GALIANI, Ferdinando
Nacque a Chieti il 2 dic. 1728, da Matteo, regio uditore in quella città, e da Anna Maria Ciaburri.
Dopo aver seguito gli spostamenti professionali del padre a Lecce, Trani e Montefusco, nel luglio 1735 il G. si recò a Napoli presso lo zio paterno Celestino, già arcivescovo di Taranto e dal 1732 cappellano maggiore del Regno di Napoli. Insieme con il fratello maggiore Berardo, studiò e soggiornò presso lo zio per molti anni, salvo una pausa, tra il 1737 e il 1741, trascorsa nel monastero dei padri celestini di S. Pietro a Majella, durante una lunga missione dello zio a Roma per stipulare il concordato con la S. Sede.
Gli studi del G. furono influenzati profondamente dalla formazione filosofica dello zio, ispirata alla nuova visione scientifica di Newton e Locke. Studiò al tempo stesso lettere italiane e latine, greco ed ebraico, matematica, filosofia e scienze naturali, diritto ed economia. Ottimi furono i maestri di cui, insieme con il fratello, poté avvalersi. Tra gli altri: il sacerdote C. Catalano nei primi anni; i celestini P. Orlandi e A. Buonafede nel periodo trascorso presso il monastero; M. Cusano, docente di diritto civile nella casa dello zio, dopo il ritorno di questo da Roma. Presso lo zio il G. ebbe anche la possibilità di conoscere e ascoltare i maggiori intelletti del paese, tra cui: l'ormai vecchio G.B. Vico (morto nel 1744); i giuristi N. Capasso, G.P. Cirillo e N. Fraggianni; gli studiosi dell'antichità A.S. Mazzocchi, M. Egizio e G. Martorelli; i naturalisti, matematici e astronomi G. Porta, A. Fiorelli, M. Ruberto, D. Sanseverino, N. e P. De Martino, G. Orlando; il medico F. Serao. Particolarmente stimolanti le discussioni sui problemi economici e politici che vedevano principali protagonisti due uomini d'affari toscani, A. Rinuccini e B. Intieri, attenti osservatori delle condizioni del Regno e promotori di iniziative innovative (come la cattedra di commercio all'Università, che l'Intieri finanziò per A. Genovesi a partire dal 1754).
Rispetto a tutte queste materie, anche così distanti tra loro, il G. mostrò fin da giovanissimo interesse e competenza, coniugando in modo particolarmente felice lo studio dell'antichità con l'analisi dei problemi reali del suo tempo, soprattutto quelli economici. Già nel 1744 si dedicò allo studio dell'economia, cimentandosi contemporaneamente nella lingua inglese, con la traduzione, rimasta inedita, dell'opera di J. Locke, Some considerations of the consequences of the lowering of interest and raising the value of money, che peccava a suo avviso nell'ordine e nel metodo e probabilmente lo convinse dell'importanza di un lavoro organico su tale argomento. Anche altri successivi scritti giovanili, sempre inediti, vanno in questa direzione: nel 1746 una storia sulle antiche navigazioni nel Mediterraneo, rimasta incompiuta; e nel 1747-48 un saggio sulla moneta ai tempi della guerra di Troia, con un'intelligente utilizzazione dei poemi omerici per formulare alcune acute considerazioni sul conio e sul valore intrinseco della moneta.
Gli altri scritti giovanili, anch'essi non dati alle stampe (e parzialmente pubblicati solo nel Novecento), sono invece essenzialmente esercitazioni retorico-umanistiche, che il G. sosteneva presso una delle tante accademie fiorite a Napoli in questo periodo, quella degli Emuli: dotte dissertazioni, di chiaro stampo classicista, sulla passione amorosa, sulla morte di Socrate, sull'amor platonico, che già denotavano un acuto anticonformismo, uno spirito arguto e dissacratore e, al tempo stesso, la consapevolezza che il pensiero filosofico doveva essere assolutamente libero da impacci d'ordine religioso o dogmatico. In alcuni punti è possibile scorgere squarci di un pensiero materialistico e sperimentalista, oppure una concezione di stampo vichiano nell'influenza dell'espressione linguistica sull'articolazione e manifestazione delle idee.
Nel 1749 il G., per vendicarsi di G.A. Sergio che gli aveva impedito di partecipare a un'adunanza di un'altra accademia al posto del fratello Berardo, redasse insieme con l'amico P. Carcani e pubblicò uno scritto burlesco: Componimenti varii per la morte di Domenico Jannaccone carnefice della Gran Corte della Vicaria raccolti e dati in luce da Giannantonio Sergio avvocato napoletano. I due amici mettevano alla berlina il Sergio e gli altri accademici, imitando perfettamente la partecipazione di circostanza, lo stile ampolloso, la vuota e sciatta erudizione che essi erano soliti manifestare in occasione di ben più nobili morti. Di fronte alla reazione degli accademici, che reclamavano inchieste e pene pesanti, i due giovani confessarono al Tanucci la paternità del libello e se la cavarono con rimproveri divertiti ed esercizi spirituali; del resto dell'episodio rideva tutta Napoli.
Nel 1749-50 il G., sollecitato dalla crisi monetaria diffusasi nel Regno di Napoli dopo la pace di Aquisgrana, scrisse il trattato Della moneta (Napoli, datato 1750, ma in realtà stampato nel 1751). Anche in questo caso l'opera si presentava anonima, probabilmente per il timore (come ipotizza il Diaz, in F. Galiani, Opere, p. 4) che "per la sua originalità e novità potesse in qualche punto spiacere alle autorità, o magari semplicemente suscitare critiche rese aspre dalla cognizione della giovinezza e della presunta inesperienza" dell'autore. Ma dopo le accoglienze favorevoli del mondo culturale e politico napoletano, in particolare dell'Intieri, e di fronte alle voci che comunque gli attribuivano la paternità del trattato, il G. già nell'ottobre 1751 ammise di esserne l'autore.
Il Della moneta viene considerato "il capolavoro uscito dalla discussione sulle monete a metà del secolo" (Venturi, 1969, p. 490): una discussione che vide impegnati molti intellettuali e riformatori dei vari Stati italiani: C.A. Broggia nel 1743 (e poi di nuovo nel 1754), T. Spinelli, G. Belloni, G. Fabbrini, P. Neri, G.R. Carli, G.F. Pagnini, P.G. Capello e G. Costantini, tra il 1750 e il 1752. Rispetto a questi autori il G. si distinse nettamente: per l'ampiezza e l'organicità della trattazione, per le chiare e lucide definizioni di concetti economici di base (come il valore dei beni), per l'originalità del suo pensiero rispetto al problema delle manipolazioni monetarie. Il punto di partenza era un'articolata analisi sui metalli preziosi e sul valore intrinseco della moneta, dovuto alla quantità di metallo: anche il metallo prezioso non coniato poteva dirsi quindi moneta e il conio non era altro che un segno della quantità di metallo contenuto. In questo modo il G. respingeva la teoria contrattualista sull'origine della moneta che derivava da Aristotele ed era stata accettata da tanti autori successivi. Nonostante queste premesse, riteneva il cosiddetto alzamento, la diminuzione della quantità di metallo in una moneta che conservava il suo valore di conio originario, un provvedimento giusto e utile per i governi che l'adottavano. Ciò significava pronunciarsi nettamente a favore dell'inflazione controllata, mentre gli altri "monetaristi" si battevano contro la svalutazione della moneta e gli aumenti dei prezzi, auspicando una politica statale a favore della stabilità monetaria. L'alzamento - secondo il G. - doveva però essere adottato solo in una situazione eccezionale e da un governo che godesse dell'autorità necessaria: un potere efficiente e assoluto non limitato da Parlamenti o altri corpi intermedi, ma illuminato, come a suo avviso era quello di Carlo di Borbone. Tale alzamento era lecito soprattutto in presenza di un cospicuo debito pubblico, perché consentiva di aumentare le entrate senza introdurre nuove tasse o inasprire le vecchie. Col tempo la svalutazione sarebbe stata assorbita dal mercato grazie all'inevitabile aumento dei prezzi, ma prima che si fosse ricreato l'equilibrio monetario lo Stato avrebbe realizzato cospicui introiti, mentre i lavoratori non avrebbero avuto grandi danni, perché - affermava il G. - "se incariscon le merci, crescono del pari le mercedi ed ogni altro guadagno". Inoltre, l'aumento dei prezzi e la maggiore disponibilità di denaro avrebbero prodotto un incremento della produzione e della circolazione dei beni e dei consumi. Quello della produzione era l'obiettivo primario di una nazione, da incrementare il più possibile sia in campo agricolo, sia in quello manifatturiero, mediante adeguati investimenti: venivano così apertamente superate le vecchie tesi mercantiliste di una ricchezza basata sull'introduzione di molto più denaro o metallo prezioso di quello esportato.
Accanto a queste tematiche, che per l'epoca erano senz'altro quelle più importanti, il libro del G. conteneva alcune felici intuizioni sul valore dei beni: rapportato sia alla loro utilità (intesa come soddisfacimento dei bisogni primari - mangiare, bere, dormire - e di quelli secondari, relativi alle passioni e al piacere), sia alla rarità, sia al lavoro necessario per produrli (la "fatica"). Molti economisti e storici del pensiero economico di fine Ottocento o del primo Novecento, soprattutto italiani, hanno individuato in queste intuizioni sia elementi anticipatori delle teorie marginaliste del valore, sia di quelle precedenti di stampo ricardiano e marxiano. È il caso di ricordare soltanto il favorevolissimo giudizio di L. Einaudi, che ravvisa tra l'altro nel G. "germi delle teorie gosseniane, della gerarchia dei beni, della loro sostituzione, della decrescenza della utilità delle successive dosi di un bene"; nonché quello altrettanto entusiasta di J.A. Schumpeter, per il quale il G. eleva la fatica "alla dignità di unico fattore di produzione, la considera l'unica circostanza "che dà valore alla cosa"". Tuttavia il libro del G. fu quasi del tutto ignorato dai maggiori economisti dell'Ottocento (ad eccezione di K. Marx), anche perché esso non fu tradotto, nemmeno dopo la seconda edizione del 1780 (l'unica traduzione in francese apparirà nel 1955). Il successo dell'opera fu quindi solo iniziale, limitato agli anni Cinquanta, e passò presto assieme a "quel periodo di vivissimo interesse per i problemi monetari che era conseguito alla guerra di successione austriaca" (Diaz, in F. Galiani, Opere, p. 9).
All'iniziale successo del Della moneta contribuì un lungo viaggio del G. in Italia, iniziato nel novembre 1751 e durato un intero anno. Nel corso di esso egli poté conoscere i maggiori intellettuali italiani, divulgare le proprie idee e discutere di economia, filosofia e di altri argomenti: fu quindi, tra l'altro, a Roma, Siena, Livorno, Pisa (dove conobbe anche G. Cerati), Firenze, Ferrara, Venezia (M. Foscarini), Milano (F. Argelati e P. Neri), infine a Torino, dove discusse con il re Carlo Emanuele III. Tornato a Napoli, e morto poco dopo lo zio Celestino (1753), si dedicò a studi di minor rilievo e di vario argomento. Nel 1754 collaborò all'opuscolo uscito a nome dell'Intieri Della perfetta conservazione del grano: descrizione di una stufa che il toscano aveva ideato nel 1728 e fatto costruire tre anni dopo. L'anno successivo si dedicò alla geologia, raccogliendo e classificando 141 specie di pietre del Vesuvio (di cui nel 1772 pubblicò un breve catalogo). La raccolta fu regalata al papa Benedetto XIV, conosciuto nel 1751, che in cambio gli assegnò una buona rendita su un beneficio ecclesiastico. D'altra parte, il G. già da qualche anno aveva preso gli ordini minori e godeva, da abate, di due discrete rendite ecclesiastiche. Nel 1756 venne inserito nell'Accademia Ercolanese, appena creata da Carlo di Borbone per studiare i resti archeologici della cittadina vesuviana, e nel 1757 contribuì a presentare il primo volume dell'attività accademica sulle pitture ritrovate. Negli anni successivi, accantonati del tutto i temi economici, si indirizzò verso componimenti d'occasione di facile impegno, scrisse un saggio di interesse filosofico, rimasto inedito e probabilmente non completato (Degli uomini di statura straordinaria, e de' giganti), e pubblicò Delle lodi di papa Benedetto XIV, Napoli 1758 (ristampa ibid. 1781), omaggio al pontefice defunto, di cui lodava "l'intelligente, bonario, anche illuminato, operato" e il "cautissimo riformismo", mostrando una personale visione politica, sostanzialmente immobilista, estranea, allora come in futuro, al riformismo perseguito in quel periodo dal Genovesi e dagli altri illuministi napoletani.
Nel gennaio 1759 il G. venne nominato dal Tanucci segretario d'ambasciata a Parigi, dove si recò nel successivo mese di maggio. L'incarico era delicato perché bisognava in qualche modo indirizzare il lavoro di un ambasciatore poco capace, come lo spagnolo José Baeza y Vicentello conte di Cantillana, e bisognava affermare l'autonomia napoletana dalle altre corti borboniche, nel momento in cui Carlo di Borbone ereditava il trono spagnolo e lasciava a Napoli un re bambino e un Consiglio di reggenza. A Parigi il G. soggiornò circa dieci anni (con una interruzione nel 1765-66), svolgendo validamente i compiti diplomatici via via assegnatigli e soprattutto divenendo uno dei più apprezzati e ricercati animatori della vita mondana e culturale della città.
All'inizio il rapporto con il suo lavoro e con la capitale francese non fu dei migliori, ma bastò che nel corso del 1760 il Cantillana soggiornasse per molti mesi in Spagna perché la situazione cambiasse radicalmente. La possibilità di essere autonomo nei rapporti con gli uomini di governo, con la corte di Versailles e con il mondo culturale parigino consentì al G. l'inizio di uno splendido lungo soggiorno. Frequentò i salotti più celebri e ne divenne un ricercatissimo protagonista. Fece conoscenza, discusse e strinse rapporti di amicizia con alcuni dei maggiori intellettuali del momento, filosofi illuministi e materialisti, letterati, enciclopedisti: tra gli altri P.-H. d'Holbach, C.-A. Helvétius, J.-F. Marmontel, A. Morellet, J.-B. d'Alembert, J.-B. Suard e soprattutto D. Diderot, F.M. Grimm, Louise-Florence-Pétronille Tardieu d'Esclavelles (M.me d'Épinay). Le uniche eccezioni di rilievo fra gli uomini di cultura francesi del tempo sono quelle di J.-J. Rousseau (poco apprezzato dal G.), di molti fisiocrati, con cui poi si scatenerà un'accesa polemica, e del lontano Voltaire, che però lo ebbe in grande stima.
Nei salotti letterari parigini il G. si distinse per l'arguzia e le capacità critiche, la grande cultura e l'intelligenza, che gli consentivano di discettare su qualsiasi argomento e di formulare sempre idee del tutto originali, nonché per i motti di spirito e la spregiudicatezza, spesso cinica, nei rapporti umani, e, infine, per la concretezza nelle analisi e nelle discussioni in materia politica, economica e filosofica. Fu perciò soprannominato Arlecchino e Machiavellino, assai ricercato e apprezzato da tutti, anche negli ambienti della corte di Francia. La sua fama di arguto opinionista e di grande giocoliere delle parole varcò i confini francesi (soprattutto grazie alle corrispondenze del Grimm), raggiungendo le corti di alcuni principi tedeschi e di Caterina di Russia, con cui il G. intrattenne rapporti epistolari dopo il suo ritorno a Napoli. Sul suo modo di essere, la brillante conversazione, le ardite opinioni e i motti di spirito fiorì subito una ricca aneddotica, spesso condita dei piccanti particolari della sua intensa vita amorosa, che si perpetuerà nei secoli successivi, divenendo oggetto di numerose pubblicazioni, spesso piuttosto grossolane e superficiali nel valutare un personaggio complesso come il Galiani.
La sua partecipazione agli aneliti riformistici presenti in Francia in quel periodo fu comunque minima. Come rileva il Diaz, "le grandi lotte dei philosophes, degli enciclopedisti, per la libertà civile e di opinione, per la tolleranza, contro i privilegi sociali e civili, gli abusi giudiziari, l'insufficienza o la arretratezza delle leggi, e via seguitando, lo interessano certamente, ma in superficie, attirano la sua attenzione di osservatore e di relatore [al Tanucci], ma sfiorano appena la sua sensibilità" (introduz. a F. Galiani, Opere, p. XLVI).
L'attività diplomatica che contemporaneamente il G. andava svolgendo non fu di particolare rilievo. Per la posizione marginale occupata dal Regno di Napoli nel contesto politico internazionale, egli si limitò a essere attento osservatore e commentatore della realtà francese e dei problemi europei che passavano per Parigi: di ciò resta un'interessante testimonianza nelle lettere al Tanucci. Il G. riferiva puntualmente sulla guerra dei Sette anni (durata fino al 1763) e sul conseguente tracollo dell'impero coloniale francese a vantaggio dell'Inghilterra, sulle dispute in materia tributaria tra i Parlamenti e la Corona, sulla questione della Corsica (in quegli anni acquisita dalla Francia) o su altre tematiche generali che interessavano solo indirettamente il Regno di Napoli. Più concretamente pertinenti al suo ufficio erano: i problemi relativi ai non facili rapporti commerciali con la Francia, causati dai frequenti sequestri di merci e dalle conseguenti lunghe detenzioni di marinai napoletani; la resistenza all'ingresso nel "Patto di famiglia", stipulato nel 1761 tra le corti borboniche di Francia e Spagna; e questioni diplomatiche minori e occasionali.
Da Parigi il G. seguì con attenzione la grande crisi granaria del Regno di Napoli del 1763-64. Il confronto con l'abbondanza presente contemporaneamente in Francia, dove proprio in quegli anni erano stati adottati provvedimenti a favore della libera circolazione del grano, spinse il G. a prendere posizione in chiave liberista (oltre a proporre di sostenere colture nuove, come la patata e il mais). Queste posizioni, espresse nelle lettere inviate a Tanucci nel 1764, furono riprese in una lunga memoria scritta alla fine del 1765, durante una licenza a Napoli: Storia dell'avvenuto sugli editti del libero commercio de' grani in Francia promulgati nel 1763 e 1764 (rimasta inedita, sarà pubblicata dal Nicolini nel 1959).
La licenza doveva durare sei mesi, ma il G. rimase a Napoli dal maggio 1765 all'ottobre dell'anno successivo, anche perché incaricato di preparare un progetto, poi accantonato dal Tanucci, di trattato di commercio con la Francia. Durante questo lungo soggiorno, egli conseguì la laurea in diritto civile e canonico e fu nominato consigliere del Tribunale di commercio. La nuova carica fu però congelata e nell'autunno 1766 il G. ritornò a Parigi, dove riprese l'antico incarico e il suo posto di ricercato animatore dei salotti e di distaccato osservatore della intensa vita politica e intellettuale della città. Fino agli inizi del 1768 egli continuò a pronunciarsi nelle sue lettere per la piena libertà di commercio e contro gli arcaici sistemi annonari del Regno di Napoli; ma nel corso di quell'anno cambiò opinione di fronte alla crisi del tutto inaspettata (penuria di grano, notevole aumento dei prezzi) di molte regioni francesi. Il G. inoltre era probabilmente influenzato dalla conoscenza di due realtà economiche molto diverse, come l'Olanda e l'Inghilterra, con cui era venuto a contatto in un lungo viaggio nell'autunno 1767 e forse dalle idee antifisiocratiche espresse in quegli anni da Fr.-L. Véron de Fortbonnais. Pertanto, nei primi mesi del 1769 si dedicava a formulare queste nuove idee in un'opera sul commercio dei grani, ma nel maggio veniva richiamato a Napoli, a causa di un'incauta confidenza diplomatica contro il Patto di famiglia.
Il G. allora si affrettò a completare il manoscritto e lo lasciò a Diderot e a M.me d'Épinay per rivederne la lingua e curarne la pubblicazione, che avvenne, dopo alcune vicissitudini con la censura, agli inizi del 1770, sotto il titolo Dialogues sur le commerce des bleds, in forma anonima e col falso luogo di stampa di Londra.
L'opera fece molto scalpore: per la forma agile e divertente utilizzata per parlare di temi economici spesso assai noiosi e per l'opinione contraria alla completa libertà di commercio perseguita dai fisiocrati. Dal punto di vista formale l'opera si presenta come un dialogo diviso in otto parti, tra l'italiano cavalier Zanobi (che è lo stesso G.), un interlocutore che si fa spiegare le sue idee e che cerca invano di contrastarle, un ulteriore interlocutore, chiamato, a partire dal quinto capitolo, a fare da arbitro. Zanobi afferma decisamente che non vi sono leggi economiche valide per tutti i luoghi. Stati piccoli o grandi, commercialmente avanzati o arretrati, prevalentemente agricoli o manifatturieri non possono adottare in materia di grani la stessa politica economica. Inoltre, egli distingue nettamente tra la libera circolazione interna e quella estera, sostenendo che una grande nazione come la Francia deve consentire l'esportazione del raccolto eccedente alle regioni più prospere solo dopo aver compensato le eventuali necessità di grano delle regioni caratterizzate da un raccolto insufficiente. In pratica, non si trattava di impedire le esportazioni, ma di regolamentarle, adattandole alla realtà concreta in cui si operava, di scoraggiarle utilizzando lo strumento dei dazi. In questo modo si potevano scongiurare momenti di penuria grave, le carestie così pericolose per il normale sostentamento degli strati più deboli della popolazione e di conseguenza per la tenuta dei governi, le sordide speculazioni e gli illeciti arricchimenti che produttori, mercanti e intermediari spesso riuscivano a conseguire in tali momenti. Alla base del ragionamento del G. vi erano quindi il realismo politico e la ragion di Stato, contro analisi che mettevano al primo posto una scienza economica (fisiocratica) elevata a sistema e posta al di sopra di qualsiasi istanza di tipo politico. In contrasto con il pensiero fisiocratico, Zanobi considera poi non l'agricoltura, ma le manifatture l'attività economica più importante: "c'est des manufactures seules que vous pouvez espérer une circulation prompte et égale des richesses […], l'égalité du produit total de l'État au milieu de toutes les vicissitudes, l'égalité par conséquent du produit des impôts d'où dérive la force de l'État" (ed. De Rosa, p. 105). Di chiara matrice mercantilista sono quindi la teoria fiscale (dazi sulla esportazione delle materie prime utili alle manifatture e sull'importazione dei prodotti industriali stranieri), l'ammissione dei monopoli commerciali, l'identità tra la ricchezza di uno Stato e il numero dei suoi abitanti.
L'uscita del libro scatenò la dura, anche violenta reazione dei fisiocrati, ma anche autorevoli consensi. Tra questi quello celebre di Voltaire, che trovò i dialoghi "aussi amusants, que nos meilleurs romans, et aussi instructifs que nos meilleurs livres sérieux" (cit. da Diaz, introduz. a F. Galiani, Opere, p. LXXV) e quello di Diderot, che contro gli attacchi di Morellet scrisse una Apologie de l'abbé G., rimasta però inedita (e pubblicata solo nel 1963). Oltre al Morellet altri economistes criticarono duramente i Dialogues, soprattutto nella rivista Éphémérides du citoyen. Particolarmente pesante l'attacco di P.-P.-H. Le Mercier de la Rivière in un voluminoso libro uscito nel 1770 (L'intérêt général de l'État ou La liberté du commerce des bleds démontrée conforme au droit naturel; au droit public de la France; aux lois fondamentales du Royaume; à l'intérêt commun du souverain et de ses sujets dans tous les temps; avec la réfutation d'un nouveau système en forme de "Dialogues sur le commerce des bleds"). Il G. rispose con una parodia inviata agli amici in Francia, che, come egli stesso diceva in una lettera alla d'Épinay, non era "un semplice divertissement, ma una vera e propria confutazione, perché se pure cambio i nomi alle cose, lascio immutati tutti i ragionamenti di de La Rivière, ed ecco che si scopre all'istante quanto siano assurdi e strampalati" (ed. Rapisarda, I, p. 173). Il sarcasmo la faceva da padrone e lo stesso titolo ne è la prova, perché riproduce in tutto quello del rivale sostituendo l'ultima parte con La réfutation d'un nouveau système de bagarre publié en forme de feu d'artifice, par M.L.A.R. economiste indigne. L'operetta non fu pubblicata e solo due secoli dopo è stata ritrovata e data alle stampe (nel 1979) da S.L. Kaplan.
Nonostante gli attacchi dei fisiocrati i Dialogues ebbero fortuna sia in campo politico, sia in quello editoriale. Infatti, da un lato il governo francese recepiva nello stesso 1770 le sue principali posizioni revocando l'editto liberista del 1764; dall'altro lato si ebbero due traduzioni in tedesco, una in spagnolo negli anni Settanta e altre due edizioni tedesche dopo la morte del G. (nel 1795 e nel 1802); il libro fu poi inserito nella collana degli Scrittori classici di economia italiana curata da P. Custodi (1803, prima edizione italiana del testo francese, senza traduzione). In seguito comunque l'opera fu piuttosto accantonata, non suscitando più interesse dopo il radicale mutamento di prospettive dell'economia europea avvenuto dopo la rivoluzione industriale e il trionfo del liberismo di ispirazione smithiana. Sarà comunque presa in considerazione dagli storici del pensiero economico e del secolo XVIII e sarà oggetto di varie ristampe (e alcune traduzioni in italiano) nel corso della seconda metà del Novecento.
A partire dal 1770, con il definitivo ritorno a Napoli, iniziava per il G. un periodo del tutto nuovo, a suo dire estremamente noioso, al punto da fargli rimpiangere per anni il bel mondo parigino. Per compensare questa sensazione di fastidio, procuratagli anche da numerosi incarichi nella magistratura e nella pubblica amministrazione, il G. coltivò una singolare molteplicità di interessi culturali, dall'antichistica all'opera buffa, dal diritto internazionale al dialetto napoletano, e intessé una fitta corrispondenza con la d'Épinay e con altri amici francesi (Grimm, D'Alembert, Diderot).
Nel complesso, le lettere ritrovate e più volte pubblicate a Parigi nel corso del XIX secolo (non senza pecche per la presenza di apocrifi e di interventi censori) sono circa 350, scritte in francese tra il 1769 e il 1783, anno della morte della d'Épinay a cui erano prevalentemente indirizzate. Questo epistolario è da considerarsi un'opera letteraria e, secondo alcuni critici, il capolavoro del Galiani. D'altra parte, egli stesso teneva ben presente l'esito non solo privato delle sue lettere. Nel giugno 1773 così scriveva alla d'Épinay: "Sapete bene, mia bella dama, che quando saremo morti, il nostro epistolario sarà pubblicato. Che piacere! E quanto ci divertiremo! Così voglio impegnarmi in tutti i modi per far sì che le mie lettere [… mostrino] un'adorabile varietà: qualche volta gioco a offendervi, altre volte mi comporto con sarcasmo, talvolta inizio la lettera con un tono e la finisco con un altro" (ed. Rapisarda, I, pp. 656 s.). Nelle lettere il G. si occupa sia di fatti privati, anche minimi, sia di temi generali, discutendo di metafisica e logica, di morale e scienza politica, di storia ed economia, del futuro dell'uomo, di arte, letteratura. Lo stile è sobrio, talvolta beffardo, permeato da una sottile ironia, dal gusto per il paradosso, da grande acume. È la continuazione ideale delle sue conversazioni nei salotti parigini e vi traspaiono - come rileva il Macchia - una "concezione edonista dell'esistenza", la capacità di rendere seria la frivolezza, un epicureismo venato di malinconia, la consapevolezza che "l'intelligenza è allegria": cioè quella che il Macchia definisce felicemente la "nécessité de plaire", di "un attore comico, tutto proteso nel gusto di far fermentare lo spirito d'Arlecchino nella testa di un Machiavelli". Avverso al pianto, al patetico nascente in letteratura il G. tiene sempre presente che dall'altra parte della sua opera, sia anche "soltanto" una lettera, c'è un lettore e il suo divertimento.
In campo filosofico egli offre talvolta spunti interessanti: su l'esistenza di Dio, il fatalismo, la morte, la natura, la verità, l'esperienza, l'istinto e le abitudini dell'uomo, la felicità, l'educazione, discutendo il pensiero di Voltaire e d'Holbach, Rousseau e Leibniz, ecc. Anche se non si cimenta in trattazioni filosofiche organiche si rintraccia nelle lettere - e in passi delle altre opere - un pensiero filosofico del G., che Amodio ha efficacemente messo in relazione con il libertinismo del Seicento e del primo Settecento e con la capacità dei libertini "di scrivere sui più svariati argomenti", che potessero "loro interessare, piacere, quasi per gustarne al palato il sapore", come dei dilettanti "nel significato più nobile e non polemico del termine". Da ciò "un vero e proprio errare della ragione nei territori disparati del mondo umano", il "disinteresse per ogni ricostruzione generale e omnicomprensiva" (p. 28), il rifiuto del nuovo ordine e il trionfo dell'individuale, della felicità empirica, delle piccole certezze contro la Verità. Efficace è il parallelo tra il G. e B. Le Bovier de Fontenelle, accomunati dalla "geniale bizzarria dell'esprit", entrambi "asistematici e fluttuanti nel pensiero e nell'espressione" (p. 107), animati dallo stesso scetticismo nei confronti del razionalismo voltairiano: la scepsi del G. sfocia in un utilitarismo in cui la ragione serve per la ricerca della felicità e dei piaceri. La lettura fatta da Amodio del pensiero e del personaggio G. consente il superamento delle interpretazioni piuttosto negative fornite dal Croce e in minor misura dal Nicolini (Nicolini, Gli studi sopra Orazio, p. III) circa l'estraneità del G. all'illuminismo napoletano, circa l'assenza di "spirito religioso" e di "sentimento del sublime", di "quell'austera coscienza, come di una missione, che è necessaria per consacrarsi alla scienza; gli facevano difetto l'entusiasmo, la persistenza, lo spirito di sacrificio" (Croce, Il pensiero…).
Il disimpegno e il disincanto delle lettere, la curiosità spesso casuale e contingente verso i più disparati campi espressivi e conoscitivi sono attestati anche dagli altri scritti del G. dopo il suo ritorno a Napoli. Nel 1770 scrisse un dialoghetto, Cela revient toujours au même, in cui Mirabeau (che probabilmente è in realtà d'Holbach) e Voltaire discutono se le "scarpe" (cioè le religioni) siano opera della natura o dell'uomo. Rimasto inedito fu ritrovato dal Nicolini e pubblicato nel 1904 nella rivista La Critica. Nel 1772 scrisse e inviò alla d'Épinay il Croquis d'un dialogue sur les femmes.
Anche questo testo rimase inedito, ma fu pubblicato per la prima volta già nel 1784 (nel Journal des gens du monde, II, pp. 65-83); in seguito ebbe molte altre edizioni in francese, anche nelle varie edizioni della Correspondance, e molte anche in italiano (la prima traduzione è del 1825). Si tratta di un'operetta brevisssima, ma densissima, in cui il G. prende posizione contro le opinioni "femministe" della d'Épinay. Sul filo del paradosso e dello scherzo, ma in fondo in modo del tutto serio e convinto, il G. individua nella donna un essere per sua natura debole e malato, inferiore al maschio, che svolge necessariamente un ruolo subalterno nella società. Perciò, non bisogna modificarne affatto l'educazione, che è un prolungamento della natura, un istinto; a suo avviso solo la religione "è quella parte di educazione che non deriva dalla natura" (ed. Rapisarda, I, p. 497).
Nel 1775 il G. scrisse insieme con G.B. Lorenzi l'opera buffa Socrate immaginario, per la musica di G. Paisiello. Si tratta di una gustosissima satira basata - come avvertono gli autori nell'introduzione - su una sorta di don Chisciotte, "un uomo semplice, che dalla cognizione confusa e volgare delle vite dei Filosofi antichi (come quegli dalle vite de' Cavalieri erranti) abbia stravolto il cervello, sino a credere di poter ristorare l'antica Filosofia". L'estro del G. accanto al mestiere del Lorenzi secondo alcuni critici (in particolare M. Scherillo) fanno del libretto di quest'opera un capolavoro del genere; mentre per altri (V. Monaco) l'intervento del G. snatura le capacità comiche del Lorenzi, espresse nelle sue altre commedie o nei personaggi di contorno del Socrate in dialetto napoletano. L'opera ebbe grande successo in sei rappresentazioni date a Napoli nel 1775, ma poi fu proibita perché si ritenne che facesse il verso a Saverio Mattei, grecista e musicologo napoletano con cui il G. era in polemica. Le rappresentazioni furono permesse di nuovo soltanto cinque anni dopo. La prima edizione della commedia fu pubblicata a Napoli nel 1775, in forma anonima e fu poi inserita nelle Opere teatrali del Lorenzi, stampate nel 1806-20. Da ciò la disputa tra i critici sulla reale paternità della commedia, che il G. nelle lettere alla d'Épinay si attribuiva in toto, ma che può senz'altro essere considerata il frutto, come detto, di una efficace collaborazione.
Nello stesso 1775 il G. riprendeva gli studi su Orazio, iniziati e non portati a termine a Parigi dieci anni prima, intendendo pubblicare un libro molto ampio e organico, che comprendesse una vita del poeta desunta dalle sue stesse liriche, una riedizione completa e commentata delle sue opere e un saggio critico sulle traduzioni italiane e francesi di Orazio. Questo lavoro rimase però abbozzato (solo la vita di Orazio ebbe uno svolgimento quasi completo), perché più volte interrotto e ripreso, finchè nel 1779 il G. annunziò alla d'Épinay di rinunciarvi definitivamente. Tali studi rimasero quindi inediti, ad eccezione dei commenti ad alcune odi e all'Epistola ai Pisoni, scritti in francese a Parigi nel 1764 e pubblicati, ridotti, rimaneggiati e contro la sua stessa volontà, in alcuni numeri del 1765 della Gazette littéraire de l'Europe del Suard.
Nel 1910 sono stati accuratamente ricostruiti dal Nicolini. Il G., ha puntualizzato Ettore Paratore, non vi appare grande latinista, come sembra pensassero i suoi contemporanei, perché troppi sono gli errori sia interpretativi, sia storici: "le proposte temerarie che contraddistinguono il commento e lo circoscrivono nella categoria dei coups d'essai degli amatori indubbiamente fini ma irrimediabilmente orecchianti". Tuttavia non manca qualche "intuizione singolarmente e acutamente felice, soprattutto nell'ambito della visione sintetica, degli sguardi che abbracciano grossi problemi e vasti orizzonti".
Nel 1779 il G., sollecitato dall'interesse di stampo vichiano per il formarsi delle idee e dei linguaggi, pubblicò anonimo a Napoli Del dialetto napoletano, un libro che rivendicava il primato della lingua aulica napoletana su quella toscana.
Egli pertanto cercava di dimostrare che il napoletano, più vicino al latino, era assai affine alla lingua letteraria italiana dei primi secoli, da Jacopone a Dante, e che poi si era corrotto, venendo sopraffatto da una lingua volgare e plebea, quella di G.B. Basile e G.C. Cortese. Per questo motivo bisognava recuperare tale lingua e renderla magari quella ufficiale del Regno meridionale; ciò andava fatto ancor di più perché ormai il paese, dopo i secoli bui della dominazione straniera (che avevano accompagnato la decadenza del dialetto), aveva conquistato con la monarchia borbonica l'autonomia e la prosperità. Si trattava quindi di una posizione accentuatamente municipalistica sia in campo linguistico, sia in quello politico, che, come ha rilevato il Malato, gli impediva "di dare un respiro nazionale alla cultura napoletana, di vedere, sullo scorcio del secolo XVIII, la civiltà meridionale non come fatto locale ma come parte di una più ampia e comune civiltà italiana". Del tutto storicamente infondata era, poi, la sua visione della formazione della lingua italiana, perché un'opera trecentesca che costituisce un fondamentale riferimento per la sua analisi sarà riconosciuta un secolo dopo come una tarda falsificazione, mentre il giudizio negativo sulla letteratura dialettale napoletana del Seicento non troverà riscontro nella successiva critica letteraria che invece la valorizzerà come vero momento aureo. Nonostante questi limiti, il libro del G. sul dialetto è una delle sue opere migliori, "per la vivacità e il brio dello stile e per la ricchezza dell'argomentazione" e perché "primo e tuttora interessante tentativo di ricostruzione del quadro storico della letteratura in volgare e in dialetto napoletano e […] di organica descrizione della fonetica, della morfologia, della sintassi di questo dialetto". Non a caso il libro andò esaurito in pochi mesi e il G. pensò subito di farne una seconda edizione rimaneggiata, ma, come spesso gli succedeva, abbandonò presto l'idea. Continuò però a occuparsi del tema, curando un Vocabolario delle parole del dialetto napoletano che più si scostano dal dialetto toscano, con alcune ricerche etimologiche sulle medesime, degli Accademici Filopatridi (ancora una volta un'opera anonima, anzi firmata da autori del tutto immaginari). Il vocabolario non fu portato a termine dal G. e fu pubblicato postumo, nel 1789, con il frontespizio sopra riportato, a cura e con integrazioni di F. Mazzarella Farao. Nello stesso anno del Dialetto il G. pubblicò un'opera satirico-burlesca firmata con uno pseudonimo, un vero e proprio scherzo letterario come conferma anche solo la lettura del bizzarro frontespizio: Spaventosissima descrizione dello spaventoso spavento, che ci spaventò tutti, coll'eruzione del Vesuvio, la sera dell'otto agosto del corrente anno, ma (per grazia di Dio) durò poco, di don Onofrio Galeota, poeta e filosofo all'impronto. - Fratiè, non m'ammalì - Il Teatro de' Fiorentini nel corrente dramma (Napoli 1779, "stampato a spese dell'autore, e si vende grana sei a chi lo va a comprare"). Andata a ruba, l'anno dopo l'operetta fu ristampata. Un altro componimento burlesco con lo stesso pseudonimo fu pubblicato nel 1785 con luogo di edizione "Fantasianapoli".
Frattanto il G. si occupava con zelo e intelligenza dei compiti connessi a una serie di incarichi pubblici: dal 1769 era consigliere del Supremo Tribunale di commercio, di cui nel 1770 fu nominato segretario; dal 1777 abbinò alla precedente la carica di presidente della Giunta dei reali allodiali, che curava il patrimonio personale del re, e subito dopo quella di avvocato fiscale nello stesso organismo; nel 1782 fu nominato anche assessore del Consiglio superiore delle Finanze; nel 1784 fu inserito nella soprintendenza del Fondo della separazione, che si occupava soprattutto del demanio militare. In tutti questi incarichi egli si distinse come uno dei più apprezzati consiglieri del governo e della Corona; in particolare, in qualità di segretario del Tribunale di commercio, elaborò una serie di consulte in materia politica ed economica di notevole interesse (rimaste inedite sono state pubblicate, in parte, dal Diaz e dal Guerci, dal Caracciolo, dal Nicolini e da altri).
In alcune di queste consulte il G. si occupava dei rapporti commerciali con Francia, Russia, Stati Uniti d'America, Venezia e Turchia, assumendo posizioni sostanzialmente mercantilistiche, a favore dello sviluppo dei traffici napoletani e di una bilancia commerciale attiva e opponendosi alla stipula di un trattato commerciale con una nazione politicamente troppo più forte come la Francia.
Nel 1782 il G. ampliò il proprio orizzonte in politica estera, scrivendo su espresso incarico del governo il trattato De' doveri de' principi neutrali verso i principi guerreggianti, e di questi verso i neutrali (uscito anonimo senza indicazione di luogo, ma Napoli).
Animato da un sostanziale pacifismo, il G. vi esaltava la non belligeranza, sosteneva ancora una volta l'autonomia del Regno di Napoli nei confronti del Patto di famiglia, giustificava la dichiarazione di neutralità del 1778 rispetto al conflitto che opponeva la Francia e la Spagna all'Inghilterra nell'ambito della guerra d'Indipendenza americana, e approvava la Lega dei neutri promossa nel 1781 da Caterina II di Russia, a cui avevano aderito molti Stati europei per contrastare le insidie inglesi al libero commercio (lega a cui si associò appunto anche il Regno nel 1783, dopo ulteriori pareri positivi del Galiani).
Una parte non trascurabile dell'attività del G. consigliere del governo fu indirizzata verso problemi interni. Le consulte più interessanti riguardano: i "contratti alla voce", a suo avviso un buon sistema per prestare denaro al contadino da parte del proprietario terriero o del mercante, purché le voci fossero fissate in modo giusto, senza favorire le speculazioni dei soggetti economici più forti; e i rimedi da adottare dopo i terremoti di Calabria e Messina nel 1783. Qui le posizioni del G. divenivano piuttosto progressiste, perché individuavano nel baronaggio uno dei principali mali della provincia di Reggio Calabria, ma come al solito egli si limitava all'analisi della realtà specifica, senza inoltrarsi in una complessiva analisi critica dell'intero sistema feudale del paese, come i tanti riformatori napoletani del suo tempo. Egli appare, in questa, come in analoghe circostanze, "un amministratore moderno e illuminato, aperto alle esigenze di rendere più efficienti le norme regolanti la vita economica e civile del Regno, ma non certo illuminista e, nel senso specifico della sua età, "riformatore"" (Diaz, introduz. a F. Galiani, Opere, p. CII).
In questa ottica vanno interpretati anche altri suoi impegni politico-amministrativi: nel 1781, la promozione dell'Atlante del Regno di Napoli, compilato dal geografo padovano G.A. Rizzi Zannoni, continuazione e perfezionamento della Carta geografica della Sicilia prima, da lui disegnata a Parigi nel 1769, sempre su sollecitazione e controllo del G.; nel 1784, il progetto (e l'inizio dei lavori) per riportare alla luce il porto romano di Baia e operare una complessiva ristrutturazione di tutte le acque morte dei Campi Flegrei. In tutto questo periodo l'impegno del G. nel campo della teoria economica fu davvero minimo e si può circoscrivere alla seconda edizione del Della moneta (Napoli 1780), in cui fece pochi cambiamenti, per lo più formali, e aggiunse trentacinque lunghe note di un certo interesse.
Nel maggio 1785 il G., da tempo malato di sifilide, fu colpito da apoplessia, ma riuscì a riprendersi e a compiere l'anno successivo un viaggio in Puglia. Nel 1787, nonostante i gravi problemi di salute, collaborò attivamente alla stipula del trattato commerciale con la Russia. Tra aprile e giugno fece un ultimo viaggio a Modena, Padova e Venezia.
Il G. morì a Napoli il 30 ott. 1787.
Fonti e Bibl.: Un primo approccio alla vita e al pensiero del G. è possibile attraverso quattro testi fondamentali: L. Diodati, Vita dell'abate F. G., Napoli 1788, informatissima biografia scritta subito dopo la morte; La letteratura italiana. Storia e testi. Illuministi italiani, VI, Opere di F. G., Milano-Napoli 1975, a cura di F. Diaz - L. Guerci: l'introduzione del Diaz (pp. IX-CVI) è una lunga e attenta biografia critica; il volume contiene anche le principali opere del G. e alcuni inediti, introdotti e annotati dai curatori, e una dettagliata bibliografia curata dal Guerci (pp. CVII-CXXVII) con centinaia di titoli; Convegno italo-francese sul tema: F. G., … 1972, Roma 1975, che contiene una ventina di saggi sui vari aspetti della vita, del pensiero e delle opere del G., di cui citeremo più avanti i più utili; P. Amodio, Il disincanto della ragione e l'assolutezza del bonheur. Studio sull'abate G., Napoli 1997, che, sebbene si focalizzi soprattutto sul pensiero filosofico del G., ripercorre un po' tutto il suo itinerario umano e intellettuale e il dibattito su di lui.
A questi quattro testi sono poi da aggiungere gli oltre trenta saggi e libri, introduzioni e note critiche a ristampe e scelte antologiche degli scritti, pubblicati tra il 1903 e il 1964 da F. Nicolini; qui segnaliamo: Intorno a F. G. a proposito di una pubblicazione recente, in Giorn. stor. della letter. italiana, LII (1908), pp. 1-55; Il pensiero dell'abate G.: antologia di tutti i suoi scritti, Bari 1909; Gli studi sopra Orazio dell'abate F. G., in Atti della Acc. Pontaniana, XXXIX (1909), pp. XVI-160; Giambattista Vico e F. G., in Giorn. stor. della lett. italiana, LXXI (1918), pp. 137-207; La puerizia e l'adolescenza dell'abate G. (1735-1745), in Arch. stor. per le prov. napoletane, XLIII (1918), pp. 105-132; Amici e corrispondenti francesi dell'abate G., Napoli 1954.
Per gli altri numerosi profili si rinvia alla bibliografia del Guerci, salvo la segnalazione di C. Pascal, Sulla vita e sulle opere di F. G., Napoli 1885 e F. Di Tizio, F. G., Chieti 1988.
Uno strumento utilissimo per la studio della vita del G. è il fittissimo epistolario: quello con G.G. Bottari per gli anni Cinquanta; quello col Tanucci, per il periodo parigino e l'attività di diplomatico; quello con la d'Épinay e con altri amici francesi per il periodo successivo al suo ritorno a Napoli. Il primo è stato pubblicato da L. Felici, Il carteggio G. - Bottari (1751-1759), in Atti e mem. dell'Arcadia, 1972, pp. 173-217; il secondo è stato pubblicato parzialmente da A. Bazzoni, Lettere di F. G. al marchese B. Tanucci, Firenze 1880, e da F. Nicolini, Lettere di B. Tanucci a F. G., Bari 1914; sta ora avendo una riedizione praticamente completa in B. Tanucci, Epistolario, IX (1760-61), a cura di M.G. Maiorini, Roma 1985; X (1761-62) - XI (1762-63), a cura di S. Lollini, ibid. 1990; XIII-XIV (1764), a cura di M. Barzio, Napoli 1994-95, ad indices (gli altri volumi sono in corso di stampa). Le lettere inviate dal G. alla d'Épinay sono state oggetto di quattro edizioni nel corso del XIX secolo: Correspondance inédite de l'abbé F. G. avec M.me d'Épinay, le baron d'Holbach, le baron de Grimm, Diderot, et autres personnages…, a cura di A. Serieys, Paris 1818; Corresp. inéd. de M. l'abbé F. G. avec M.me d'Épinay…, a cura di A. Barbier - F.S. Salfi, Paris 1818; F. Galiani, Corresp. avec M.me d'Épinay…, a cura di L. Percy - G. Maugras, Paris 1881; Lettres de l'abbé G. à M.me d'Épinay…, a cura di E. Asse, Paris 1881. Il versante delle lettere inviate dalla d'Épinay al G. è stato oggetto di varie pubblicazioni del Nicolini tra il 1903 e il 1934. Sulle questioni della corrispondenza, degli apocrifi e delle rivalità tra editori e curatori delle quattro edizioni francesi, nonché dell'opportunità di un'edizione critica completa delle lettere del G. e di quelle a lui inviate, si vedano: F. Nicolini, Per una nuova ed. della corrisp. francese dell'abate G., Napoli 1964; H. Bedarida, La correspondance française de l'abbé G., in Convegno, cit., pp. 11-24; L. Guerci, Aspetti e problemi dell'epistolario di F. G., in Riv. stor. italiana, LXXXIV (1972), pp. 80-110. Edizioni della corrispondenza che tengano conto di entrambi i versanti, con il limite di includere solo le lettere alla d'Épinay e a sua figlia, sono uscite di recente: F. Galiani - L. d'Épinay, Correspondance, a cura di D. Maggetti, I-V, Paris 1992-97; L. d'Épinay - F. Galiani, Epistolario 1769-1782, a cura di S. Rapisarda, I-II, Palermo 1996 (che è anche l'unica trad. in italiano). Un altro carteggio interessante è riportato in L'illuminismo a Genova. Lettere di P.P. Celesia a F. G., a cura di S. Rotta, I-II, Firenze 1973-76. Sul rapporto tra il G. e la d'Épinay, F. Steegmuller, A woman, a man, and two kingdoms: the story of M.me d'Épinay and the abbé G., Princeton 1991.
Sul pensiero economico del G., tra tanti interventi, si segnalano: G. Pecchio, Storia della economia pubblica in Italia, Lugano 1829, pp. 89-97; A. Loria, La teoria del valore negli economisti italiani, in Arch. giuridico "F. Serafini", XXVIII (1882), pp. 3-66 passim; T. Fornari, Delle teorie economiche nelle provincie napoletane dal 1715 al 1830. Studi storici, Milano 1888, ad ind.; A. Graziani, Storia critica della teoria del valore in Italia, Milano 1889, pp. 97-111; E. Gaudemet, L'abbé G. et la question du commerce des blés à la fin du règne de Louis XV, Paris 1899; E. Dessein, G. et la question de la monnaie au XVIIIe siècle, Langres 1902; G. Arias, F. G. et les physiocrates, in Revue des sciences politiques, XXXVII (1922), pp. 341-366; Id., Il pensiero economico di F. G., in Politica, VII (1925), pp. 193-210; G. Tagliacozzo, Economisti napoletani dei secoli XVII e XVIII, Bologna 1937, ad ind.; C. Bresciani Turroni, Introduzione alla politica economica, Torino 1942, ad ind.; L. Einaudi, G. economista, in Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Roma 1953, pp. 267-305; J.A. Schumpeter, Storia dell'analisi economica, I, Torino 1959, ad ind.; l'ed. a cura di F. Nicolini dei Dialogues, Milano-Napoli 1959, che consente anche, in un'amplissima accurata appendice, di ricostruire la discussione settecentesca sull'opera e le polemiche dei fisiocratici; F. Venturi, G. tra enciclopedisti e fisiocrati, in Riv. stor. italiana, LXXII (1960), pp. 45-64; A. Caracciolo, introduz. a F. Galiani, Della moneta e scritti inediti, a cura di A. Merola, Milano 1963, pp. XI-XXXIV; O. Nuccio, appendice alla rist. anastatica del t. VI (parte moderna) degli Scrittori classici italiani di economia politica, Roma 1967, pp. I-LIV, che contiene anche una nutrita bibliografia specifica; F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, ad ind. (si sofferma specialmente sul Della moneta); M. Minerbi, Diderot, G. e la polemica sulla fisiocrazia (1767-1771), in Studi storici, XIV (1973), pp. 147-184; G.U. Papi, F. G. e l'economia, in Convegno, cit., pp. 25-46; A. Caracciolo, G. economista fra il pensiero del suo tempo e la critica recente, ibid., pp. 231-242; S.L. Kaplan, La bagarre. G.'s "lost" parody, Boston-London 1979; M. Catucci, Galianea. F. G. tra letteratura ed economia, Roma 1986; G. Di Nardi, intr. a F. Galiani, Della moneta, Napoli 1987, pp. V-XIX; L. De Rosa, intr. a F. Galiani, Dialogues…, Napoli 1987, pp. V-LXXV.
I giudizi del Croce sul G. sono in molti suoi scritti: qui basterà citare B. Croce, Il pensiero dell'abate G., in La Critica, VII (1909), pp. 399-404. Quelli di G. Macchia sono in G. et la "nécessité de plaire", in Convegno, cit., pp. 69-78.
Sui rapporti tra il G. e la cultura francese si soffermano soprattutto: J. Fabre, G. et la société française à l'époque de Louis XV, in Convegno, cit., pp. 157-176; H. Dieckmann, Diderot et G., ibid., pp. 309-331; R. Pomeau, G. et Voltaire, ibid., pp. 333-343; R. Davison, Diderot et G.: étude d'une amitié philosophique, Oxford 1985. Sul Socrate immaginario si vedano in particolare: M. Scherillo, L'opera buffa napoletana durante il Settecento. Storia letteraria, Palermo s.d. [1916 (1ª ed. 1883)], pp. 396 ss.; B. Croce, I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo, Napoli 1916, ad ind.; V. Di Martino, Il "Socrate immaginario" come satira del grecismo settecentesco, Cava dei Tirreni 1940; V. Monaco, Giambattista Lorenzi e la commedia per musica, Napoli 1968, pp. 89-129. Sugli studi oraziani, oltre alla segnalata ricostruzione critica del Nicolini, E. Paratore, Il commento a Orazio di F. G., in Convegno, cit., pp. 365-379. Sul Dialetto napoletano si vedano soprattutto: l'introduz. e le note del Nicolini all'ed. di Napoli 1923; M. Sansone, Volgare illustre napoletano e volgare illustre italiano nel "Dialetto napoletano" di F. G., in Studi di storia letteraria, Bari 1950, pp. 55-93; E. Malato, F. G. dialettologo e storico del dialetto napoletano, in Convegno, cit., pp. 345-362; l'ed. di Del dialetto, a cura di E. Malato, Roma 1970; quella a cura di D. Scafoglio - G.A. Arena, Napoli 1982; P. Bianchi - N. De Blasi - R. Librandi, I' te vurria parlà. Storia della lingua a Napoli e in Campania, Napoli 1993, ad indicem.
Sul G. consigliere di commercio e gli altri incarichi politici si vedano: l'introd. cit. di A. Caracciolo a F. Galiani, Della moneta…; F. Diaz, L'abate G. consigliere di commercio estero del Regno di Napoli, in Riv. stor. italiana, LXXX (1968), pp. 854-909; l'introd. dello stesso Diaz alle Opere; nonché, limitatamente all'intervento sul terremoto del 1783, A. Placanica, L'Iliade funesta. Storia del terremoto calabro-messinese, I, Corrispondenza e relazioni della corte, del governo e degli ambasciatori, Roma-Reggio Calabria 1984.
Sul G. studioso di diritto internazionale e l'opera De' doveri de' principi neutrali si vedano soprattutto: E. Vidari, F. G., G.M. Lampredi e A.D. Azuni, in Arch. giuridico "F. Serafini", I (1868), pp. 210-241; G.M. Monti, La dottrina dell'abate F. G. sulla neutralità e l'adesione di Ferdinando IV alla Lega dei neutri, Milano 1942; C. Ghisalberti, F. G. e il problema istituzionale, in Convegno, cit., pp. 49-66.
Sul rapporto tra il G. e il cartografo G.A. Rizzi Zannoni: A. Blessich, L'abate G. geografo (1757-1787), in Napoli nobilissima, V (1896), pp. 145-150; G. Brancaccio, Geografia, cartografia e storia del Mezzogiorno, Napoli 1991, ad indicem.