FERDINANDO II de' Medici, granduca di Toscana
Nacque a Firenze il 14 luglio 1610 da Cosimo II e da Maria Maddalena d'Austria, sorella dell'imperatore Ferdinando II.
Sin dai primi anni, primogenito di otto sorelle e fratelli, fu considerato l'erede al Granducato e fu allevato con particolare considerazione, per le gravi condizioni di salute del padre. Quest'ultimo infatti soffriva da tempo di tubercolosi, che spesso lo costringeva all'immobilità. Per questo già nel 1615, per meglio organizzare un'eventuale improvvisa successione. Cosimo II predispose con apposito testamento la tutela e la reggenza del Granducato, affidandola congiuntamente alla madre, Cristina di Lorena, vedova del granduca Ferdinando I, e alla moglie Maria Maddalena d'Austria, cui era legato da profondi vincoli d'affetto. Cosimo II aveva anche disposto che "al governo di dette tutrici ... continuamente assista un nostro Consiglio secreto quale partecipi di tutte le gravi deliberazioni che si doveranno fare tanto per le cose di Stato quanto per il governo della giustizia et grazia ..." (Arch. di Stato di Firenze, Trattati internaz., XVI, 1). Cosi, alla sua morte, avvenuta il 28 febbr. 1621, le due granduchesse assunsero la reggenza a nome del giovanissimo F., non ancora undicenne, coadiuvate da un Consiglio segreto nel quale erano presenti monsignor Giuliano de' Medici, arcivescovo di Pisa, il conte Orso d'Elci, consigliere di Stato, il marchese Fabrizio Colloredo, maestro di camera, e il senatore Niccolò Dell'Antella, auditore della religione di S. Stefano.
La scelta di tali personaggi, voluta dal defunto granduca, confermava una politica di govemo che vedeva ormai nettamente preferita la nobiltà di corte a scapito degli uomini nuovi, di quei segretari di Stato che un tempo avevano costituito il nucleo più originale del governo di Cosimo I o Ferdinando I. E si veniva così accentuando un processo che si sarebbe aggravato nel corso del lungo governo dello stesso Ferdinando II. Un processo che vide via via allontanati dai vertici degli apparati di Stato e di governo giuristi, tecnici e amministratori scelti per le loro capacità e i loro meriti, sostituiti per lo più da esponenti del patriziato cittadino o della nobiltà di corte.
Il giovane principe ricevette un'educazione accurata, sotto la direzione di entrambe le tutrici, e la guida di validi insegnanti fra i quali Matteo Neroni per la geografia, la storia e la cosmografia, e lo scolopio Famiano Michelini, già allievo di Galileo, per la matematica e l'astronomia. Non mancò l'attività fisica e l'addestramento alle arti militari, all'equitazione, alla caccia, come testimonia il prezioso diario lasciato dal suo aiutante di camera Cesare Tinghi, e un'accentuata attenzione alle pratiche religiose e morali, per espressa volontà delle religiosissime granduchesse.
Nel luglio del 1623, essendo entrato nei 14 anni, F. cominciò ad accostarsi alle sue future responsabilità di governo ed "entrò a sentire i negotii, e tenere la segnatura e la firma dei memoriali e delle lettere" (Ibid., Misc. Medicea 11, Tinghi, Diario di corte). Ma in realtà tutte le decisioni politiche e di governo più importanti continuarono ad essere discusse nel Consiglio di reggenza e furono improntate alla maggior influenza assunta in Consiglio dalla granduchessa Maria Maddalena, preoccupata di mantenere la solida alleanza fra il Granducato e la corte imperiale di Vienna.
Erano questi gli anni difficili della prima fase della guerra dei trent'anni, che videro i piccoli Stati italiani incerti fra la loro naturale tendenza alla neutralità e le pressioni che Impero, Francia e Spagna esercitavano per ottenere aiuti militari, sussidi finanziari, a volte l'utilizzazione dei porti più importanti della penisola.
Nell'ambito del Consiglio di reggenza quindi si arrivò ad un vero e proprio scontro politico fra le due granduchesse, l'una filofrancese, l'altra sorella dell'imperatore Ferdinando II e sostenitrice di una politica se non di alleanza con l'Impero, quanto meno di appoggio finanziario e militare. Così, sia pur sotto la veste formale di sussidi dovuti al suo naturale signore, per l'investitura imperiale di Firenze, furono inviati notevoli aiuti finanziari alla corte di Vienna, e più tardi lo stesso reggimento Piccolomini.
Nel frattempo il giovane principe continuava un lungo apprendistato politico che lo escludeva in realtà dalle più importanti decisioni, compresa quella relativa al suo stesso matrimonio. Nel 1628, poco prima di raggiungere la maggior età e di assumere quindi pienamente possesso del governo dello Stato, F. volle completare la sua formazione compiendo un lungo viaggio.
Un viaggio contrassegnato da una scelta ben precisa dei luoghi e delle corti da visitare: Roma in primo luogo, con il papato e le sue basiliche, quindi Loreto, santuario assai caro alla casa dei Medici, poi Bologna, Ferrara, Venezia e infine l'Austria e Praga, dove incontrò l'imperatore Ferdinando II, suo zio materno, dal quale fu accolto con affettuosa familiarità.
Tornato a Firenze F. assunse ufficialmente il governo dello Stato il 14 luglio 1628, continuando tuttavia a farsi coadiuvare dalle due granduchesse vedove, di cui sentiva fin troppo l'influenza. Se tuttavia la politica di aiuti finanziari e militari all'Impero era stata una vittoria della granduchessa Maria Maddalena, la decisione della nonna, la granduchessa Cristina di Lorena, fu determinante invece rispetto al matrimonio di F., deciso già il 20 sett. 1623, quando egli aveva appena tredici anni e Vittoria Della Rovere due anni.
Tale matrimonio si rivelò, almeno su un piano politico-dinastico, un vero fallimento e comportò un drastico ridimensionamento della grande politica di alleanze perseguita fino allora a livello europeo dalla famiglia de' Medici. Ai grandi matrimoni quindi che avevano sancito l'unione della famiglia granducale con le case di Francia e d'Asburgo venne preferito il matrimonio con l'ultima discendente d'una piccola dinastia italiana. A molto probabile che tale decisione fosse il frutto d'uno scontro verificatosi fra le due granduchesse, l'una favorevole ad un matrimonio con gli Asburgo di Vienna, l'altra più disposta a riprendere i rapporti con la corte di Parigi e le grandi famiglie francesi. Nella impossibilità di raggiungere un'intesa si fece strada l'ipotesi di un matrimonio minore, in ambito italiano, ma la scelta dell'ancora infante Vittoria Della Rovere, nipote della granduchessa Cristina, unica erede dell'ultimo duca di Urbino, Francesco Maria, fu decisamente poco felice. Le speranze delle due tutrici e dei loro consiglieri sul fatto che il matrimonio avrebbe comportato ingrandimenti territoriali se non addirittura l'annessione del Ducato di Urbino furono infatti frustrate. Forse a Firenze si sottovalutava la politica di accentramento che la S. Sede aveva già messo in atto con l'annessione di Ferrara; forse si contava sulla grande influenza che il partito mediceo aveva sempre avuto presso la Curia e il Collegio cardinalizio. In ogni caso Urbano VIII fu intransigente: già il 30 apr. 1624 venne firmato un patto fra il duca Francesco Maria e la S. Sede che prevedeva la devoluzione del Ducato di Urbino allo Stato della Chiesa alla morte dei duca. Alla nipote Vittoria Della Rovere tuttavia sarebbero spettati i beni allodiali e i beni mobili, le splendide collezioni d'arte (fra cui quadri di Tiziano e Raffaello), mobili, arazzi e gioielli. Il matrimonio venne celebrato in forma privata il 2 ag. 1634, soprattutto per compiacere la granduchessa Cristina, ma per le nozze pubbliche si attese fino al 1637. Ma come si era rivelata un insuccesso sul piano politico altrettanto infelice si dimostrò tale unione su quello privato e familiare. I rapporti fra i due sposi, estremamente diversi per carattere ed educazione, non furono mai felici, tanto che, dopo la nascita del primogenito, il futuro Cosimo III, il 14 ag. 1642, i due coniugi vissero separati per 18 anni e solo nel 1660, a seguito di una loro riconciliazione, nacque il secondogenito Francesco Maria.
Il legame che non esisteva tra F. e la moglie era invece molto stretto fra il granduca e i suoi fratelli, chiamati a collaborare con lui nello svolgimento di numerosi incarichi di governo e di rappresentanza. In particolare il principe Mattias, che aveva combattuto a Lutzen con le truppe imperiali alla testa d'un reggimento toscano, ebbe il comando dell'esercito e di tutti gli affari militari, e fu governatore di Siena. Leopoldo, che per intelligenza e carattere superava senza dubbio gli altri fratelli, collaborò più strettamente con F. sia in politica interna che estera e prima di divenire cardinale svolse spesso funzioni di luogotenente, presiedendo il Magistrato supremo e il Consiglio dei duecento.
Nonostante le qualità personali di F. siano state riconosciute da molti storici, i giudizi sulla sua azione di governo sono generalmente piuttosto severi. Molto spesso le critiche riguardano tuttavia più l'operato delle due reggenti e del Consiglio, dominato a lungo dal potente e intrigante segretario Andrea Cioli, uomo per altro molto esperto degli affari interni del Granducato e buon conoscitore delle corti italiane dei tempo. Forse, come sostiene F. Diaz "non era solo questione di personalità e capacità dei principi, ma dei loro radicamento in una situazione dove le iniziative novatrici, la coscienza e la volontà di potenziare la struttura dello Stato ... non erano più pensabili" (Granducato..., p. 367).
In realtà il giovane sovrano si trovò a dover affrontare, proprio all'inizio del suo governo, alcune difficili situazioni internazionali e altre drammatiche congiunture legate alla carestia e alla peste del 1629-30. Già la stessa Firenze subiva infatti i contraccolpi di una grave crisi economica che aveva colpito le maggiori industrie cittadine, ovvero le manifatture della lana e della seta, la cui produzione aveva fortemente risentito della più generale crisi economica europea. In tali circostanze tuttavia il granduca aveva saputo impegnarsi in una politica di intervento coraggiosa e fortemente innovativa. Per far fronte all'epidemia, che si era già diffusa anche in altre province dei Granducato, F. ristrutturò l'ufficio di Sanità di Firenze organizzando l'assistenza medica, predisponendo la quarantena e l'isolamento delle Comunità colpite, facendo prestiti alle Comunità per i bisogni più urgenti. Egli stesso, insieme con i fratelli, diede prova di coraggio e di profonda consapevolezza del suo ruolo di principe affrontando il contagio per restare vicino alla popolazione. Come scrisse il fratello Giovan Carlo "ogni giorno si lascia rivedere per la città a piedi con poca gente per provvedere ai bisogni di questa clausura" (Archivio di Stato di Firenze, Mediceo, 6136). Inoltre, il 30 ag. 1630, F. istituì una vera e propria Cassa per i lavoratori disoccupati e per quelli poveri, contribuendovi personalmente con 3.000 scudi al mese e tassando per altri 2.000 scudi i più ricchi contribuenti cittadini. Questi ed altri provvedimenti, come quello di concedere un prestito di 40.000 scudi all'arte della seta, per un anno, con la condizione di far lavorare 200 telai e 800 persone, o quello di promuovere numerosi lavori pubblici per impiegare gli operai disoccupati, rientravano del resto in quell'ottica dell'economia morale o economia caritativa diffusa nei diversi Stati italiani d'antico regime. Certamente lo stesso granduca, come pure altri esponenti del patriziato fiorentino, si rendeva ben conto che si trattava di semplici palliativi e che sarebbe stato necessario modificare antichi privilegi e rompere vecchie consuetudini per sostenere l'economia del Granducato nel suo complesso. I privilegi delle arti fiorentine infatti presupponevano il divieto di praticare le manifatture nel contado e nel resto dei Granducato. Ma nonostante leggi e bandi, norme e privilegi, le manifatture della lana e la produzione della seta si erano diffuse in tutta la Toscana, tanto che, sia pur molti anni dopo, lo stesso F. se ne mostrava palesemente informato e in certa misura quasi complice, come emerge chiaramente da una preziosa lettera dell'auditore dell'arte della lana di Firenze del 27 dic. 1662. Il granduca in tale occasione rifiutava di far pubblicare l'ennesimo bando contro l'esercizio delle manifatture del contado "essendogli ugualmente sudditi tanto l'uni che l'altri ... sapendosi poi che di dette robbe lavorate in contado se ne trasmette gran quantità fuori di Stato con utile del pubblico e del privato" (Martelli, La Comunità..., p. 94).
A tale intelligente attenzione verso gli affari economici di Firenze e delle altre Comunità dei Granducato, tuttavia, F. non unì altrettanta capacità di proseguire quel rinnovamento sociale dell'apparato amministrativo dello Stato iniziato dai suoi predecessori. Cosi egli mantenne la legge emanata sotto la reggenza, il 30 genn. 1623, che aveva abolito l'antica esclusione dei magnati dalla vita pubblica fiorentina, legge che accentuava quel processo di ritorno del patriziato cittadino e dell'antica nobiltà toscana alle cariche di corte e di governo promosso già da Cosimo II, in forte contrasto con la politica seguita invece da Cosimo I e Ferdinando I. Patrizi, aristocratici e grandi ecclesiastici ripresero via via il controllo delle più importanti cariche politiche, amministrative, giudiziarie e finanziarie. Persino nelle segreterie di Stato, dove un tempo si erano affermati fimzionari di spiccata personalità e di sicura competenza, gli uomini nuovi, i giuristi e i tecnici provenienti da diverse Comunità dello Stato, i diversi uffici vennero ora affidati a ecclesiastici o patrizi: uomini di scarso prestigio e di ben poche competenze, scelti a volte per favoritismi personali, che improntarono le istituzioni di uno spirito aulico e cortigiano. D'altro canto le stesse segreterie e la carica stessa di primo segretario perdettero via via la loro importanza d'un tempo: il centro decisionale e politico divenne il Consiglio ristretto, composto di principi del sangue e da cortigiani appartenenti alle maggiori famiglie dello Stato. Così nel Consiglio vennero chiamati il maggiordomo maggiore Vincenzo Salviati, il marchese Albizzi, il conte Ferdinando Bardi.
A difficile comunque riuscire a cogliere il ruolo giocato dal patriziato fiorentino e dalla nobiltà toscana sia nell'ambito di una reale partecipazione alla vita politica sia in quello più generale della vita economica del Granducato. La stessa storiografia al riguardo, anche quella più recente, ha continuato a seguire il vecchio e impietoso giudizio del Galluzzi: le aristocrazie, "dismesse la mercatura, si comprarono feudi nel Regno di Napoli ed altri se ne formarono nel Granducato" (VI, 87). Ma tale giudizio, ripreso d'altro canto da molti storici anche a livello europeo per comprendere il fenomeno del ritorno alla terra, e sintetizzato dall'espressione di F. Braudel "il tradimento della borghesia", non spiega i profondi motivi della crisi economica toscana, come quella di altri Stati italiani, limitandosi ad illustrarne solo gli effetti, non le cause. Era infatti la profonda crisi internazionale a sconsigliare ormai nuovi investimenti nelle manifatture della seta e della lana e a indirizzare i capitali toscani verso la terra, che assicurava una rendita più sicura e più stabile. Era il ruolo stesso di tutta la penisola che veniva ormai ridimensionato e dal sorgere dei grandi imperi coloniali e dalla concorrenza dei paesi emergenti dei Nordeuropa. L'Inghilterra, l'Olanda e la Francia dominavano orinai i traffici del Mediterraneo e lo stesso porto di Livorno era strettamente controllato dalle flotte di tali paesi. Tutto ciò era ben chiaro agli accorti banchieri e mercanti fiorentini: da qui la decisione di continuare si ad investire nelle manifatture o all'estero, ma anche di reinvestire nella terra e nella proprietà fondiaria, nelle bonifiche, nell'introduzione di nuove colture. E in questo quadro più generale il ruolo del granduca avrebbe forse potuto essere più incisivo; ma la Toscana, non si può dimenticarlo, non aveva l'agricoltura fertile e irrigua della pianura Padana e la struttura della produzione manifatturiera era strettamente cittadina e vincolata alle arti. Così il decentramento delle manifatture nelle campagne, l'introduzione di macchine industriali complesse, come il mulino da seta alla bolognese, non si verificarono in Toscana, ma in Piemonte, nel Veneto e in Lombardia. La Toscana continuò a restare uno Stato regionale caratterizzato dal prevalere delle città, persino nella struttura del debito pubblico.
Il quadro così complesso dell'economia toscana a metà Seicento, misto di luci e di ombre, con ripetuti accenni di crisi ma anche manifestazioni di vitalità, fu caratteristico del lungo principato di Ferdinando II. Molti vi hanno intravisto il preludio alla decadenza del Granducato che si accentuò sul finire del Seicento, collegandolo al contesto della politica estera della Toscana. Certamente già con lo stesso Cosimo II erano apparse ridimensionate le pretese dei granduchi precedenti di far sentire la presenza toscana nell'ambito europeo; pretese ormai non più proponibili in un quadro internazionale assai mutato. Così uno degli scopi più tenacemente perseguiti dalla diplomazia toscana e dallo stesso granduca fu il mantenimento di buoni rapporti internazionali, conservando una certa eqpidistanza dalla Francia da un lato, e dalla Spagna e dall'Impero dall'altro. Così come buoni rapporti vennero sviluppati e mantenuti con l'Inghilterra e l'Olanda, paesi il cui ruolo mediterraneo era ormai testimoniato dalla presenza di flotte commerciali e da guerra sempre più numerose. Certamente tale politica, finalizzata a garantire l'integrità territoriale e il mantenimento della dinastia medicea, relegò il Granducato a un ruolo del tutto subalterno alle grandi potenze europee e alla stessa S. Sede. Davvero pochi barlumi di indipendenza politica e di autonomia furono gli aiuti militari e finanziari inviati all'Impero per la guerra dei trent'anni e la lotta contro i Turchi, condotta spesso dalla piccola flotta dell'Ordine di S. Stefano nelle acque del Mediterraneo. Altra testimonianza di un diverso ruolo orinai giocato nel contesto italiano fu la perdita d'influenza che i Medici subirono nella Roma pontificia. Qui, nell'ambito sia dei rapporti diplomatici fra Stati sovrani sia di quelli con la S. Sede, F. dovette registrare una progressiva diminuzione del ruolo privilegiato, appannaggio un tempo della sua famiglia. Tanto che per contrastare la politica espansionistica di Urbano VIII Barberini, che mirava a spodestare Odoardo Farnese dai possessi feudali di Castro e Ronciglione, si impegnò in un vero e proprio conflitto militare.
Il granduca riuscì a costituire una lega fra Venezia. Modena e la Toscana, firmata il 31 ag. 1642, sia per tutelare l'equilibrio degli Stati italiani, sia per opporsi alla tendenza di Urbano VIII a creare nuovi piccoli Stati a favore di membri della propria famiglia. Si arrivò così alla guerra di Castro, che vide impegnati su fronti contrapposti l'esercito pontificio da un lato e quello della Lega dall'altro. Così mentre Venezia iniziava una campagna militare ai confini settentrionali dello Stato della Chiesa, la Toscana mise in campo le sue forze militari ai confini con l'Umbria e l'alto Lazio. Dopo alcuni combattimenti e piccoli scontri sui due fronti, durante il 1643, ben presto gli alleati giudicarono la soluzione militare troppo pericolosa e impegnativa, sia sul piano militare sia su quello finanziario. Grazie alla mediazione della Francia il 31 marzo 1644, a Venezia, si arrivò alla stipulazione della pace, che sanciva la restituzione delle reciproche conquiste territoriali e il ristabilimento della situazione precedente.
Dopo quest'unica impresa militare, per la quale gli furono tributati apprezzamenti dai diversi principi italiani, F. tuttavia evitò di farsi coinvolgere in qualsiasi altra guerra, convinto che avrebbe ulteriormente aggravato l'economia toscana, già in forte crisi. Mantenne quindi una stretta neutralità, per evitare in particolare che il Granducato venisse coinvolto nei conflitti tra Francia e Spagna. Così rifiutò l'invito dei cardinale Mazzarino, nel 1646, di aiutare la flotta francese impegnata nell'occupazione dei possessi spagnoli di Piombino e Porto Longone, e qualche tempo dopo riusci a calmare le accese rimostranze degli Spagnoli per la sua neutralità, fornendo loro rifornimenti e viveri per difendere lo Stato dei Presidi. E grazie a tale scelta abile e opportuna, quando nel 1650 la Spagna rientrò in possesso dei suoi antichi domini, in un clima di ristabilita cordialità F. ottenne di poter acquistare dal governo spagnolo la terra di Pontremoli, territorio da sempre ambito dai Medici e prima ancora dalla Repubblica fiorentina.
La Spagna in effetti già da alcuni anni si era mostrata favorevole alla cessione di Pontremoli, ma aveva richiesto l'enorme somma di 1.500.000 ducati che, di fatto, aveva interrotto le trattative. Negli anni seguenti il governatore di Milano aveva ceduto la terra ai Genovesi, subordinando tuttavia il contratto alla ratifica di Madrid. Così il granduca, grazie all'aiuto fornito alle truppe spagnole impegnate nel recupero di Piombino e delle fortezze dell'Elba, riuscì a far annullare il vecchio contratto. La trattativa si concluse con la presa di possesso della fortezza e della terra di Pontremoli, il 18 sett. 1650, da parte del senatore Alessandro Vettori, dietro pagamento di 500.000 scudi. Negli stessi anni anche un altro piccolo ingrandimento territoriale venne conseguito ai confini con lo Stato della Chiesa, grazie all'acquisto della contea di Santa Fiora, ceduta dal conte Mario Sforza per 466.000 scudi.
Sempre la politica di equilibrio tra Francia e Spagna costantemente perseguita determinò la scelta matrimoniale di F. per suo figlio Cosimo, caduta su una principessa francese, Margherita Luisa de Orléans, cugina di Luigi XIV. Il matrimonio non era affatto gradito alla futura sposa, ma la tenace volontà del card. Mazzarino e di F., rappresentato a Parigi nelle lunghe trattative dall'ambasciatore P. Bonsi, prevalse, e il matrimonio si celebrò per procura al Louvre il 19 apr. 1661. Si apri però per la famiglia granducale un lungo periodo di tensioni e difficoltà per l'incomprensione che regnò sempre tra i coniugi. F. fu costretto più volte a mettere pace nelle crisi burrascose tra i due coniugi, chiedendo anche l'intervento dello stesso re di Francia.
Un'altra potenza con cui la Toscana ebbe rapporti non sempre facili fu lo Stato della Chiesa, nonostante nel Collegio dei cardinali fosse sempre presente almeno un membro della famigha granducale che, a capo di un partito mediceo, poteva orientare i conclavi in senso favorevole agli interessi del Granducato. Di, fatto i vantaggi di tale politica non sempre si fecero sentire; in particolare con Urbano VIII, come si è già visto, vi furono frequenti contrasti pur essendo la sua elezione avvenuta con l'appoggio decisivo del card. Carlo, zio di Ferdinando II. Non vi fu contrasto invece ma un significativo cedimento alla S. Sede in occasione della consegna di Galileo all'Inquisizione di Roma nel 1633, episodio causato, a giudizio del Galluzzi, dalla debolezza della granduchessa Cristina e dalla venalità dei ministri. Va riconosciuta tuttavia al granduca la volontà di alleviare i disagi al grande scienziato, ospitandolo a Roma, durante il processo, a villa Medici, sede dell'ambasciata toscana e in seguito ottenendo che la condanna al carcere venisse commutata nell'obbligo a risiedere nella villa di Arcetri. Qui Galileo visse, se pur confinato, in un clima di stima e di ossequio, sottolineato anche dalle visite fattegli da F., dai principi e dal pittore di corte J. Sustermans (che lo ritrasse nel 1635, oggi agli Uffizi, e nel 1641, oggi a Palazzo Pitti, Galleria Palatina).
I rapporti con la S. Sede migliorarono sotto Innocenzo X Pamphili, che diede ai Medici un secondo cappello cardinalizio, nella persona di Giovanni Carlo, fratello di Ferdinando IL In seguito, nel 1666, anche un altro fratello, Leopoldo, fu insignito della porpora e se la sua presenza in seno alla Curia contribuì a ridare peso al partito mediceo significò anche, negativamente, una sua minore influenza in particolare nella vita culturale del Granducato: l'estinzione dell'Accademia del Cimento da lui protetta e sostenuta, ne fu una conseguenza.
L'Accademia, creata nel 1657 per impulso principalmente del principe Leopoldo, ma con l'appoggio e la partecipazione del granduca, che col fratello condivideva un vivo interesse per la ricerca scientifica, fu la prima in Europa a carattere sperimentale, come il suo stesso nome e il celebre motto "provando e riprovando" testimoniano. Purtroppo il Cimento, di cui erano membri tra gli altri Vincenzo Viviani, Gian Paolo Oliva, Lorenzo Magalotti, Carlo Dati e Francesco Redi, si sciolse dopo soli dieci anni; importantissimo comunque fu l'apporto che diede allo sviluppo delle ricerche scienfifiche e a tutta la vita intellettuale toscana, sulla quale richiamò l'interesse di studiosi italiani e stranieri.
Oltre alla protezione accordata al Cimento F. favorì gli studi di fisica e di botanica contribuendo con larghezza all'acquisto di strumenti scientifici e alla raccolta di esemplari rari o nuovi di animali e piante da destinare al museo di storia naturale e agli orti botanici di Firenze e Pisa. Egli stesso studiò le applicazioni pratiche e i perfezionamenti da apportare ad alcuni strumenti scientifici, quali il termometro e l'igrometro; i suoi meriti in questo campo furono ricordati da G. Targioni Tozzetti nelle Notizie degli aggrandimenti delle scienze fisiche.
In campo artistico durante il regno di F. furono realizzati alcuni importanti cicli pittorici: scomparso Giovanni di San Giovanni, che aveva celebrato il matrimonio del Granduca con Vittoria Della Rovere e l'età di Lorenzo il Magnifico, protettore delle Muse, F. chiamò a Firenze, nel 1637, il più importante e innovativo pittore del momento, Pietro da Cortona, la cui pittura barocca pareva la più consona a un'esaltazione visiva della potenza della dinastia medicea. La partenza dell'artista, nel 1647 interruppe la decorazione delle sale di rappresentanza dell'appartamento granducale, portata poi a termine da Ciro Ferri, ma lasciò tracce profonde, per la sua novità, nell'ambiente artistico fiorentino e ne orientò gli sviluppi successivi.
F. arricchì inoltre, come del resto il fratello Leopoldo, finissimo intenditore in campo artistico, le importanti collezioni di quadri, antichità, pietre dure, oreficeria e sculture già iniziate dai suoi predecessori. A queste raccolte si erano già aggiunte quelle provenienti dai duchi di Urbino, di cui la granduchessa Vittoria era l'ultima discendente, che comprendevano tra l'altro la celebre Venere di Tiziano e il ritratto di Giulio II di Raffaello.
F. morì a Firenze il 28 maggio 1670 in seguito all'aggravarsi dell'idropisia di cui soffriva; il funerale, caratterizzato da una solenne fastosità, si celebrò in S. Lorenzo, dove il granduca fu sepolto nella cappella dei principi.
Fonti e Bibl.: Per la storia del Granducato all'epoca di F. numerosi sono i documenti conservati nell'Arch. di Stato di Firenze: nel Mediceo del principato si possono consultare la serie del carteggio universale, ff. 1001-1028, e il nutritissimo carteggio dei segretari, ff. 1387-1520;il Diario di corte di C. Tinghi, Miscellanea Medicea 11, fornisce preziose informazioni sugli anni giovanili di F.; in Depositeria 1522, tra i provvisionati dell'anno 1625, figurano Matteo Neroni, insegnante di cosmografia del granduca, e lo scultore Pietro Tacca; in Trattati internazionali, XXII, il contratto di matrimonio di F. e Vittoria Della Rovere, i cui interessi dotali sono conservati Ibid., XXIII e in Mediceo 6141;cfr. inoltre Trattati internazionali, XXXper la guerra di Castro e Ibid., Appendice 24 e 25per l'acquisto di Pontremoli; le disposizioni normative emanate da F. sono pubblicate in Legislazione toscana, a cura di L. Cantini, XV-XVIII, Firenze 1804-1805. Per la bibliografia cfr. F. Rondinelli, Relazione del contagio stato in Firenze l'anno 1630 e 1633, Firenze 1634;G. Bianchini, Dei granduchi di Toscana protettori delle lettere e delle belle arti, Venezia 1741, pp. 91-115;G. Targioni Tozzetti, Notizie degli aggrandimenti delle scienze fisiche accaduti in Toscana nel corso di anni LX del secolo XVII, I-III, Firenze 1780;R. Galluzzi, Istoria del Granducato di Toscana sotto il governo della casa Medici, VI, Livorno 1781, pp. 1-386; D.Moreni, Pompe funebri celebrate nell'imp. e r. basilica di S. Lorenzo dal sec. XIII a tutto il regno mediceo, Firenze 1827, pp. 257-262;A. Panella, F. de' M. mediatore tra i duchi di Savoia e di Mantova per la questione del Monferrato, Firenze 1917, pp. 1-28;G. Pieraccini, La stirpe dei Medici di Cafaggiolo, Firenze 1924, II, pp. 483-503; G. Menichetti, Firenze e Urbino. Gli ultimi Rovereschi e la corte medicea, Fabriano 1927, pp. 9-100; H. Acton, Gli ultimi Medici, Torino 1962, pp. 9-100; R. Caggese, Firenze dalla decadenza di Roma al Risorgimento d'Italia, III, Firenze s.d., pp. 217-242; E. Cochrane, Florence in the forgotten Centuries 1527-1800, Chicago 1974, pp. 181-228; F. Diaz, IlGranducato di Toscana. I Medici, Torino 1976, pp. 363-463; M. Campbell, Pietro da Cortona at the Pitti Palace, Princeton 1977; Tiziano nelle Gallerie fiorentine, Firenze 1978, pp. 94-97; J.R. Hale, Firenze e i Medici. Storia di una città e di una famiglia, Milano 1980, pp. 227-234; F. Martelli, La Comunità di Pontassieve e i suoi lanaioli, Firenze 1983, pp. 89-95; R. Mazzei, Continuità e crisi nella Toscana di F. II (1621-1670), in Arch. stor. ital., CXLV (1987), pp. 61-79.