FERDINANDO II (Ferrandino) d'aragona, re di Napoli
Nacque a Napoli il 26 giugno 1467 da Alfonso d'Aragona, duca di Calabria, e da Ippolita Maria Sforza. L'evento, che assicurava continuità alla dinastia aragonese (insediata sul trono di Napoli da soli venticinque anni), offrì all'avo regnante, Ferdinando I, un'occasione di estendere il consenso interno: ai sontuosi festeggiamenti per il battesimo di F. (5 luglio 1467), infatti, partecipò tutta la città, insieme coi maggiori esponenti della nobiltà feudale del Regno, apparsa fino ad allora generalmente ostile alla monarchia. Su F., nominato principe di Capua, Ferdinando I contava anche per stringere un'alleanza con gli Aragona di Spagna: trattative matrimoniali, senza però esito, furono avviate già nel 1475. Fu invece lo stesso re a sposare in seconde nozze Giovanna, figlia del re Giovanni Il d'Aragona, incoronata a Napoli nel settembre 1477. Durante questa cerimonia, Ferdinando I fece giurare ai baroni convenuti fedeltà a F., con il duplice obiettivo di sancire il radicamento della dinastia nel Regno ed allontanare la minaccia di una eccessiva influenza degli Aragonesi iberici.
Nel contempo, l'istruzione di F. era stata affidata ai maggiori letterati della corte: a Gabriele Altilio, poeta, traduttore di autori greci, e all'umanista Antonio De Ferrariis (detto il Galateo), entrambi appartenenti al vivissimo centro culturale formatosi intorno a Giovanni Gioviano Pontano. Assai presto F. si legò anche ai poeti Iacopo Sannazzaro e Benedetto Gareth (detto il Cariteo), ricavando, soprattutto da quest'ultimo, una predilezione per Petrarca e per la letteratura in volgare, lingua nella quale compose egli stesso versi. Peraltro, l'Altilio e il Cariteo, secondo l'uso della corte aragonese, rimasero successivamente accanto a F. in qualità di consiglieri e segretari.
Parte integrante dell'educazione di F. costituiva altresì l'arte militare, che ebbe precocemente modo di esercitare. Infatti, già tra il 1481 e il 1482, alle prime battute della guerra tra Venezia e Ferrara, di cui gli Aragonesi erano alleati, F., accompagnato da baroni fedeli alla monarchia, ebbe l'incarico di difendere dalle scorrerie della flotta veneziana dapprima i litorali dell'Abruzzo, poi quelli della Calabria. Invece, i nemici sbarcarono sulle coste pugliesi, conquistando Gallipoli a metà maggio 1484 e a F. fu affidato, in giugno, il comando della spedizione militare che doveva riconquistare la città. Tuttavia lo scontro fu reso superfluo dalla pace di Bagnolo (7 ag. 1484), che obbligava i Veneziani ad abbandonare il territorio del Regno.
Queste vicende avevano dimostrato lo scarso seguito degli Aragonesì, soprattutto nelle periferie, dove, durante la guerra con Venezia, la presenza di F. si era resa necessaria proprio per catalizzare sulla dinastia il consenso delle popolazioni e dei baroni. Nel corso del 1485 la situazione divenne ancor più tesa: la grande feudalità e gli alti ranghi dell'amnifflistrazione del Regno, a quella legati, erano scossi da grande inquietudine., cui si aggiungevano diffuse proteste delle Comunità contro nuovi tributi. D'altro canto, emergeva chiaramente il disegno della monarchia di sopprimere l'opposizione interna, prima che potesse minare le basi del suo potere. In questo quadro, nel maggio 1485, fu ordinato a F. di allestire, con il pretesto del pericolo turco, un esercito di 1.200 uomini che.doveva garantire, in Abruzzo e in Puglia, l'ordine e l'esazione fiscale. Fu il padre Alfonso, in giugno, a prendere il comando di queste truppe, lasciandone a F. il governo, affinché potesse esercitarsi negli incarichi militari. Si profilava ormai lo scontro: dopo l'appello di molti signori ad Innocenzo VIII (alto sovrano feudale del Regno), ostile agli Aragonesi, la rivolta dell'Aquila e lo schieramento del papa con i ribelli (24 ottobre), la guerra ebbe inizio.
Nella prima fase del conflitto l'operato di F. sembrò ancora assumere i contorni del tirocinio: la conquista del castello di Pescocostanzo, sua impresa d'esordio (18 nov. 1485), venne infatti salutata dai baroni fedeli al re con vivaci apprezzamenti. Ma poco dopo, partito il padre Alfonso per invadere lo Stato della Chiesa, F. passò a compiti di maggiore responsabilità, ricevendo nel gennaio 1486 l'ordine di spostarsi in Puglia per assalire, insieme con Francesco d'Aragona, i feudi del principe d'Altamura, Pirro Del Balzo e del marchese di Bitonto, Andrea Matteo Acquaviva, due dei più importanti fautori della rivolta. Quindi l'irruzione nella piana del Fucino delle soldatesche pontificie al comando di Giovanni Della Rovere, dirette verso la Capitanata (l'attuale provincia di Foggia), obbligò F. e Francesco d'Aragona a porre in salvo gli armenti, e la relativa tassa - circa 80.000 ducati - dovuta alla Dogana delle pecore, dai pastori che portavano gli ovini dall'Abruzzo a svernare in Puglia. Infine, l'esercito di F. passò all'inseguimento delle truppe di Giovanni Della Rovere, che, privo di appoggi, fu costretto a chiudersi in Benevento (aprile 1486). Bloccati qui i nemici, F. ricevette l'ordine di muovere contro i feudi di Antonello Sanseverino, principe di Salerno: ma in luglio dovette abbandonare le operazioni, essendo stato gravemente ferito in una scaramuccia.
Durante la sua convalescenza a Napoli, nell'agosto 1486, fu firmata un'effimera pace tra il re, il papa e i ribelli, che non impedì, poco dopo, la ripresa dell'azione antinobiliare e della guerra. Così a F., nell'autunno successivo, fu affidato il compito di presidiare la Puglia, fronteggiando i nemici sull'Ofanto con un esercito di 1.000 uomini. Tuttavia la campagna fu interrotta per la stipulazione di una nuova pace tra Ferdinando I e i baroni (26 dic. 1486). Tornato a Napoli, F. assistette ai processi e alle esecuzioni contro i nobili fatti arrestare dal re ed incamerò alcuni beni, come il palazzo di Antonello Petrucci, che destinò a sede della sua corte. Quindi, al fine di mantenere l'ordffle nelle periferie, scosse dagli avvenimenti napoletani, nell'aprile 1487, F. fu nominato vicerè in Puglia, con l'incarico di soprintendere con fermezza all'amministrazione della giustizia, alla riscossione dei tributi, alla difesa del territorio. F. trascorse in questo governo l'estate, spostandosi successivamente in Abruzzo, all'ennesima ripresa della lotta contro i baroni. Non mancò tuttavia di recarsi a Napoli nell'agosto 1487, per partecipare, com'era solito fare, a giostre e tornei cavallereschi nei quali a giudizio di tutti gli osservatori diplomatici eccelleva.
Tornato in Puglia, attese nella primavera 1488 all'insediamento di personaggi fedeli alla Corona nei feudi più importanti della regione. Quindi, sul finire dell'anno, rientrò a Napoli per assistere alle nozze per procura fra la sorella, Isabella, e Gian Galeazzo Sforza, giovane duca di Milano. Non poté tuttavia trattenersi a corte, a causa del suo nuovo incarico di luogotenente in Abruzzo, regione al confine con le terre della Chiesa, particolarmente sensibile ad ogni variazione nei rapporti fra i due Stati. Così, quando la tensione con il Papato tornò alta, nei primi mesi del 1489, a F. furono ordinati preparativi militari e rapide incursioni nel territorio nemico, pur senza ufficiale dichiarazione di guerra. Questa costante tensione fra Innocenzo VIII e Ferdinando I impensieriva oltremodo le cancellerie italiane. Pertanto, grazie anche alla mediazione di Lorenzo de' Medici, all'inizio del 1492 si arrivò ad un accordo, che prevedeva l'investitura formale dei discendenti di Ferdinando I al trono.
Per ratificare questo trattato, F. fu inviato a Roma ed il 28 maggio 1492 fu investito della successione, tra le risentite proteste dell'ambasciatore del re di Francia, Carlo VIII, che già palesava mire sul Regno. Quindi F., alloggiato con il suo numeroso seguito in Vaticano, presenziò ad alcune cerimonie ufficiali. tra cui il matrimonio tra Luigi d'Aragona, nipote di Ferdinando I, e Battistina Cibo, nipote del papa, non tralasciando la definizione dei dettagli dell'accordo. Infine, all'inizio di giugno, tornò a Napoli, per poi passare al suo governo d'Abruzzo.
Alla morte di Ferdinando I, il 25 genn. 1494, mentre il padre Alfonso salì al trono napoletano, F. assunse il titolo di duca di Calabria.
A quest'epoca il panorama politico italiano era radicalmente mutato, per la recente scomparsa di alcuni protagonisti ed i segnali sempre più vivi e frequenti della prossima invasione francese. Contro questo imminente pericolo, durante gli ultimi mesi di vita di Ferdinando I, era fallito ogni tentativo, dalle missioni diplomatiche aragonesi in Francia alle pressioni su Ludovico il Moro (reggente del Ducato di Milano), affinché si allontanasse dall'alleanza stretta con Carlo VIII. Neppure l'accordo raggiunto con il nuovo pontefice, Alessandro VI, aveva dato garanzie di stabilità, per la reciproca diffidenza. Dopo l'incoronazione, Alfonso II cercò di migliorare le relazioni con il pontefice e di neutralizzare, ma senza esito, l'ostilità del Moro.
Nondimeno, nella prima metà del 1494 si concretizzò una soddisfacente intesa fra Napoli, Roma e Firenze. Nel contempo, Alfonso II diede inizio ai preparativi militari e all'armamento della flotta. In questo contesto F. appariva addirittura spavaldo, secondo una mentalità dominata da tratti cavallereschi, e già nel marzo 1494 si trovava impegnato negli arruolamenti in Abruzzo. L'occasione gli si presentò nell'estate successiva, quando, in un incontro tra il papa, Alfonso II e F. a Vicovaro, venne deciso che, mentre la flotta si sarebbe diretta contro Genova, fedele agli Sforza, a F. sarebbe toccato il compito di assalire la Lombardia.
L'esercito di F., ancora incompleto, mosse in direzione di Cesena e nell'agosto valicò l'Appennino. L'obiettivo, secondo quanto egli stesso affermò, era "fare qualche cosa relevata, per la quale lo signor Ludovico sia necessitato retraherse da le cose de Francza et venire a la pace" (lettera a Piero de' Medici, 18 ag. 1494, in E. Pontieri, La dinastia aragonese di Napoli, p. 253). A questo fine era essenziale l'apporto di Piero de' Medici, che invece si mostrava esitante, non trovando in Firenze un generale consenso all'alleanza con gli Aragonesi. F., secondo le istruzioni del padre Alfonso II, non lesinò sforzi per stringere i rapporti con l'incerto alleato: gli offrì persino la sua nuova amante, Caterina Gonzaga, intendendo condividere (secondo quanto confidò a Bernardo Dovisi da Bibbiena) "queste cose delle donne come le altre tucte": Epistolario ... Bibbiena, I, (p.159). Ma i rinforzi da Firenze furono assai scarsi e le difficoltà finanziarie, l'inadeguato appoggio da parte di Alessandro VI (impegnato contro nemici interni), l'arrivo in Romagna dell'esercito sforzesco-francese al comando del conte di Caiazzo Giovan Francesco Sanseverino obbligarono gli Aragonesi ad abbandonare ogni velleità contro il Milanese.
Il teatro di guerra si stabilì invece tra Ravenna e il Polesine ferrarese. Il primo scontro, il 19 settembre, si risolse a favore degli Aragonesi. Quindi, dopo altre scaramucce, l'iniziativa si spostò sul fronte diplomatico, dove F. cercò, senza riuscirvi, di guadagnare l'alleanza dei signori della regione (primi fra tutti Giovanni Bentivoglio a Bologna e Caterina Sforza ad Imola). Rimasto pressoché isolato di fronte ad un nemico ogni giorno più potente e ben dotato di artiglierie, F. fu costretto, all'inizio di ottobre, a ritirarsi a Faenza nella convinzione (espressa anche da Alfonso II) che le operazioni si sarebbero interrotte durante l'inverno. Ciò non gli impedì di sfidare a duello Carlo VIII, il cui arrivo si diceva imminente, per risolvere il controverso dominio su Napoli.
Ben altri erano i metodi di conquista dei Francesi e le loro prime sanguinose vittorie in Romagna (alla fine di ottobre) fecero rapidamente dissolvere il debole fronte di alleanze costruito da Alfonso II. All'inizio di novembre, infatti, Piero de' Medici si accordò con Carlo VIII e gli cedette le fortezze di Sarzana e Sarzanello, segnando in questo modo la fine della propria signoria su Firenze. F. dovette abbandonare il campo e si diresse a Roma dove entrò l'11 dicembre. Qui egli trovò una situazione assai tesa ed Alessandro VI, su cui il re di Francia premeva per ottenere l'infeudazione del Regno di Napoli, gli chiese di restare per organizzare la resistenza. Da parte sua F. propose al pontefice di seguirlo nel Regno, promettendogli 50.000 ducati e la fortezza di Gaeta. Tuttavia bastò che l'esercito di Carlo VIII apparisse nel Lazio settentrionale per far mutare atteggiamento al pontefice, che concesse ai Francesi il transito. A F., investito il 25 dicembre duca di Calabria, non restò che dirigersi alla volta del campo aragonese a San Germano (l'attuale Cassino). Poco dopo, il 31 dicembre, Carlo VIII entrò a Roma.
Un drammatico colloquio con il padre Alfonso portò F., il 9 genn. 1495, a Napoli, per prendere misure radicali: infatti la feudalità, colpita ancora di recente da provvedimenti repressivi, mostrava un crescente favore per un possibile mutamento dinastico, che avrebbe ridisegnato la mappa del potere e del favore; in alcune città, come L'Aquila, Sulmona, Popoli, l'insoddisfazione sfociava in aperta ribellione, mentre a Napoli si susseguivano i tumulti. Per ricostruire il consenso interno, Alfonso II ritenne opportuno abdicare a favore del figlio F., che "cavalcò" il 23 genn. 1495 come re, riportando al momento la calma nella città. Con quest'atto, che destò enorme scalpore, la Corona aragonese tentava altresì di allontanare Ludovico il Moro dall'alleanza con Carlo VIII, facendo leva sulle preoccupazioni del nuovo duca di Milano per i troppo rapidi successi francesi.
La situazione militare permaneva tuttavia grave. L'avanzata francese riprese infatti all'inizio di febbraio, con la strage di Monte San Giovanni, che gettò nel panico sia il campo aragonese a San Germano, precipitosamente abbandonato, sia Napoli. F. pensava di porre il centro della resistenza a Capua, dove fece confluire un nutrito contingente sotto il comando di Gian Giacomo Trivulzio. Tuttavia le notizie di nuove sedizioni lo obbligarono a spostarsi a Napoli, dove il 16 febbraio radunò la nobiltà dei "seggi" e i rappresentanti del "popolo", chiedendo di resistere ancora. Poco dopo F. dovette spostarsi a Capua che, dopo la disgregazione della guarnigione e il passaggio del Trivulzio ai Francesi, aveva deciso di arrendersi. A F. non fu neanche concesso l'ingresso in città, dove entrò Carlo VIII il 18 febbraio. Tornato a Napoli, F. subì l'umiliazione del saccheggio delle proprie pregiate scuderie e fu costretto a misure di emergenza, come l'incendio di parte della flotta e dell'arsenale. Per trovare nuovo consenso, liberò poi, come gli aveva tardivamente suggerito il padre, quasi tutti i nobili ancora detenuti. Infine, persa ogni speranza, salpò con la flotta diretto a Messina, dove già si era rifugiato lo stesso Alfonso.
Mentre i Francesi entravano a Napoli, F. sbarcò, dopo una sosta a Procida, ad Ischia, che divenne sede della sua corte. Tra febbraio e marzo vi fu ancora spazio per le trattative: non avendo però ottenuto - come richiesto - uno Stato in Francia con titolo reale, F. lasciò Ischia all'inizio di aprile, quando gli rimanevano solamente le rocche di Brindisi, Gallipoli e Reggio Calabria, più Tropea ed Amantea.
La stessa rapidità con cui la conquista era avvenuta favoriva nel contempo una profonda mutazione del contesto politico. Infatti gli allarmi e le preoccupazioni degli Stati italiani e oltremontani si concretizzarono in una lega (conclusa a Venezia il 31 marzo 1495) tra la Serenissima, il papa, l'imperatore Massimiliano, il duca di Milano e i sovrani di Spagna. Tra gli obiettivi, vi era quello di soccorrere F. con la flotta veneziana e con aiuti terrestri spagnoli, sbarcati in Sicilia. Così, mentre Carlo VIII decideva di partire da Napoli, lasciando nel Regno 6.000 cavalieri e 4.000 fanti, F., unitosi al contingente guidato dal gran capitano (Gonzalo Fernandez de Cordoba), iniziò nel maggio successivo a risalire la Calabria, acquistando subito la città di Reggio, per poi dirigersi verso la piana di Taurianova. Giunto però presso Seminara fu battuto, a causa della sua irruenza, dall'esercito di Bérauld Stuart, signore d'Aubigny, rafforzato dalle schiere dei baroni calabresi fedeli a Carlo VIII (21 o 22 giugno 1495). Rifugiatosi a Palmi, F. si imbarcò per Messina: qui il padre Alfonso aveva allestito una flotta, che insieme con l'armata spagnola puntò direttamente su Napoli, dove già erano comparsi malumori per la condotta della corte e dell'esercito francesi.
Giunto nelle acque del golfo, F. lasciò il grosso al largo ed accostò con una flottiglia. Dopo qualche esitazione, dovuta a conflitti interni, i "popolari" napoletani, guidati da Gian Carlo Tramontano, presero le armi in suo nome. F. non si lasciò sfuggire l'occasione: sbarcato il 7 luglio presso il ponte della Maddalena, obbligò i Francesi ad uscire dalla città, favorendo così il buon esito della rivolta. Al termine della giornata, i nemici furono infatti costretti a chiudersi in Castelnuovo e F., impossessatosi della città, ma non delle fortezze, poté insediarsi in Castel Capuano. Le sorti del conflitto (mentre gli eserciti della Lega si scontravano con i Francesi in Val di Taro) volsero presto a suo favore: dopo Napoli ed alcune "terre" nei dintorni, a metà luglio, erano state recuperate quasi per intero la Puglia, la Terra di Lavoro e Salerno (esclusa però la rocca).
Per rafforzarsi, F. cercò di amicarsi quelle frange della nobiltà che lo avevano abbandonato, rimanendo poi deluse dalla maldestra politica delle infeudazioni di Carlo VIII. Condusse quindi trattative con i suoi più antichi nemici, i principi di Salerno e di Bisignano, Antonello e Bernardino Sanseverino. Ma era ancora presto per una pacificazione e, per vincere la resistenza francese, F. si giovò dell'appoggio del "popolo" napoletano, allettato da nuove concessioni. Alla fine dell'estate solo Casteinuovo resisteva ed in suo soccorso muovevano le truppe di Franigois de Tourzel, barone di Précy. A contrastarle, F. inviò il conte di Maddaloni, Giovanni Tommaso Carafa, che subì una sconfitta a Lagopiccolo, presso Eboli, il 24 settembre. F. meditò dapprima di abbandonare la città, riuscendo poi a sbarrare il passo, con un lungo fossato fortificato, ai Francesi, che ripiegarono su Nola. Per ricongiungersi con queste truppe, Gilbert de Bourbon-Montpensier, luogotenente del Regno di Napoli, lasciato Castelnuovo, passò a Salerno, obbligando F. ad una debole campagna d'autunno, nella piana del Sarno e nel Salernitano. Fallito il tentativo di sortita dell'esercito francese, F. poté, dopo essersi impadronito di Nocera, rientrare a Napoli per stringere l'assedio a Castelnuovo. Fino a metà noverUbre si susseguirono tre assalti, senza esito. Infine, si dimostrò decisiva l'esplosione di una mina ideata da Francesco di Giorgio Martini, l'architetto artefice delle fortificazioni aragonesi di Napoli, al servizio di F. dal gennaio 1495: l'8 dicembre la guarnigione si arrese, seguita da quella di Castel dell'Ovo (metà febbraio 1496).
La guerra ancora divampava in Abruzzo, in Puglia, in Calabria, ma le casse aragonesi erano esauste: F. non poteva imporre tributi in un contesto politico ancora fragile ed era costretto a venire a patti con le Comunità che tornavano a lui fedeli. Così egli stipulò, il 22 genn. 1496, un gravoso trattato di alleanza militare con Venezia, alla quale cedette in pegno Trani, Brindisi e Otranto - tradizionalmente oggetto delle mire della Serenissima - fino al rimborso delle spese della spedizione.
Ricevuti i rinforzi veneziani, F. pose il campo a Montefusco, presso Avellino, cercando di impedire il transito dei nemici verso la Puglia, dove si dirigevano per sottrargli i proventi della Dogana delle pecore. Rientrò nondimeno a Napoli alla fine di febbraio, per celebrare, con un chiaro disegno diplomatico, il suo matrimonio con Giovanna d'Aragona (figlia di secondo letto dell'avo Ferdinando I e nipote di Ferdinando il Cattolico). Quindi, raggiunto a Benevento da Francesco II Gonzaga, comandante del contingente veneziano (aprile 1496), mosse verso San Severo, dove riuscì a riunire gran parte degli armenti, perdendo però alcune truppe in un'imboscata presso Lucera. Insediatosi a Foggia, F. era ormai deciso allo scontro aperto, ma il timore di mettere a repentaglio i successi fino ad allora conseguiti e i pareri dei suo Consiglio lo portavano ad una prudenza eccessiva, che lasciava ai Francesi il controllo della campagna. Quando però i nemici mossero verso Campobasso, crocevia del Regno, uscì allo scoperto e, nei dintorni di questa città, a metà maggio, si susseguirono scaramucce e assalti alle rocche. Infine, stretti dalle difficoltà logistiche e finanziarie, più che dalle forze veneto-aragonesi, le truppe del Montpensier si ritirarono verso Venosa, per attendere qui una nuova calata di Carlo VIII. Invece F., alla fine di giugno 1496, riuscì a bloccarle ad Atella, forte anche dei rinforzi spagnoli del Cordoba, vittorioso in Calabria. Senza soccorsi, Montpensier fu costretto alla resa, consegnando a F. quasi l'intero Regno (23 luglio).
Non rimanevano, oltre alle roccaforti di Gaeta, Venosa e Taranto, che alcuni focolai di ribellione. F. inviò il suo condottiero Fabrizio Colonna in Abruzzo, dove L'Aquila stava per tornare agli Aragonesi, dirigendosi egli stesso contro i feudi dei principi di Salerno e Bisignano, che espugnò a metà dell'agosto successivo, per poi accordarsi con loro. F. si recò quindi a Somma Vesuviana, presso la regina, ma qui, mentre si accingeva all'impresa di Gaeta, cadde ammalato, probabilmente di malaria. Le voci si propagarono rapidamente e il 5 ottobre sfociarono in un tumulto, che obbligò F. ad un'uscita in lettiga nelle vie di Napoli. Il giorno seguente l'arcivescovo Giovanni Carafa convocò una processione percorsa dal "grande ullulato della gente" (Notar Giacomo, Cronaca, p. 209). Infine il 7 ott. 1496 fu resa pubblica la notizia della morte di F., che fu sepolto, dopo solenni esequie, nella sagrestia di S. Domenico a Napoli. Non avendo eredi, gli successe lo zio Federico d'Aragona.
Dopo la morte di F. si moltiplicarono gli omaggi letterari degli umanisti, tra cui quello del giovane Ludovico Ariosto, che compose un Epitaphium regis Ferdinandi, trovato e trascritto da G. Carducci [Opera omnia, XIII, p. 272]. Circolavano altresì, negli anni immediatamente successivi alla morte, alcuni ritratti di F., soprattutto in ambiente mantovano. Di questi, secondo una recente interpretazione, sarebbe un esemplare il celebre Cavaliere con l'ermellino di Vittore Carpaccio.
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