DONNO (Di Donno), Ferdinando
Nacque a Casalnuovo (oggi Manduria, prov. di Taranto), nella provincia salentina, da Giovanni e Medea d'Agostino, entrambi di famiglia nobile, il 25 apr. 1591. A Lecce, presso il convento dei domenicani di S.Giovarmi d'Aymo, compì gli studi teologici, licenziandosi nel 1608. L'anno seguente partì per Napoli, allo scopo di approfondire la sua preparazione filosofica e teologica. A Napoli entrò a far parte dell'Accademia degli Oziosi, come si ricava da un suo sonetto: All'Accademia degli Oziosi di Napoli, quando l'Auttore nel lor numero fuammesso.
Dopo brevi periodi trascorsi a Roma, a Firenze, a Milano e a Genova, Venezia fu la città in cui il D. si fermò per la maggior parte della sua vita - presumibilmente dal 1619 fino al 1634 - e nella quale furono stampate tutte le sue opere. Attraverso Antonio Sabellico, come ci informano De Angelis e Gigli, il D. fece la conoscenza di Michele Priuli (figlio del doge Antonio Priuli e nipote del doge Giovanni Corner), procuratore di S. Marco alla fine degli anni Venti, e probabilmente autore, insieme con Giorgio Corner (figlio del doge), del ferimento, nel 1627, di- Renier Zeno, che era stato il principale artefice della rivolta di una parte del patriziato contro la famiglia Corner, accusata di una serie di abusi e prevaricazioni.
Nel 1619, come si ricava dalla dedica del volumetto a Bartolomeo Palmerini, suo protettore, il D. pubblicò Poesia lirica (s. n. t.), adoperando, del proprio cognome, la forma Di Donno, forma di cui molto raramente si servirà in seguito.
La raccolta, oltre a vari sonetti, odi e canzoni, comprende La palma, sestine encomiastiche per il Palmerini (che presenta un proprio frontespizio con luogo, data della stampa e nome dello stampatore: "in Venetia, M.DC.XIX, appresso Gio:Battista Ciotti"), l'idillio L'anniversario amoroso, la prosa La pittura dell'inverno e il poemetto in ottave e in due canti Gliamori di Leandro ed Ero in cui narra, sulle orme di Ovidio, come Ero, credendo Leandro morto in mare nel tentativo di raggiungerla, si uccida.
In una premessa scritta per i lettori di Poesia lirica, Innocentio de Marini annunciava imminente la stampa di altre rime del D., L'orto diPindo (di cui Poesia lirica sarebbe soltanto un estratto), del romanzo L'amorosa Clarice e di un volume di lettere. In realtà, nel 1620, sempre a Venezia, ma presso G. Sarzina, fu stampata solo La musa lirica.
La raccolta, dedicata a G. B. Bisuti, è divisa in quattro sezioni: Affetti platonici, Encomi amorosi, Amori marinareschi e Rime varie. La prima sezione comprende 69 sonetti (la maggior parte seguiti da una breve prosa esplicativa), nei quali gli spunti autobiografici, e soprattutto la tematica del dolore per la lontananza da Manduria (come nel sonetto Al sospiro, ritrovandosi in Venezia l'autore), si mescolano con la tematica amorosa e lasciano ampio spazio a situazioni fittizie e alla tradizionale lode della bellezza femminile, relegando la funzione spettacolare ed appariscente ai titoli dei sonetti (Bella donna morsicata da velenoso aragno, Bella musica con cembalo in mano) e utilizzando un lessico spesso indulgente all'uso di metafore. Un intento encomiastico e mondano è affidato ai 18 componimenti (in maggior parte sonetti) della seconda sezione, nei quali il D. loda la bellezza e l'onestà delle nobili veneziane prendendo spunto dal loro nome o da quello del casato. La terza sezione prevede 24 sonetti, la maggior parte dei quali si avvicina al filone marinaresco della lirica meridionale (Sannazaro e Marino): A Nettuno, Marina tranquillità. Nell'ultima sezione trova spazio il materiale già stampato in Poesia lirica, con l'aggiunta dell'idillio La partenza - incui viene riproposto il tema autobiografico della lontananza forzata dalla patria - e della prosa La pittura della primavera.
Il D. è autore di uno dei primi romanzi del sec. XVII, L'amorosa Clarice (Venezia, Sarzina, 1625), dedicato ai duchi di Mantova Ferdinando Gonzaga e Caterina de' Medici. A differenza dei romanzi eroico-avventurosi coevi, nei quali spesso l'azione si svolge in luoghi lontani ed esotici, o viene utilizzato un viaggio come cornice narrativa, qui la storia è ambientata addirittura a Manduria.
Nel romanzo del D. - che Innocentio de Marini, nella prefazione a Poesia lirica, aveva qualificato come imitazione della Fiammetta del Boccaccio - la narrazione è incentrata nel personaggio di Clarice, cui viene dato un notevole spessore attraverso la tecnica della introspezione psicologica; l'intento moralistico viene dichiarato addirittura nel prologo - "Clarice ragiona" - nel quale la protagonista affida esplicitamente finalità educative alla narrazione delle proprie disavventure sentimentali. La prosa del D. risente di una certa pesantezza, la narrazione e resa spesso faticosa dai lunghi monologhi a sfondo moraleggiante, dalle preghiere e dai lamenti della protagonista, dalle descrizioni minuziose dei luoghi (la costa ionica nel quinto libro), dalle invocazioni e dai richiami a personaggi mitologici e infine dal notevole uso di metafore utilizzate per indicare le ore della giornata, soprattutto in apertura di ogni libro.
La narrazione, in prima persona, si snoda attraverso sette lunghi libri. Dall'iniziale incontro tra Clarice e Lelio fino al momento della morte di questo (annegherà nella Senna), l'azione prevede un susseguirsi di momenti di angoscia e brevi periodi di serenità. Il dolore di Clarice, causato dal disinteresse di Lelio, si mitiga nei giorni trascorsi in campagna, tra battute di caccia (ve ne è una bella descrizione nel terzo libro) e feste campestri. Con la partenza di Lelio per Parigi si imprime una svolta alla narrazione degli avvenimenti: dopo un breve periodo trascorso sul mare Ionio, al ritomo in città Clarice apprende la morte di Lelio. Il tentativo di suicidio della protagonista e il conforto che lo stesso Lelio, in sogno, le darà concludono il romanzo.
Ancora a Venezia e ancora presso il Sarzina, ma senza data, il D. pubblicò, molto probabilmente intorno al 1627, L'allegro giorno veneto, overo Lo sponsalitio del mare..., poema eroico in dieci canti, unitamente alle Annotazioni... Nel suo Poema heroico ... (stampate con proprio frontespizio) dedicate a Nicolò Barbarigo e Marco Trivisano. L'allegro giorno veneto, grazie al quale il D. fu nominato cavaliere della Croce di S. Marco il 5 luglio 1628, presenta una forte impronta di mondanità e uno scoperto intento celebrativo rintracciabili sia nella dedica generale alla Repubblica veneta sia nel fatto che ogni canto è singolarmente dedicato a uno dei nove procuratori di S. Marco (tra cui Michele Priuli, Simone Contarini e Zaccaria Sagredo) e il primo addirittura al doge Giovanni Corner.
Con la "Base historica del poema" il D., accogliendo la versione leggendaria del dominio veneziano sull'Adriatico (Venezia, avendo prestato aiuto al papa Alessandro III contro Federico Barbarossa, ricevette da questo la signoria sull'Adriatico, da ricordare ogni anno durante la festa dell'Ascensione con il simbolico sposalizio del mare), sembra voler intervenire direttamente nella questione della legittimità giurisdizionale della supremazia veneziana. D'altra parte il poema denuncia una vistosa adesione al gusto barocco che è rintracciabile nell'argomento stesso, una festa spettacolare, nel gusto per la meraviglia, nelle descrizioni del banchetto e del ballo, nell'uso smodato della metafora e nelle reminiscenze mitologiche.
In dieci lunghi canti in ottave (ogni canto è preceduto da un "Argomento" di poche righe) il poema descrive la festa dello sposalizio del mare, cominciando con la descrizione del corteo che accompagna il doge e il patriarca di Venezia all'imbarcazione (tutto il secondo canto è dedicato alla descrizione minuziosa del bucintoro) che li condurrà sull'isola scelta come luogo per la cerimonia dello sposalizio tra il doge e la ninfa Doride, figlia del mare. Il ricordo di viaggi mitologici (Colchide) e l'omaggio dei fiumi italiani che scendono tutti intorno al bucintoro accompagnano la descrizione del ritorno del doge. Nella sala del Maggior Consiglio (in cui campeggia il dipinto relativo alle vicende del Barbarossa e del papa) si svolgono il banchetto - tutto l'ottavo canto è dedicato alla descrizione colorita dei cibi - e poi il ballo, occasione per il D. di nominare tutte le dame veneziane e scoprire così l'intento mondano del poema. La scena del dono simbolico offerto dal doge a ogni donna (ulteriore pretesto per elencare, di nuovo, una per una, le dame e fare un riferimento nostalgico alle belle donne di Manduria) chiude il poema.
Ordinato sacerdote a Venezia già dal 1625, il D. molto probabilmente fu anche aggregato all'Accademia degli Incogniti, fondata a Venezia intorno al 1630 da Giovan Francesco Loredano. Questa costituì un notevole polo di attrazione per gli intellettuali dell'epoca: riunì in effetti gran parte dei letterati, da Marino ad Achillini e Chiabrera, dal Brusoni al Basile. Molti accademici appartenevano al clero, come il padre Arcangelo Aprosio e il padre Antonio Rocco e alcuni, come Ferrante Pallavicino, lo avevano abbandonato; altri, come Pace Pasini e il Bisaccioni, condussero una vita avventurosa. Antigalileiani e aristotelici in campo filosofico, gli Incogniti, che intendevano servirsi della letteratura e dell'eloquenza allo scopo di raggiungere il successo e soddisfare le proprie ambizioni mondane, scelsero proprio il romanzo per venire incontro ai gusti di un pubblico desideroso di novità. Sebbene le pubblicazioni ufficiali dell'Accademia - Discorsiacademici de' signori Incogniti, havuti in Venetia nell'Academia dell'illustrissimo signor Gio:Francesco Loredano nobile veneto (Venezia 1635); Cento novelle amorose de i signori Accademici Incogniti divise in tre parti (Venezia 1651) - non abbiano accolto suoi scritti, una biobibliografia del D. è presente ne Le glorie de gli Incogniti o vero Gli huomini illustri dell'Accademia de' signori Incogniti di Venetia (Venezia 1647, pp. 133-135).
Il nome del D. compare anche nel frontespizio dell'Historiadella Transilvania raccolta dal cavalier Ciro Spontoni e registrata dal cavalier Ferdinando Donno ... (Venezia, Sarzina, 1638), storia - in dodici libri - delle imprese militari di Sigismondo Báthory, principe di Transilvania. Il Sarzina, in un avviso "à lettori", ci avverte che lo Spontoni lasciò l'opera manoscritta, ma non ci dice in che cosa consistette l'intervento del D., e non sappiamo quindi se egli abbia riscritto del tutto la storia o si sia limitato, ad esempio, a comporre la Tavoladelle cose più notabiliche nell'opera si contengono, unindice, tra l'altro, molto particolareggiato.
Nel 1634, dietro segnalazione di Giovan Tommaso Giustiniani, che intendeva dimettersi dalla carica, il D. fu nominato arciprete della chiesa collegiata di Mariduria e poté fare ritorno nella città natale. Dopo aver conseguito il dottorato in diritto canonico - essenziale per ricoprire il ruolo di arciprete - presso la Sapienza di Roma nel novembre del 1634, ed aver ricevuto dal pontefice Urbano VIII la nomina a protonotario apostolico, il D. fece ritorno a Manduria nei primi mesi del 1635 e vi rimase fino alla morte, avvenuta quasi sicuramente nel 1649.
Solo recentemente le Opere del D. hanno avuto un'edizione complessiva a cura di G. Rizzo (Lecce 1979).
Fonti e Bibl.: D. De Angelis, Le vite de' letterati salentini, II, Napoli 1713, pp. 167-184 (cfr. recens. con interessanti aggiunte biografiche, in Giornale de' letterati d'Italia, XX [1715], pp. 212-217); Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, VI, Napoli 1819, pp. 32-33 (la biografia del D. è di P. Panvini); G. Gigli, Scrittori manduriani, Lecce 1888, pp. 43-71; A. Albertazzi, Romanzieri e romanzi del Cinquecento e delSeicento, Bologna 1891, pp. 163-164, 189; A. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di terra d'Otranto..., Lecce 1927, p. 137; G. Arnò, Manduria e manduriani. Note ed appunti biobibliografici e di storia patria, Lecce 1943, pp. 45-46, 98-106; A. N. Mancini, Note sulla poetica del romanzo italiano del Seicento, in Modern language notes, LXXXI (1966), I, p. 38; C. Jannaco, Il Seicento, Milano 1973, p. 210; Romanzieri del Seicento, a cura di M. Capucci, in Classici italiani, Torino 1974, p. 13; Introduzione a F. Donno, Opere, a cura di G. Rizzo, Lecce 1979, pp. 11-51; B. Porcelli, Dalla "Fiammetta" del Boccaccio all'"Amorosa Clarice" del D.: un esempio di ristrutturazione secentesca, in Italianistica, X (1981), pp. 178-187; M. L. Doglio, La letteratura ufficiale e l'oratoria celebrativa, in Storia della cultura veneta. Il Seicento, IV, 1, Vicenza 1983, p. 179.