ferdinando. Tra il febbraio e il marzo 1801 Napoleone, d'accordo con la Spagna, assegnò motu proprio a F. la Toscana (trattato di Lunéville): avendo costui rifiutato, fu privato dei suoi domini con il trattato di Aranjuez (21 marzo); l'organigramma prevedeva, infine, la concessione della Toscana e del titolo di re d'Etruria a Ludovico I, figlio ed erede di Ferdinando.
L'anno e mezzo che seguì l'imprevista resistenza ducale offriva alla considerazione, e non solo dei contemporanei, la vista paradossale di un principe perennemente sotto tutela cui solo gli esiti di una rivoluzione davano per la prima volta nella vita il gusto e la possibilità dell'affrancamento dalla dipendenza dalle altre potenze europee.
Di fatto il lavorio diplomatico messo in atto in quei pochi mesi ostacolò a tal punto i progetti francesi da suscitare più di qualche ragionevole sospetto circa la causa della morte, improvvisa, del duca F., avvenuta il 9 ott. 1802 alla badia di Fontevivo (Parma) e per la quale si parlò apertamente di un intervento francese.
La fragile reggenza che tentò di succedere e di cui facevano parte il ministro Schizzati e la duchessa Maria Amalia non valse ad evitare il passaggio di Parma al dipartimento del Taro, sotto l'amministrazione di M. Moreau de Saint-Méry.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Dispacci degli ambasciatori, Roma 286, 7 marzo 1767, Niccolò Erizzo, cc.177v-178r; Parma, Bibl. Palatina, Fondo Palatino, ms. 464: Ferdinando di Borbone, Storia della mia vita, incominciata addì 13 genn. 1770; Ibid., ms. Parmense 1510: L. Raineri, Raccolta di alcune memorie da servire alla storia del duca F. di B.;A. Pezzana, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, Parma 1833, VII, ad Indicem;G. Andres, Vita del duca di Parma don F. di B., Parma 1849; C. Fano, Iprimi Borbone a Parma, Parma 1890, pp. 27-191; C. Pigorini Beri, La corte di Parma nel sec. XVIII, in Nuova Antologia, 16 maggio 1892, pp.266-294; C. Stryenski, Le gendre de Louis XV, dom Philippe, infant d'Espagne et duc de Parme, Paris 1906, ad Indicem; O.Masnovo, Le nozze di don F. di B., in Aurea Parma, I (1912), pp. 55-66; L. Ginetti, La morte di don F. di B. (appunti e documenti), ibid., II (1913), pp. 87-100; H. Bédarida, Les premiers Bourbons de Parme et d'Espagne. 1731-1802, Paris 1928; V. Soncini, La fanciullezza religiosa del duca F. di B., in Aurea Parma, XIII (1929), pp. 45-56; G. Drei, Il D'Alembert e l'educazione di don F. di Parma, ibid., XXI (1937), pp. 3-8; P. Amiguet, Lettres de Louis XV à l'infant Ferdinand de Parme, Paris 1938; M. Bocconi, L'ultimo ministro dell'infante don F., in Arch. stor. per le province parmensi, IV (1952), pp. 55-62; M. Mora, Documento inedito che plaude alla rinunzia fatta dal duca F. di B. al trono di Toscana, ibid., XVI (1964), pp. 121-125; R. Moscati, I Borboni d'Italia, Napoli 1970, pp. 53 s.; F. Venturi, Settecento riformatore, II, Torino 1976, pp. 218, 224, 232; G. Tocci, IlDucato di Parma e Piacenza, in Storia d'Italia (UTET), XVII, Torino 1979, ad Indicem;H. Bédarida, Parma e la Francia (1748-89), Parma 1986 (ed. it. di Parme et la France de 1748 à 1789, Paris 1928), ad Indicem.