Ferdinando Galiani
Ferdinando Galiani è universalmente considerato tra i massimi economisti di ogni tempo. Appartiene infatti al gruppo ristretto di economisti italiani annoverati tra i maggiori esponenti in assoluto della professione e della ricerca economica. Scrittore brillante, mente precoce e geniale, è anche noto per i suoi giudizi sprezzanti, non di rado cinici, e per i suoi cambiamenti di opinione, sempre fonte di stimolanti riflessioni, su questioni economiche di grande rilievo. È generalmente ricordato per aver anticipato di oltre un secolo (rispetto alla nascita dell’Economia neoclassica marginalista) la via d’uscita dal cosiddetto paradosso del valore, ossia il paradosso dell’acqua e del diamante, combinando utilità e rarità in maniera più incisiva ed efficace di quanto altri autori (predecessori o contemporanei) abbiano saputo fare.
Ferdinando Galiani nacque a Chieti il 2 dicembre 1728, da Matteo, regio uditore in quella città, e da Anna Maria Ciaburri. Dopo aver seguito gli spostamenti professionali del padre a Lecce, Trani e Montefusco, nel luglio 1735 si recò a Napoli presso lo zio paterno Celestino, già arcivescovo di Taranto e dal 1732 cappellano maggiore del Regno di Napoli. Con il fratello maggiore Berardo, studiò e soggiornò presso lo zio per molti anni, a eccezione di un periodo, tra il 1737 e il 1741, trascorso nel monastero dei padri celestini di S. Pietro a Majella, mentre lo zio era impegnato in una missione a Roma per stipulare il concordato con la Santa Sede.
A Napoli ebbe una formazione di prim’ordine in campo letterario e in quello scientifico, mostrando fin da giovanissimo interesse e competenza nel coniugare felicemente lo studio dell’antichità con l’analisi dei problemi reali del suo tempo, soprattutto quelli economici. Nel 1749-50, sollecitato dalla crisi monetaria diffusasi nel Regno di Napoli dopo la pace di Aquisgrana, scrisse il trattato Della moneta (datato 1750, ma in realtà stampato nel 1751), considerato «il capolavoro uscito dalla discussione sulle monete a metà del secolo» (Venturi 1969, p. 490). All’epoca, Galiani aveva già da qualche anno preso gli ordini minori e godeva, da abate, di discrete rendite ecclesiastiche.
Nel gennaio 1759 il ministro Bernardo Tanucci gli affidò un importante compito come segretario d’ambasciata a Parigi, ossia quello di indirizzare il lavoro di un ambasciatore poco capace, lo spagnolo José Baeza y Vicentello conte di Cantillana. Occorreva inoltre affermare l’autonomia napoletana rispetto alle altre corti borboniche, nel momento in cui Carlo di Borbone ereditava il trono spagnolo e lasciava a Napoli un re bambino e un Consiglio di reggenza.
Dagli anni Sessanta, Galiani trascorse circa dieci anni in Francia come segretario d’ambasciata a Parigi, un’esperienza che lasciò il segno sulla sua attività e formazione scientifica. Galiani era attirato dalla vita parigina. Pur rimpiangendo il sole di Napoli, si inserì attivamente e divenne l’idolo dei salotti parigini, in particolare quello di Louise d’Épinay, frequentato da intellettuali enciclopedisti come Friedrich Melchior von Grimm, Denis Diderot, Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert, Paul Henri Dietrich barone di Holbach. Parigi gli consentì di incontrare anche Alessandro Verri e Cesare Beccaria dopo il successo di Dei delitti e delle pene (1764). Con Mme d’Épinay Galiani intratterrà poi una lunga, appassionata corrispondenza (nel 1996 ripubblicata in versione italiana con il titolo Epistolario e curata da Stefano Rapisarda) anche dopo aver lasciato Parigi nel 1770.
Egli prenderà anche parte attiva all’attività diplomatica allorché, assentatosi l’ambasciatore, ne farà le veci come incaricato d’affari, ma assai scarsa fu la sua attenzione agli aneliti riformistici che percorrevano la Francia.
A partire dal 1770, anno del suo definitivo ritorno a Napoli, ebbe per lui inizio un periodo completamente diverso rispetto ai brillanti anni parigini. Per compensare questa sensazione di fastidio, procuratagli, fra l’altro, anche da numerosi incarichi nella magistratura e nella pubblica amministrazione, coltivò una molteplicità di interessi culturali, dall’antichistica all’opera buffa, dal diritto internazionale al dialetto napoletano, oltre alla fitta corrispondenza con gli amici francesi e la ben nota Mme d’Épinay.
Frattanto Galiani si occupava con zelo e intelligenza dei compiti connessi a una serie di incarichi pubblici: dal 1769 era consigliere del Supremo Tribunale di commercio, di cui nel 1770 fu nominato segretario; dal 1777 abbinò alla precedente la carica di presidente della Giunta dei reali allodiali, che curava il patrimonio personale del re, e subito dopo quella di avvocato fiscale nello stesso organismo; nel 1782 divenne anche assessore del Consiglio superiore delle Finanze; nel 1784 fu inserito nella soprintendenza del Fondo della separazione, che si occupava soprattutto del demanio militare. In tutti questi incarichi egli si distinse come uno dei più apprezzati consiglieri del governo e della Corona; in particolare, in qualità di segretario del Tribunale di commercio, elaborò una serie di consulte in materia politica ed economica di notevole interesse.
Nel maggio 1785, da tempo malato di sifilide, fu colpito da apoplessia, ma riuscì a riprendersi e a compiere l’anno successivo un viaggio in Puglia. Nel 1787, nonostante i gravi problemi di salute, collaborò attivamente alla stipula del trattato commerciale con la Russia. Tra aprile e giugno fece un ultimo viaggio a Modena, Padova e Venezia. Morì a Napoli il 30 ottobre 1787.
Come accennato sopra, il padre di Ferdinando, Matteo, gentiluomo di Foggia, si muove tra diverse città con incarichi pubblici. Ferdinando nasce così a Chieti nel 1728. È un’epoca straordinaria di fervore di rinnovamento non solo a Napoli. Ferdinando è coetaneo di Pietro Verri, che a Milano fonderà la cosiddetta Accademia dei Pugni. Vi sono parallelismi, ma naturalmente anche differenze, con la Milano dei lumi e la sua pugnace Accademia. Occorre anche tenere presente il quadro internazionale del dispotismo illuminato, specie con Caterina di Russia e Maria Teresa d’Austria e il consolidamento dei rispettivi imperi.
Sotto l’ala protettrice dello zio Celestino, cappellano maggiore del Regno, Ferdinando (come abbiamo visto) finisce ben presto a Napoli. I grandi della cultura napoletana della generazione precedente (Giambattista Vico, Pietro Giannone, Paolo Mattia Doria) sono al tramonto. Una generazione di giovani vive il nuovo clima politico con uno spirito che è stato detto del ‘Settecento riformatore’. La casa di zio Celestino ospita personaggi come Bartolomeo Intieri. È l’epoca di Carlo di Borbone e del suo ministro Tanucci con il quale Galiani corrisponderà abbondantemente. Intieri, oltre a tenere a battesimo i primi sforzi scientifico-letterari del nostro abatino, incidentalmente è anche lo sponsor di Genovesi.
Luigi Einaudi, economista il cui nome è a tutti ben noto, intitolò un suo famoso saggio, scritto subito dopo la Seconda guerra mondiale, Galiani economista (1953). Vediamo dunque come sorge questo nuovo astro, l’economista Galiani appunto.
È un percorso tipico all’epoca. Ferdinando, giovane curioso e irrequieto, aveva una formazione classica ed era versato nel latino, nel greco e nell’ebraico. Prenderà, come già detto, gli ordini minori e diverrà abate giovanissimo nel 1745. Al tempo stesso l’ambiente che frequenta è un ambiente nel quale i letterati, gli storici, gli eruditi si trasformano naturalmente in riformatori. Entra in contatto con la corrente europea di idee sull’economia politica: nel 1744, per es., traduce un noto trattatello di John Locke su interesse e moneta, Some considerations of the consequences of the lowering of interest and raising the value of money (1691). Ma non si dimentichi il grande influsso di Montesquieu, che pure Galiani (a differenza del suo concittadino Genovesi) criticherà aspramente. Il tema della moneta è privilegiato: moneta è numero, quantità, misurazione, quindi scienza empirica, secondo il canone galileiano, se si vuole, applicato alle cose della società.
L’exploit giunge a ventitré anni, nel 1751, quando appare anonimo il suo volume Della moneta. Il successo è immediato. Il volume ha subito ampia notorietà e circolazione; Galiani presto gira l’Italia prima e poi l’Europa preceduto dalla fama procuratagli da questa sua prima pubblicazione.
Come spiegare il successo folgorante del Della moneta di Galiani? C’è senza dubbio l’abilità dello scrittore, lo stile brillante e scorrevole, cosa non frequente (in ogni tempo, del resto) in opere di economia. Ricordiamo anche la fama letteraria, perenne, di Galiani, letto da Alessandro Manzoni, da Voltaire, da Friedrich Nietzsche, da Charles Augustin Sainte-Beuve, da Benedetto Croce, da Karl Marx, per citare solo alcuni tra i massimi.
Poi vi sono i temi sviluppati. Percorriamo sinteticamente l’indice dell’opera. I primi due libri trattano rispettivamente dei metalli e della natura della moneta. Qui emerge una tesi centrale dell’opera: la confutazione del carattere arbitrario e convenzionale della moneta, basata invece sul valore del metallo secondo tre principi (utilità, rarità, fatica). La moneta si fonda quindi su solide e certe leggi naturali empiricamente verificabili. Galiani, malgrado la lettura del suo testo possa prestarsi anche ad altre interpretazioni, è generalmente e giustamente ascritto all’impostazione metallista in campo monetario. Il fondamento scientifico del concetto di moneta si estende facilmente all’intera vita economica. Non dimentichiamo che ancora fresca era l’esperienza del crollo del cosiddetto sistema di Law negli anni Venti del secolo, esperienza che Galiani tratta e discute. Il terzo libro (Del valore della moneta) è quello che insiste molto sul celebre tema del cosiddetto alzamento delle monete. Il quarto libro tratta del ‘corso’ della moneta, quella che oggi chiameremmo la velocità di circolazione, e contiene una notevole digressione sul lusso, che non viene già condannato, bensì detto figlio della pace, del buon governo, della perfezione delle arti. Il quinto e ultimo libro s’intitola Del frutto della moneta, ossia l’interesse. Su questi argomenti l’analisi penetrante dell’autore diviene presto celebre anche se il libro avrà poi solo due edizioni, la seconda parecchi anni più tardi, nel 1780. Galiani è temperamento irrequieto e attivissimo e forse neppure si cura di coltivare il successo della sua opera prima, che rimane a tutt’oggi la maggiore, e passa ben presto ad altro ordine del giorno.
È certamente curioso che quest’opera non abbia avuto traduzioni se non in epoca recente, malgrado le numerose e continue ragioni per ritornare a questo autore. Una versione inglese, pubblicata, tuttora manca, fatto, questo, che limita indubbiamente la conoscenza dell’autore.
Accenniamo brevemente al tema dell’alzamento delle monete che Galiani discute e che occupa considerevole spazio nel suo trattato.
Si tratta di un tema ben noto e dibattuto dagli scrittori di argomento monetario dal Cinquecento in poi e che ha a che fare con pratiche di alterazione del valore della moneta. Galiani ne dà una definizione originale e ne parla come del profitto che il principe e lo Stato ritraggono dalla lentezza con cui la gente cambia la connessione delle idee intorno ai prezzi delle merci e al valore della moneta. Questa definizione è maliziosa, dice lo stesso autore, perché dà l’idea che la moneta e, in generale, il mondo dell’economia sono basati su mutevoli connessioni psicologiche che naturalmente possono essere sfruttate da chi governa. Non a caso Galiani verrà chiamato dai francesi della sua epoca Machiavellino (oltre che Arlecchino).
Vi è un aspetto paradossale della sua opera e della sua personalità che ne diviene un tratto distintivo. L’insistenza, che abbiamo già ricordato, sulle ‘leggi di natura’, sul carattere non convenzionale della moneta, e simili, ci potrebbero far pensare a un orizzonte concettuale e ideologico di stampo deterministico, con conclusioni sicure e incontrovertibili: le ‘leggi economiche’ per intenderci. Nulla di tutto questo invece. Galiani è ‘machiavellino’ perché ‘sfrutta’, certo, determinate leggi di natura proprio per fare politica, cioè per suggerire lo sfruttamento scientifico delle circostanze con tutta una casistica che non si presta a teoremi fissi. Diciamo che il paradosso è naturalmente presto dissolto se pensiamo, in termini positivistici, alla distinzione tra economia positiva (l’economia politica) ed economia normativa, ossia la politica economica. Galiani diventa, in questo senso, il teorico della politica economica: quest’ultima è il campo del pragmatismo dove non esistono principi fissi. Il parallelo con Niccolò Machiavelli diventa allora più chiaro. Il Della moneta di Galiani potrebbe essere visto come una sorta di ‘Principe economico’.
Ma torniamo all’alzamento. Immaginiamo un sistema nel quale ci sia una moneta di zecca, lo zecchino, per es., (che fu in effetti il nome assunto dal ducato d’oro veneziano nel Cinquecento): moneta quindi metallica. Supponiamo che in pratica, nei contratti, si usi una moneta di conto, non coniata alla zecca, la lira per es., e che lo zecchino valga cinque lire. Si capisce che con un decreto il principe può, dalla sera alla mattina, stabilire che lo zecchino valga sei e non cinque lire. Ecco l’alzamento: è stato alzato il numero di lire che equivalgono a uno zecchino. In pratica, all’epoca, la varietà dei conii in circolazione rendeva praticamente indispensabile ricorrere alla moneta di conto, talora detta anche moneta immaginaria.
Alzamento è dunque sinonimo di quella che noi oggi chiamiamo svalutazione o deprezzamento. Negli anni Sessanta del Novecento, per es., ci volevano in Italia circa 160 lire italiane per un marco tedesco, mentre al momento dell’entrata nell’euro queste lire erano divenute circa mille: c’è stato dunque, in pratica, un alzamento del numero di lire per marco, cioè una svalutazione o un deprezzamento, anche se ciò non è avvenuto in questo caso con un semplice decreto, ma attraverso un processo piuttosto complicato e lungo.
Che cosa si può dire dell’alzamento: è una cosa buona, è da evitare? Che cosa suggerire al principe? Galiani si scaglia, con l’irruenza della sua prosa brillante, contro coloro che pretendono di fornire ricette fisse in proposito. Infatti, questa è una tipica questione di politica economica, dove i principi dell’economia ci servono proprio per ragionare caso per caso. È quella che noi oggi chiamiamo la politica monetaria che si insinua anche all’interno di un sistema a moneta metallica. Non c’è una risposta fissa alla domanda sull’utilità dell’alzamento. Di qui il tono della trattazione che intende criticare e correggere errori diffusi facendo vedere i pro e i contro dell’alzamento.
Galiani, inoltre, fa un ragionamento che anche noi oggi facciamo. Se la lira passa da 160 a 1000 contro il marco, cioè si svaluta o deprezza, sappiamo bene che nell’immediato questo rende più care le merci tedesche espresse in lire e d’altra parte rende per i tedeschi meno care le nostre: la svalutazione, cioè, crea le premesse per un aumento dei prezzi nel Paese che ha svalutato: cioè per l’inflazione. Ma, naturalmente, se ogni svalutazione fosse immediatamente seguita da un’inflazione di corrispondente misura, tutto tornerebbe in certo senso al punto di partenza. Gli effetti importanti di una svalutazione sono legati al fatto che il processo di inflazione cui essa può dar luogo avviene gradualmente nel tempo: ecco l’importanza della definizione dell’alzamento data da Galiani.
Galiani ritiene che togliere a qualcuno per dare ad altri sia sempre un arbitrio tirannico; e, tuttavia, se si toglie ai ricchi per dare ai poveri è giusta l’operazione. I danni e i vantaggi dell’alzamento devono essere giudicati a partire dal fatto che con la svalutazione è danneggiato chi è creditore in moneta svalutata e avvantaggiato, per contro, chi è debitore. Così Galiani sostiene che in tempi prosperi i poveri sono tipicamente creditori e i ricchi debitori (di salari) e quindi un alzamento finirebbe con il danneggiare i poveri; in tempi calamitosi c’è un altro aspetto della questione che diviene il più immediatamente rilevante, perché è il principe il maggior debitore e per questo è maggiormente tentato di pagare i suoi debiti a colpi di alzamento, cioè con la svalutazione. La svalutazione è dunque un’imposta. Sulla gradualità dei processi si noterà che l’analisi di Galiani precede quella celebre di David Hume, specie nel saggio On money, pubblicato nel 1752, ossia un anno dopo l’opera di Galiani.
Della moneta è un’opera considerata nella storia del pensiero economico una straordinaria espressione del principio del valore utilità. Quest’analisi viene sviluppata da Galiani là dove si discute del valore della moneta secondo i tre principi dell’utilità, rarità e fatica. Il valore delle cose in economia può essere collegato con il costo di produzione, o più propriamente con il lavoro, oppure con l’utilità. Per lungo tempo, tuttavia, ogni tentativo di spiegare il valore attraverso l’utilità si fermava di fronte al cosiddetto paradosso del valore, il paradosso dell’acqua e del diamante, ossia di fronte alla costatazione che in concreto gli oggetti di maggior valore economico sono spesso quelli di minore utilità.
Qui l’analisi di Galiani si muove sulle tracce di autori quali il modenese Geminiano Montanari (nel Seicento) e il fiorentino Bernardo Davanzati (nel Cinquecento), quest’ultimo ampiamente citato (pur se non altrettanto ampiamente lodato) da Galiani stesso. Ma è certamente Galiani l’autore che dà la miglior prova del superamento del paradosso del valore nella «dichiarazione de’ princìpi onde nasce il valore delle cose tutte: utilità e rarità principi stabili del valore» al capo II del libro I del suo trattato del 1751. Utilità, dice Galiani è «l’attitudine che ha una cosa a procurarci la felicità». Se uno dicesse, argomenta l’autore, «una libbra di pane è più utile di una libbra d’oro», egli risponderebbe: «questo è un vergognoso paralogismo, derivante dal non sapere che più utile, e meno utile sono voci relative e che secondo il vario stato delle persone si misurano». Esempi di questo «vario stato» sono dati dal Galiani nel suo consueto stile brillante e provocatorio:
Il pane è utile, ma non è utile farselo tirare sul muso; l’acqua è necessaria non che utile, ma all’idropico è pestifera e letale. È adunque l’utile d’una cosa misurato principalmente dall’uso e dalle circostanze della cosa a cui si applica (Libro III, capo III).
E ancora egli scrive (tornando al luogo precedentemente citato nel libro I):
Se poi alcuno si meraviglierà come appunto tutte le cose più utili hanno basso valore, quando le meno utili lo hanno grande ed esorbitante, egli dovrà avvertire che con meravigliosa provvidenza questo mondo è talmente per bene nostro costruito, che l’utilità non s’incontra mai, generalmente parlando, colla rarità; ma anzi, quanto cresce l’utilità primaria, tanto si trova più abbondanza: perciò non può essere grande il valore. Quelle cose che a sostentarci bisognano, sono così profusamente versate sul mondo intiero che o non hanno valore, o l’hanno assai moderato.
Questa spiegazione – che fa dell’utilità non già una qualità della cosa, ma una funzione della sua disponibilità – è quella che gli economisti poi chiamano utilità marginale e che ogni studente di economia ancor oggi si trova a imparare nelle prime lezioni di ogni corso universitario. Ma questo avverrà molto più tardi. All’epoca nessuno fece tesoro della lezione di Galiani; in particolare non ne farà tesoro Adam Smith, quando nel 1776 pubblicherà la sua opera maggiore, probabilmente anche perché non l’aveva studiata. Il paradosso del valore viene infatti risolto da Smith con la celebre distinzione tra ‘valore d’uso’ e ‘valore di scambio’, che poi farà scuola sino all’avvento del marginalismo in economia. Come già accennato, l’attualità del pensiero di Galiani viene spesso collegata con questa risoluzione lucida ed elegante del paradosso del valore.
Ci sono naturalmente anche altri elementi. Si è già detto del carattere brillante e versatile dell’ingegnoso personaggio. Galiani non è certo il tipo di studioso che possa stare dietro una scrivania a scrivere e riscrivere, a perfezionare i suoi lavori. E neppure, notiamolo, è la figura del riformatore dominato dall’impegno civile sul modello di un Verri oppure, nella Napoli di allora, di un Genovesi. Vi è un rapporto di amore-odio tra il ‘Settecento riformatore’ e Ferdinando Galiani e questo è indubbiamente un elemento che accresce l’interesse e l’unicità del personaggio.
Sul principio dell’Ottocento, in epoca napoleonica, quando si diffonderà il bisogno di dare unità e visibilità alla tradizione italiana in materia di pensiero economico, Pietro Custodi intraprenderà e pubblicherà a Milano la sua celebre monumentale collezione in cinquanta volumi di testi degli economisti italiani; collezione ancora oggi ristampata e considerata una fonte di primaria importanza per lo studio del pensiero economico italiano. Galiani vi avrà parte di rilievo, il che contribuirà non poco a mantenere vivo l’interesse per la sua produzione scientifica e soprattutto a consacrare la fama e l’immagine del ‘Galiani economista’.
Nella seconda metà dell’Ottocento saranno ancora gli economisti, e principalmente gli economisti italiani (Maffeo Pantaleoni, Luigi Cossa, Augusto Graziani, Achille Loria e altri) a rifarsi a Galiani soprattutto per la sua analisi del valore. Il rinnovato interesse per il Seicento napoletano – per es., tutta l’ispirazione vichiana di Croce – assieme al fervere di studi, anche in quest’ultimo dopoguerra, sull’Illuminismo italiano porta notevole interesse sulla personalità e sull’intera opera di Galiani.
Egli emerge senza dubbio come personaggio centrale; eppure questo Machiavellino, troppo innamorato anche lui della «verità effettuale» della cosa (per usare un’espressione appunto del Machiavelli), e poco trasportato dai sogni utopici di riforma o (men che meno) di rivoluzione, non soddisfa, lascia un che di incompleto o di incompiuto. È interessante questa duplicità perché la storiografia recente sull’Illuminismo si porta dentro due istanze contrarie: l’una che vede con simpatia liberaleggiante lo scetticismo e il realismo di chi diffida dei grandi miti dell’Illuminismo, specie francese; l’altra che invece non nasconde la delusione di fondo di fronte a sintomi di scarso impegno civico e di incapacità o insufficiente volontà nel propugnare precise posizioni o dottrine di scuola e nel fare ‘gioco di squadra’ con l’ambiente riformatore.
Ecco un esempio del Galiani ‘machiavellino’: «La morale guida gli uomini dopo miglioratili e fattili virtuosi: la politica gli ha da riguardare come lordi ancora, e coperti dalle loro ordinarie passioni» (V, I). Consideri ogni filosofo «quanto sia poco l’uomo superiore a’ bruti» e «non venga a fargli male volendolo migliorare. Impossibile impresa è questa per lui» (I, I).
Occorre dire qui dei Dialogues sur le commerce des bleds, i dialoghi sul commercio dei grani, celebre brillante polemica antifisiocratica, la quale, a differenza del trattato del 1751, varca assai presto, sulle ali della lingua francese, ogni confine disciplinare come geografico. Al centro dell’interesse vi è la questione della libertà di commercio dei grani in rapporto con la legge francese del 1764 favorevole, sotto l’influenza delle dottrine fisiocratiche, alla libertà. I Dialoghi sono composti sul finire degli anni Sessanta. Cade, durante la loro stesura, l’episodio dell’improvviso richiamo in patria, dove Galiani avrà ancora posizioni di rilievo nell’amministrazione come magistrato del commercio. Ma, al momento, non vorrebbe tagliare i ponti con Parigi e la dipartita è dolorosa. Degli otto dialoghi, gli ultimi vengono composti in gran fretta e il tutto viene affidato alle amorevoli cure della dama d’Épinay e di Diderot.
La ‘bomba’ dei Dialoghi esplode quando l’abatino è già lontano. Galiani è accusato di aver cambiato bandiera sulla questione della libertà di commercio con le sue precise calcolate, ma del tutto inattese, sferzate antifisiocratiche. Questo è Galiani: invece di épater le bourgeois, vuole épater il progressista, come allora i fisiocrati erano ritenuti, e questa è un’operazione che la nostra modernità in genere non premia. E tuttavia Voltaire lo loderà unendosi alle voci antifisiocratiche nel suo Homme aux quarante écus (1768).
I Dialoghi di Galiani sono ancora oggi una lettura ricca di fascino. Ma sono da leggere come un puro pezzo di virtù letteraria oppure vi è una concezione del sistema economico che muta o comunque si trasforma rispetto a opere precedenti? In realtà, l’aspetto forse più interessante dei Dialoghi risiede proprio nell’elaborazione di una concezione dello sviluppo economico come processo basato sulla crescita della popolazione, sulle manifatture e sulla loro esportazione. Questo è un elemento nuovo all’epoca: ricordiamo che egli scrive sei anni prima di Smith e in contemporanea con il Verri delle Meditazioni sulla economia politica, dove pure si possono trovare sviluppi paralleli di superamento dello schema fisiocratico. In questo contesto è l’obiettivo dello sviluppo economico a rendere strumentale il discorso sulla libertà di commercio dei grani.
Galiani riesce a giustificare la sua argomentazione con forti esortazioni antisistema, accusando cioè i fisiocrati di indebita saccenteria e di rigidità dottrinaria, un’accusa da allora spesso reiterata nei confronti degli economisti. Torna dunque qui il Machiavellino con una forse più accentuata vena di scetticismo che può richiamare la ben nota censura humeana dell’enthousiasme. Il ne quid nimis terenziano (in epigrafe del lavoro, pur se poi in verità mutato) indica la volontà dell’autore di liberarsi di un credo diffuso in materia di politica economica attraverso il ripudio, sul piano metodologico, di concatenamenti causali universali e astratti e di relazioni rigide e univoche tra economia politica e politica economica. L’argomentazione suona efficacissima in bocca al protagonista, brillante causeur, il cavaliere Zanobi (controfigura dell’autore stesso), italiano, di ritorno a Parigi da un viaggio in Italia e in altre parti d’Europa.
Come si vede, Galiani è un intellettuale anticonformista e ribelle. L’obiettivo della sua analisi è sempre il sistema politico anche dove questo viene inteso in pratica come sistema economico. La politica è sempre al primo posto a differenza di altri autori, come per es. Pietro Verri, che mettono al primo posto la società civile.
Qui la corrispondenza e altre operette di sapore letterario avrebbero qualche rilievo. Ci contentiamo di citare il suo Croquis d’un dialogue sur les femmes, dei primi anni Settanta, buttato giù proprio all’interno della corrispondenza con la citata dama parigina la quale sorbisce, senza troppe scosse, la dissertazione dell’abatino sulle leggi di natura applicate alle differenze dei sessi. Essere antifemminista era anche allora, come oggi, anticonformista; siamo già per molti aspetti in epoca moderna e progressista e il progressismo sembra essere il bersaglio cui mira Galiani.
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