FERDINANDO II di Borbone, re delle Due Sicilie
Nacque il 12 genn. 1810 a Palermo, da Francesco, duca di Calabria, e da Maria Isabella, dei Borboni di Spagna, sua seconda moglie, ed ebbe il titolo di duca di Noto.
Dal 1806 i Borboni, costretti da Napoleone ad abbandonare il Mezzogiorno, si erano rifugiati in Sicilia, sotto la protezione della flotta inglese. Essi considerarono un esilio la permanenza nell'isola e, come nel 1799, ne fecero la base per la riconquista delle province continentali, in contrasto con la classe dirigente siciliana, cui premeva che il governo si preoccupasse dei problemi locali. Il dissenso divenne aperto scontro nel 1812. Il re, Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia, fu costretto da W. Bentinck, comandante delle forze inglesi, a concedere una costituzione e a lasciare temporaneamente il potere al figlio Francesco. Per piegare la sua volontà, lord Bentinck minacciò di elevare al trono il piccolo F., proclamando una reggenza. Nel 1815 il re Ferdinando recuperò il Mezzogiorno, riportando la capitale a Napoli. Per mitigare la delusione dei Siciliani, il figlio Francesco restò come luogotenente a Palermo.
F. visse, perciò, in Sicilia fino al 1820. Si trasferì a Napoli alla vigilia della rivoluzione. Col padre, nominato vicario da re Ferdinando (dal 1816 divenuto I come re del Regno delle Due Sicilie), partecipò alle manifestazioni che accompagnarono i momenti salienti del regime costituzionale. Nel marzo 1821, col ripristino dell'assolutismo, Francesco tornò nell'ombra; divenne re alla morte di Ferdinando I, nel 1825. F. assunse allora il titolo di duca di Calabria, che spettava al principe ereditario, e ancora adolescente fu chiamato a compiti impegnativi.
F. era vissuto in una famiglia numerosa (con una sorellastra e dieci tra fratelli e sorelle), in semplicità di vita e di abitudini, molto legato al padre, che ne seguì da vicino l'educazione. In Sicilia era stato affidato a mons. A. Olivieri, poi vescovo di Aretusa, che si trasferì a Napoli nel '20 con Francesco e restò a corte fino alla morte (1834) come apprezzato ed ascoltato istitutore dei principi. Da lui, e poi dal liguorino Celestino Maria Cocle, suo confessore fin dal 1829, F. fu educato ad una religiosità sentita, vissuta con convinzione nelle pratiche del culto, non scevra da amore per le manifestazioni esterne e da una certa superstizione; ad essa si accompagnarono convinzioni morali ispirate ai principi cristiani, seguiti rigidamente.
Studiò seguendo un piano formulato da mons. Olivieri, che andava dal catechismo e dalla storia sacra al latino, a nozioni di aritmetica e di geometria, alla geografia, alla retorica e alla logica, alla storia della Francia e dei re delle due Sicilie, a principi di filosofia e di giurisprudenza. Parlò correntemente varie lingue moderne. Ebbe insegnanti poco noti, anche perché dopo il '21 la monarchia tenne in sospetto gli uomini di cultura, compromessi col regime costituzionale. Studiò con zelo, ma senza interesse, né si formò una cultura personale con letture di sua scelta. Altissimo, robusto, amo invece gli esercizi fisici, e si appassionò a tutti gli aspetti della vita militare.
Intelligente, dotato di memoria straordinaria (ricordava i nomi di tutte le persone conosciute, anche dei soldati), ambizioso, desideroso di ben figurare, F. fu precocemente maturo. Il padre, fisicamente e moralmente provato, ne secondò il desiderio di assumere responsabilità precise. Nel marzo 1826 F. passò per la prima volta ufficialmente in rivista le truppe; con decreto del 29 maggio 1827 fu nominato comandante generale dell'esercito di terra.
Gli Austriaci, venuti nel 1821 per abbattere il regime costituzionale, erano rimasti nel Regno per tutelare l'ordine pubblico. In realtà al cancelliere austriaco K. W. L. Metternich risultava utile mantenere in armi un corpo di spedizione a spese del governo borbonico, che dovette insistere a lungo per ottenerne il ritiro. Le truppe austriache lasciarono nell'aprile 1826 la Sicilia, nel gennaio-febbraio 1827 le province continentali. I Borboni dovevano ora dimostrare di poter mantenere la tranquillità nel paese. Tra il '26 e il '30 arruolarono quattro reggimenti di mercenari svizzeri, devoti alla monarchia, e contemporaneamente cercarono di riordinare l'esercito, formato tra il '15 e il '20 con la fusione dei reparti murattiani e dei legittimisti reduci dalla Sicilia ma scompaginato dalla epurazione seguita alla rivoluzione del 1820.
F., appena diciassettenne, esplicò con autorità e competenza un incarico che per la sua età era sembrato puramente onorifico. Con altri decreti del 29 maggio, da lui ispirati, furono stabiliti nuovi organici per i corpi di fanteria e cavalleria e furono riordinati i comandi; il 13 apr. '28 fu approvato un regolamento che fissava i ruoli di ufficiali e sottufficiali e i criteri di promozione. F. svolse personalmente una intensa attività per rendere efficienti le forze armate: controllò le guarnigioni con continue, improvvise ispezioni, tenne in esercizio le truppe con colonne mobili, manovre, riviste, cercò di rinsaldare la disciplina, di infondere entusiasmo. L'autorevolezza con cui esercitò il comando, la volontà di eliminare gli abusi, lo misero in contrasto col ministro della Guerra, Vincenzo Ruffo principe della Scaletta, accusato di debolezza e clientelismo, che nel giugno del '30 fu sostituito dal generale Giovan Battista Fardella di Torrearsa. Intanto l'efficienza dell'apparato militare era stata provata nel '28 dalla rapida repressione del moto nel Cilento.
Al compimento dei sedici anni F. era stato chiamato a far parte del Consiglio di Stato, l'organo formato dai ministri e dai consiglieri senza portafogli in cui si decidevano le questioni più importanti. Dal settembre 1829 al luglio 1830 fu vicario del Regno, nell'assenza del padre, partito per accompagnare in Spagna la figlia di primo letto Maria Cristina, destinata in moglie a Ferdinando VII, rimasto per la terza volta vedovo e privo di eredi.
F. si mantenne in stretto contatto epistolare col padre, durante il lungo viaggio in Italia, Francia e Spagna, lo informò di tutti gli affari con motivate relazioni, ne seguì le istruzioni. Durante il vicariato ebbe modo di conoscere da vicino i problemi del Regno, di rendersi conto delle condizioni del paese, di fare valutazioni sui provvedimenti più urgenti; soprattutto apprese i meccanismi dell'amministrazione, di cui divenne espertissimo, e poté giudicare la capacità degli uomini che ricoprivano le cariche più importanti.
Francesco I tornò sofferente dal viaggio. Le sue condizioni di - salute si aggravarono rapidamente. Nell'imminenza della morte, avvenuta l'8 nov. 1830, lo Scaletta, il marchese delle Favare, Pietro Ugo, luogotenente in Sicilia, e altri pochi, sapendo di essere malvisti da F., che del resto aveva appena venti anni, si proposero di far riconoscere la regina Isabella tutrice e reggente (P. Calà Ulloa, Ilregno di Francesco I, a cura di R. Moscati, Napoli 1930, pp. 90 s.). F. ne fu informato e prevenne la manovra, assumendo i poteri reali in presenza dei diplomatici esteri, recatisi nella reggia per rendere omaggio al sovrano defunto (Musci, I, p. 452).
F. era stato molto affezionato al padre, e ne aveva seguito fedelmente le direttive nei mesi dei vicariato. Tuttavia non aveva nascosto la sua avversione per l'ambiente corrotto che circondava il trono e che Francesco I aveva tollerato.
La volontà di porre termine all'apatia del regno di Francesco I fu espressa apertamente dal nuovo sovrano. Contemporaneamente all'annunzio della morte del re, il Giornale del Regno delle Due Sicilie pubblicò un proclama di F. dell'8 novembre, in cui si riconosceva l'esistenza di piaghe che da più anni affliggevano il Regno e, tra l'altro, si promettevano provvedimenti per una imparziale amministrazione della giustizia e per un alleviamento delle imposte. Il re volle mostrare la sua personale partecipazione alle difficoltà del paese con l'abolizione delle tenute di caccia e con la riduzione delle spese della corte.
Le economie furono il cardine della politica finanziaria di F.: per eliminare gradualmente il deficit formatosi tra il '21 e il '30, con decreto 11 genn. 1831 apportò riduzioni alla listacivile, agli assegnamenti della Real Casa, al bilancio delle forze armate e dei vari ministeri. Con una serie di ritenute gravanti su stipendi e pensioni degli impiegati statali fu possibile, inoltre, ridurre alla metà il dazio finanziero sul macino, imposto nel Mezzogiorno dal 1º genn. 1827. Con altro decreto dell'11 gennaio fu prescritta per cinque anni una generale diminuzione delle spese dei Comuni meridionali, per permettere la riduzione delle gabelle più gravose alla classe bisognosa.
La prontezza delle decisioni del re aveva alla base l'esperienza pregressa di vicario. Stando di fatto alla testa dello Stato aveva anche influito sulla designazione di nuovi ministri. Nel febbraio del '30 era morto a Madrid Luigi de' Medici, dal '15 principale ispiratore della politica borbonica: la presidenza del Consiglio era stata data ad interim a D. Tommasi, ministro della Giustizia; il ministero degli Esteri al principe di Cassaro A. Statella; le Finanze a C. Caropreso, stretto collaboratore del Medici. Nel giugno F. aveva ottenuto che il Fardella subentrasse allo Scaletta nel ministero della Guerra. Nei primi mesi di regno sostituì il Caropreso col marchese G. D'Andrea, e chiamò agli Interni G. Ceva Grimaldi marchese di Pietracatella. Dei ministri in carica all'inizio del '30 restava solo N. Intonti, alla Polizia.
F. si giovava del miglioramento delle finanze statali seguito alla partenza dell'esercito austriaco. Tuttavia fu suo merito intervenire prontamente in uno dei campi dove era più acuto il malcontento. Le misure prese coi decreti dell'11 gennaio riscossero la generale approvazione. Dati sulla riduzione delle spese comunali e della contemporanea diminuzione delle gabelle furono pubblicati dalla stampa. La popolarità del re fu accentuata dalla sua presenza nelle province del Regno. Dal maggio '31 cominciò una serie di viaggi con i quali prese contatto diretto con le popolazioni. L'attivismo del sovrano stimolava lo zelo dei funzionari, e si ripercuoteva sull'ordine pubblico, che andò progressivamente migliorando.
Meno pronti furono i provvedimenti per la Sicilia. Lo stesso giorno della elevazione al trono il re esonerò dall'incarico il marchese Ugo, implicato nel complotto per la reggenza, e nominò luogotenente il fratello Leopoldo conte di Siracusa, inviando per il momento a Palermo il generale V. Nunziante. Quindi nel preambolo al decreto dell'11 gennaio sulla riduzione del macino giustificò la precedenza data alla parte continentale del'Regno con lo squilibrio nelle finanzeseguito alla rivoluzione del '20 e dichiarò di attendere le proposte che gli avrebbe fatto il fratello da Palermo.
Il malcontento dei Siciliani aveva origini lontane. Ferdinando IV, tornato a Napoli dopo la sconfitta di Murat, aveva unificato in un solo organismo le due parti dei domini borbonici, fino allora unite nella persona del sovrano, prendendo il titolo di Ferdinando I del Regno delle Due Sicilie. Ciò aveva comportato l'abolizione di fatto della costituzione concessa nel 1812 e l'estensione all'isola degli ordinamenti legislativi, amministrativi, finanziari, giudiziari introdotti a Napoli dai Napoleonidi, estranei alla storia della Sicilia, e perciò accolti con ostilità. I Siciliani lamentavano, inoltre, l'insufficiente attenzione del governo centrale ai problemi dell'isola: non erano stati portati a termine i lavori relativi all'eversione della feudalità, avvenuta con criteri diversi da quelli del Mezzogiorno, non era stato posto riparo alla crisi dell'agricoltura, alla insufficienza del commercio per mancanza di strade, alla debolezza delle industrie, alle carenze ed alla corruzione della pubblica amministrazione. Inoltre i Siciliani ritenevano eccessivo l'onere imposto all'isola per le spese comuni dello Stato, desideravano che fossero regolati chiaramente i rapporti tra il Tesoro palermitano e il Tesoro napoletano, denunziavano che il commercio marittimo era sacrificato agli interessi napoletani.
Si sperava in Sicilia che F.provvedesse alle annose questioni con lo stesso dinamismo mostrato nel Mezzogiorno. Perciò la sua prima visita, nel luglio-agosto del '31, suscitò un entusiasmo indescrivibile, cui segui una profonda delusione. perché nessun provvedimento fu preso, né durante la permanenza nell'isola né al ritorno nella capitale. Nel gennaio '31 era stata organizzata a Palermo intorno alla luogotenenza una struttura di governo, con un ministro e due direttori, mirante a rendere più efficienti gli uffici ed a semplificare le relazioni con i ministeri napoletani; nel marzo si era insediato il conte di Siracusa, affiancato dal principe di Campofranco A. Lucchesi Palli, già luogotenente dal 1822 al 1824. Non migliorò l'efficienza dell'amministrazione luogotenenziale, oltre tutto dipendente in tutte le decisioni dai dicasteri napoletani. D'altra parte i ministri, opponendosi alla volontà del re, respinsero ogni idea di concedere una qualche autonomia amministrativa all'isola. Nel marzo '32 le questioni riguardanti la Sicilia furono oggetto di un approfondito dibattito nel Consiglio di Stato. Ancora una volta i ministri si irrigidirono nella difesa della linea politica seguita dal 1815. La propensione del re a tener conto della richiesta di autonomia dei Siciliani non trovò sostenitori, anche per la mancanza di proposte precise da parte del sovrano. Fu ribadita la stretta unità delle due parti del Regno e il rispetto delle istituzioni napoletane.
Per Napoli il problema della Sicilia si riduceva al buon andamento dell'amministrazione. Per facilitare la trattazione degli affari all'inizio del 1833 fu ripristinato il ministero di Sicilia a Napoli, istituito una prima volta nel 1821 e abolito nel 1824. Dal punto di vista dello sveltimento degli affari le cose non migliorarono, né misure di carattere amministrativo potevano soddisfare i Siciliani: l'invio a Palermo di un fratello del re aveva autorizzato l'aspettativa di un fattivo interessamento del monarca. Nel '35 il richiamo del conte di Siracusa, sostituito dal principe di Campofranco, pose fine alle speranze di valorizzazione dei centro governativo di Palermo. Il riavvicinamento tra la monarchia e il paese, tentato senza tener conto delle esigenze prospettate dai Siciliani, si rivelava di difficile attuazione, perché il re non riusciva a stabilire un rapporto di collaborazione né col baronaggio, sempre diffidente, né con la nuova borghesia, di cui non si valutavano le aspettative ed esigenze.
F., incerto nelle decisioni riguardanti la Sicilia, e perciò condizionato dalla contrarietà dei ministri alle riforme, seguì criteri sicuri nel Mezzogiorno. Per rendere governabile lo Stato non gli sembravano sufficienti i provvedimenti popolari di carattere finanziario. Era essenziale riacquistare la fiducia della classe dirigente, ponendo termine alle persecuzioni seguite agli avvenimenti del 1820-21, attenuate di poco con Francesco I. Il recupero degli antichi murattiani avrebbe, tra l'altro, acquisito alla monarchia la collaborazione di uomini preparati, capaci di assicurare l'efficienza desiderata dal re. F. pensava principalmente all'esercito e agli ufficiali mandati in esilio.
L'attenzione alle forze armate fu costante. Nel dicembre '30 furono riordinati i comandi, nel marzo '34 fu regolato il reclutamento, altri provvedimenti furono presi negli anni successivi. Si seguì il modello francese, con un forte numero di soldati professionisti, bene addestrati, cosa che legò le truppe più al sovrano che alla nazione. I corpi specializzati (genio, artiglieria) ebbero meritata fama di capacità.
Il re condusse con fermezza la politica di pacificazione, nonostante le perplessità dei ministri per la situazione internazionale. Il 18 dic. 1830 concesse un indulto ai condannati politici; cessavano, inoltre, le discriminazioni nella ammissione agli impieghi, e si prometteva il richiamo in servizio di funzionari e militari. Il ritorno degli esuli era, tuttavia, sottoposto a condizioni: in un elenco di 297 furono compresi quelli che potevano rientrare senza ulteriori formalità, mentre per altri 225 fu prescritto che dovessero fare domanda per il rientro ed ottenere la personale autorizzazione. Molti si piegarono. Evitò così che gli esuli tornassero in massa, li costrinse ad un atto di sottomissione, mantenne lontano dal Regno quelli che non gli davano affidamento.
F. era salito al trono in un momento critico per l'Europa, mentre perduravano le conseguenze della rivoluzione parigina di luglio. L'apertura ai perseguitati dell'assolutismo, operata mentre si diffondeva la notizia dell'insurrezione di Varsavia, fece pensare ad un allineamento sulle posizioni di Luigi Filippo, legato da vincoli di parentela a F., del quale aveva sposato la zia Maria Amelia. Tra i diplomatici e nell'opinione pubblica italiana si diffuse l'impressione che il giovane re fosse propenso a concessioni liberali. (Ancora nel '34 J.-Ch.-L. Simonde de Sismondi e alcuni circoli di emigrati nutrivano speranze in F.: F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani, Milano 1974, p. 225). A Napoli l'Intonti, ministro della Polizia, credette nel '31 che fosse opportuno spingerlo a riforme di carattere politico. Perciò chiese ai colleghi di dare le dimissioni, per provocare una crisi e giustificare una svolta nelle direttive della monarchia, ma F., informato del tentativo, il 16 febbraio allontanò l'Intonti dal Regno. Nuovo ministro della Polizia fu F. Del Carretto, comandante della, gendarmeria, l'uomo che nel '28 aveva represso spietatamente il moto del Cilento.
Senza tener conto delle interpretazioni che si davano alla sua azione, F. continuò il recupero degli uomini del Decennio. Il 30 maggio concesse piena libertà ai promotori della rivoluzione del '20 e permise il ritorno ad un altro numeroso gruppo di esiliati per ragioni politiche. Furono riammessi in servizio molti tra gli ufficiali sospesi o rientrati, tra cui C. Filangieri e F. Pepe. Conseguendo la pacificazione interna, F. intendeva chiudere un ciclo, piuttosto che aprime un altro.
Non pensava a riforme di alcun genere, tanto meno alla concessione di una costituzione, che, a suo avviso, avrebbe solo incoraggiato eccessi e disordini. Neanche valorizzò le istituzioni consultive già esistenti (Consigli provinciali e Consulte), ridotte ad organi amministrativi, anzi perfezionò gli strumenti di una direzione paternalistica della politica interna ed estera. Con decreto dell'11 genn. 1831 istituì una segreteria particolare dipendente direttamente da lui, con un segretario, che riuniva "le attribuzioni ed i doveri" di segretario del Consiglio di Stato ed era in corrispondenza con i ministri. L'ufficio era articolato in vari rami, con un certo numero di impiegati, scelti dai vari ministeri dal re, che esercitava così uno stretto controllo di tutti i settori dell'amministrazione e attraverso la segreteria manteneva relazioni dirette con autorità civili e religiose, scavalcando i ministeri. Per un decennio la carica fu tenuta dall'abate G. Caprioli, che esercitò grande influenza sul sovrano.
Provvedendo alla tranquillità ed alla prosperità del paese, F. contava di preservarlo dai sommovimenti politici che turbavano l'Europa. Memore dei danni dell'occupazione austriaca, desiderava evitare che l'Austria trovasse occasione per estendere la sua influenza nella penisola, o che l'Italia diventasse terreno di scontro tra le grandi potenze, come avvenne nel '32 con l'occupazione austriaca di Bologna e quella francese di Ancona, durate fino al '38.
Nel '31 aveva offerto al papa il suo aiuto per ripristinare l'ordine nelle Legazioni, e lo offrì di nuovo nel '32, dopo l'intervento francese ad Ancona. Nel '33 avanzò al pontefice e a Carlo Alberto la proposta di una lega tra gli Stati italiani che arginasse l'ingerenza straniera: F. era mosso non da simpatia per i regimi liberali, come temeva l'Austria, ma dal desiderio di tutelare l'indipendenza del Regno. Che il suo posto stesse tra le monarchie assolute lo dimostrò nel 1834. Sul trono di Spagna, in deroga alla legge salica, era salita Isabella II, nata dal matrimonio di Ferdinando VII con Maria Cristina sorella di F.: questi si schierò col pretendente don Carlos, considerato il legittimo crede, e fece pressioni per un intervento delle potenze conservatrici in suo favore. I rapporti con l'Austria migliorarono, e si rinsaldarono poi con legami familiari.
Il problema del matrimonio di F. era stato posto concretamente nel 1829. Francesco I e Maria Isabella, mossi da considerazioni politiche, avrebbero voluto che il figlio sposasse la cugina Maria Luisa d'Orléans, ed avevano messo l'accordo per le nozze tra gli scopi del viaggio del 1829-30. Ma F. rifiutò la scelta dei genitori, rivendicando fermamente il diritto a scegliere la compagna della vita. Questi progettarono, quindi, un duplice matrimonio, di F. con Matilde di Baviera (vista da lui con una certa simpatia), e della figlia Antonietta col principe ereditario Massimiliano di Baviera. L'ipotesi cadde perché il re di Baviera non acconsentì al secondo matrimonio. F., da parte sua, aveva da tempo manifestato una decisa inclinazione per Maria Cristina di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele I. Le trattative, iniziate ufficialmente nel 1830, andarono per le lunghe, e si conclusero positivamente solo nell'ottobre del 1832.
F. sposò Maria Cristina di Savoia il 21 nov. 1832. La regina il 16 genn. 1836 ebbe un figlio, Francesco; ammalatasi, morì il 31 seguente. Già nel maggio la sorella Luisa Carlotta, maritata all'infante di Spagna Francesco di Paola, avanzava la candidatura della figlia Isabella. Ma F., colpito dall'inattesa perdita ed amareggiato per le nozze del fratello Carlo, principe di Capua, con l'inglese Penelope Smith, celebrate nonostante il suo divieto, nella primavera del '36 si allontanò da Napoli per un periodo di riposo. In Austria conobbe Maria Teresa d'Asburgo, figlia dell'arciduca Carlo, e la sposò a Trento il 9 genn. 1837. Da lei ebbe dodici figli.
In politica estera suo principio fu evitare ogni occasione di dipendenza dallo straniero; diffidò della protezione austriaca, cercò di non legarsi in alleanze impegnative. A suo avviso il Regno, chiuso dal mare e dallo Stato pontificio, poteva essere tenuto lontano dai conflitti europei. Questa convinzione lo portò ad un isolamento che non giovò alla monarchia, trovatasi senza appoggio nei momenti difficili.
In realtà F. era dei tutto incapace di comprendere i grandi movimenti culturali che portavano in Europa ad ideali liberali e nazionali. Il suo orizzonte politico era limitato alle Due Sicilie: non ebbe sogni di espansione, non credette all'unità, anche federale, dell'Italia, che avrebbe in ogni caso compromesso la sua autonomia nella direzione dello Stato, trasformata in governo personale.
La diffidenza verso gli ideali liberali lo portò in politica interna a deludere le speranze della borghesia. Aveva inteso la pacificazione degli animi dopo la reazione succeduta al '20 nel senso ristretto del perdono e della riabilitazione personale dei compromessi del regime costituzionale. La classe dirigente auspicava, invece, la fine di quell'"isolamento del potere dalla società", che L. Blanch aveva visto come una delle principali cause della rivoluzione del '20. Si desiderava che si desse nuova vita alle Consulte ed ai Consigli provinciali, distrettuali e comunali. Si sperava che le buone disposizioni manifestate dal sovrano all'inizio del regno dessero luogo a decisioni coraggiose sui grossi problemi dell'economia meridionale, divenuti urgenti in relazione al diffondersi della rivoluzione industriale in Europa. Negli anni Trenta si svolse un articolato dibattito e fu avanzato un ventaglio di proposte. Con le tariffe del 1823-24 il Medici aveva avviato una politica protezionistica che stava dando i suoi frutti. Si trattava, ora, per gli economisti meridionali, di uscire dal compromesso tra uno sviluppo di tipo agrario ed uno manifatturiero, scegliendo decisamente quale dei due si voleva privilegiare con provvedimenti adeguati.
F. in economia non aveva larghe vedute, ne aveva in mente ulteriori provvedimenti, come si era supposto dopo quelli del gennaio '31. Privo di vera cultura e di intuito politico, non vedeva la necessità di staccarsi dai criteri stabiliti dal Medici di tenere basse le imposte e mirare al pareggio del bilancio. Eccessivamente fiducioso nella sua intelligenza, deciso a non dividere il potere con una personalità di rilievo, si circondò di collaboratori mediocri, poco disposti alle innovazioni. Tali furono G. D'Andrea e F. Ferri, formatisi durante l'antico regime, che si susseguirono alle Finanze dal '31 al '47. Provvedimenti del tipo di quelli auspicati dagli economisti negli anni Trenta furono anche presi, ma tardi ed isolatamente, fuori del significativo contesto in cui erano stati inquadrati per definire il ruolo del Regno nella trasformazione in atto in Europa.
Appena furono chiari i limiti del nuovo corso instaurato da F. ricominciarono le cospirazioni. Il re evitò di riprendere il sistema della dura repressione; solo per una sommossa avvenuta a Palermo nel settembre '31 furono comminate ed eseguite undici condanne a morte. Negli altri casi F. preferì diminuire le pene, anche per mostrare all'Europa la saldezza del trono. D'altra parte non ci fu un'organizzazione settaria paragonabile alla carboneria. Né Mazzini, dall'esterno., né B. Musolino con I figliuoli della Giovane Italia o altri cospiratori nell'interno riuscirono a creare una rete pericolosa. La tolleranza del governo permise alla borghesia un lavoro di rinnovamento culturale. Riconoscendo l'importanza dell'opinione pubblica, il ministro dell'Interno N. Santangelo dal 1833 fece pubblicare una rivista, gli Annali del Regno delle Due Sicilie, in cui era illustrata l'opera svolta in tutti i rami della pubblica amministrazione.
Ma la classe dirigente non voleva soltanto essere informata. Il ritorno dall'esilio di uomini reduci dall'Inghilterra, dal Belgio, dalla Toscana, aveva ricollegato Napoli con le più vivaci correnti del pensiero politico europeo. Le conseguenze dell'an-inistia andavano al di là delle previsioni del re, perché ridavano al moto riformistico capi autorevoli. La prassi paternalistica di F., che svuotava anche le poche istituzioni consultive esistenti, si scontrava con le esigenze di partecipazione alla vita dello Stato della rinnovata classe dirigente.
All'inizio del '36 il re era ancora sicuro della bontà dei criteri adottati, tanto che il 16 gennaio, in occasione della nascita dell'erede, concesse il rimpatrio ad un altro gruppo di esiliati politici. La fine dell'iniziale apertura si ebbe nell'anno successivo. Un'epidemia di colera, attraversando l'Europa, nel 1835 attaccò l'Italia, nel '36 raggiunse il Mezzogiorno, e si diffuse nel '37 in tutto il Regno. Per la credenza che la malattia fosse dovuta a veleni sparsi dal governo nacquero tumulti, di cui cercarono di profittare i liberali. Nell'estate '37 gravi disordini avvennero a Penne (negli Abruzzi) e in Calabria. A Siracusa e a Catania la rivolta assunse ampie proporzioni e fu proclamata l'indipendenza della Sicilia da Napoli: si incaricò della repressione il ministro Del Carretto. Molte condanne a morte furono eseguite sia in Calabria sia in Sicilia. Deluso dai risultati di quelle che riteneva concessioni alle esigenze dell'isola, F. decise perciò di abolire la relativa autonomia data tra il '31 e il '33.
Furono soppressi il ministero istituito a Palermo presso il luogotenente e il ministero di Sicilia a Napoli; per accrescere il controllo governativo furono nominati sottintendenti nei distretti; furono estese alla Sicilia le leggi napoletane sull'ordinamento comunale e provinciale e sul contenzioso amministrativo. Il provvedimento più grave fu la completa promiscuità tra gli impiegati statali delle due parti del Regno: un gran numero di magistrati e funzionari meridionali fu trasferito nell'isola per realizzare definitivamente l'assimilazione della Sicilia a Napoli.
F. si recò nell'isola negli ultimi mesi del '38, e prese una serie di provvedimenti intesi a risolvere annosi problemi, riguardanti, tra l'altro, le pendenze dell'eversione della feudalità e la rettifica del catasto; fu decretata la diminuzione del dazio sul macinato, con modalità di esazione meno gravose, e la sollecita costruzione di strade comunali e provinciali. Altri decreti del dicembre '41 accelerarono la ripartizione delle terre demaniali e comunali.
Nell'autunno '39 F. cercò di risollevare l'economia siciliana dando alla compagnia francese Taix e Aycard la concessione della privativa sugli zolfi, allora estratti quasi esclusivamente nell'isola e largamente esportati: lo scopo era quello di imporre agli acquirenti un prezzo remunerativo per i produttori. Ciò ledeva gli interessi dei commercianti inglesi, che ottennero la rescissione del contratto mediante un'azione di forza del proprio governo. In un primo tempo F. aveva resistito alle intimidazioni, poi, quando l'Inghilterra aveva cominciato a sequestrare le navi napoletane, aveva sperato, invano, nell'intervento di Austria e Prussia; infine era stato costretto a ricorrere alla mediazione di Luigi Filippo. Dopo lo scacco del '40 F. accentuò il suo isolamento. Migliorarono i rapporti con la Francia; all'influenza francese si dovette nel '43, col riconoscimento di Isabella II di Spagna, il progetto di farle sposare il conte di Trapani, Francesco di Paola, fratello di F., progetto fallito dopo tre anni di trattative. La nuova delusione risospinse verso l'Austria il re, preoccupato per la situazione determinatasi in Italia dopo l'elezione di Pio IX.
Ai modesti risultati conseguiti in Sicilia corrispondeva nel Mezzogiorno la rinunzia agli aspetti innovatori dei provvedimenti del '31. Nel 1838 furono abolite in gran parte le riduzioni apportate ai bilanci comunali, che avevano avuto ripercussioni negative sul funzionamento della burocrazia, sulla istruzione elementare, sulla difesa del territorio; quindi furono riportati agli antichi livelli le gabelle gravanti sulle classi più povere. Fu, però, raggiunto nel 1845 il pareggio del bilancio statale. Fu possibile conservare la riduzione del dazio finanziero sul macino decretata nel '31; le ritenute sugli stipendi e sulle pensioni cessarono rispettivamente nel '36 e nel '42.
Le migliorate condizioni delle finanze non comportarono un adeguato sviluppo degli stanziamenti per le opere pubbliche. F. continuò a dare la precedenza alle spese per l'esercito, che costava oltre 7.000.000 di ducati l'anno, mentre l'introito complessivo del bilancio fu di 26.000.000 di ducati nel 1835, e negli anni '37-44 Oscillò tra i 27 e i 29.000.000 di ducati. La marina militare, rafforzata dopo lo smacco subito dall'Inghilterra, fu dotata anche di navi a vapore, e assorbì tra il '41 ed il '46 oltre 16.500.000 ducati. Molto inferiori (poco più di 2.500.000 di ducati) furono le somme erogate per le ferrovie. Il Regno borbonico ebbe il vanto della prima strada ferrata italiana, la Napoli-Portici, tronco iniziale della linea Napoli-Castellammare, inaugurato il 3 ott. 1839.
La linea, indirizzata al centro industriale di Castellammare ed a Nocera, verso la ricca provincia di Salerno, era stata data in concessione a privati. F. non favorì un'ulteriore espansione dell'iniziativa privata, che comportava la garanzia del governo sul rendimento dei capitali investiti, anche perché il Mezzogiorno per la povertà della sua economia non assicurava utili remunerativi sulla gestione delle ferrovie. Favorì invece l'iniziativa pubblica, e diresse personalmente tra il 1840 ed il 1843 la costruzione della Napoli-Caserta, un tronco di importanza politico-strategica perché andava verso la fortezza di Capua e verso il confine con lo Stato pontificio. Nel complesso la rete ferroviaria si estese solo intorno alla capitale, in una zona già servita da buone strade, e furono lasciate cadere le richieste di linee rivolte a collegare la capitale con i centri più importanti del paese. Nessuna linea ferroviaria fu costruita in Sicilia. Nel complesso nel '60 le ferrovie del Regno avevano uno sviluppo di 100 chilometri, contro i 1.800 dell'intera penisola.
Negli anni Trenta si stavano manifestando gli effetti positivi delle tariffe protezionistiche introdotte dal Medici nel 1823-24. Aumentarono la lavorazione e l'esportazione della seta, progredirono le manifatture della lana nella valle del Liri e del cotone nel Salernitano, le industrie della carta, dei colori, del cuoio. Lo sviluppo dell'industria meccanica più che dall'iniziativa dei privati fu determinato dall'intervento diretto dello Stato, sia per necessità militari, sia per ragioni di prestigio: a queste fu dovuto il grande opificio di Pietrarsa.
Per la diminuzione dei prezzi sul mercato internazionale, la protezione alle industrie napoletane era diventata eccessiva. Con decreti del '42, '45 e '46 il re ridusse i dazi di importazione, e nel '45 stipulò trattati commerciali con Inghilterra e Francia. I risultati conseguiti dal governo nel pareggio dei bilancio e nello sviluppo dell'economia non erano comunque tali da soddisfare le aspettative del paese. La modernizzazione aveva interessato solo aree ristrette. La borghesia meridionale continuava ad auspicare istituzioni consultive, che le permettessero di far valere le sue esigenze, e la classe dirigente siciliana lamentava che l'isola fosse trattata da Napoli come una colonia. Si susseguirono cospirazioni e tentativi di insurrezione.
Si cominciarono a stabilire accordi tra liberali meridionali e siciliani. L'episodio più notevole fu lo sbarco in Calabria dei fratelli Bandiera nel 1844.
I Bandiera, catturati con i loro compagni dopo uno scontro a fuoco, furono giudicati a Cosenza da un tribunale militare, che comminò diciassette condanne a morte. F., convinto della necessità di dare un severo esempio, ordinò l'esecuzione di nove, facendo il gioco dell'Austria. Egli, che nel '31 era stato esaltato come il "Novello Tito" per la clemenza verso gli esuli e la preoccupazione per i diseredati, cominciava ad apparire un tiranno.
Negli anni Quaranta la diffusione della cultura liberale fu ostacolata con un controllo più stretto della stampa e della scuola. Fu respinto il progetto di una generale riforma dell'istruzione, proposto da mons. Mazzetti. Secondo il convincimento che solo l'insegnamento impartito dal clero potesse formare i sudditi obbedienti desiderati dall'assolutismo, con decreto del io genn. 1843 fu affidata ai vescovi delle varie diocesi l'esclusiva direzione dell'insegnamento nelle scuole primarie, con la nomina dei maestri e la normativa didattica.
Nel '45, temendo di perdere del tutto il favore dell'opinione pubblica italiana, F. permise che si tenesse a Napoli il settimo congresso degli scienziati. In realtà egli era avverso al movimento avviato dalle idee giobertiane per una cooperazione tra i principi e per la concessione di istituzioni consultive, e non riteneva che un papa potesse essere favorevole ai mutamenti proposti. Nel conclave tenuto alla morte di Gregorio XVI ordinò al suo ambasciatore a Roma "di non prendere alcuna parte sia diretta che indiretta all'elezione del nuovo papa, non avendo egli predilizione per nessuno dei cardinali esistenti..." (istruzioni a G. C. Ludolf del giugno 1846, in I. Arcuno, IlRegno delle Due Sicilie nei rapporti con lo Stato pontificio (1846-1850), Napoli 1933, pp. 4 ss.). La gelosa tutela della propria indipendenza e la radicata convinzione dei disordini che avrebbe provocato una attenuazione dell'assolutismo lo indussero a non seguire l'esempio del papa, da lui devotamente rispettato come capo della Cristianità, senza che però questo comportasse un cedimento nel campo politico.
Il re mantenne rapporti epistolari diretti con Gregorio XVI e con Pio IX, ai quali manifestò ubbidienza e attaccamento; trattò direttamente con loro molte questioni riguardanti la Chiesa meridionale, ma tenne fermi i diritti della monarchia nel Mezzogiorno ed in Sicilia, rivendicò il possesso di Benevento e Pontecorvo e la restituzione di Castro e Ronciglione come eredità dei Farnese (una formale protesta in proposito è del 10 ag. 1837, e si tornò sulla questione nel 1852-53). Dal canto loro i papi continuarono a lamentare ogni anno, alla vigilia dei Ss. Apostoli, il mancato ossequio della chinea. Quest'ultimo problema fu risolto nel 1856: la S. Sede rinunziò alle antiche pretese di vassallaggio, e F. offrì, una tantum, una somma di 8.000 onze, da destinare alla erezione in Roma di un monumento in gloria del dogma dell'Immacolata Concezione.
In contrasto col moto generale, trovatosi in linea solo col Lombardo-Veneto, F. ricorse a misure di polizia per impedire che nel Regno si diffondessero le notizie delle riforme concesse dagli altri principi. Era convinto di avere già ordinato lo Stato così come ora si richiedeva, con codici, due Consulte, Consigli provinciali e comunali. In realtà le istituzioni consultive esistenti nel Regno erano state svuotate di ogni contenuto. Già nel settembre '46 il marchese di Pietracatella, presidente del Consiglio dei ministri, aveva invitato il re a ridare autorità alle Consulte, a rendere effettive ed ampliare le attribuzioni dei Consigli provinciali, a venire incontro alle richieste dei Siciliani, a concedere una certa libertà di stampa.
F. respinse ogni sollecitazione. Il 26 ag. 1847 in un lungo articolo del Giornale officiale fece sostenere le sue ragioni. Il malcontento per un immobilismo contrastante col rinnovamento in corso in Italia, espresso dalla Protesta del Settembrini e, nel settembre '47, dai moti di Messina e Reggio, lo indusse però a prendere qualche iniziativa.
Per mostrare la sua sollecitudine, viaggiò per le province e nell'estate tornò in Sicilia. Quindi, con un atto sovrano del 13 ag. '47 si riallacciò ai provvedimenti dei primi mesi del regno; elencò i risultati ottenuti nell'eliminazione del deficit del bilancio statale, gli sgravi fiscali concessi sia a Napoli sia in Sicilia, la riduzione dei dazi doganali intesi ad accrescere il commercio, e annunziò che dal 1º genn. '48 nel Mezzogiorno sarebbe stato totalmente abolito il dazio finanziero sul macino (ridotto del 50% nel '31), che il dazio sul macinato imposto dai Comuni non avrebbe potuto superare il carlino a tomolo, che sarebbe stato abolito il metodo di transazione (causa di ingiustizie nella distribuzione del carico fiscale nei Comuni), che sarebbe stato ridotto di un terzo il dazio sul sale, che per la Sicilia il totale del dazio sul macino sarebbe stato diminuito di 300.000 ducati. 1 provvedimenti, né ampi né immediati, rimanevano nell'ambito del paternalismo e non potevano soddisfare la classe dirigente, che, tra l'altro, vedeva già operante a Roma e in Toscana la libertà di stampa.
Forse indotto anche dall'esempio di Carlo Alberto, che, pur cercando di non farsi travolgere dalle pressioni dei liberali, nell'ottobre '47 aveva licenziato due dei ministri giudicati reazionari, aveva modificato la distribuzione delle competenze tra i ministeri e aveva decretato alcune limitate riforme comprendenti l'attenuazione della censura sulla stampa, F. nel novembre successivo sostituì i ministri delle Finanze e dell'Interno ed istituì i nuovi dicasteri dei Lavori pubblici e di Agricoltura e Commercio, al quale fu aggregata la Pubblica Istruzione. Erano pur sempre misure di carattere amministrativo, anche perché i nuovi ministri erano magistrati e funzionari senza personalità politica.
I liberali continuarono le loro pressioni seguendo la via delle manifestazioni pacifiche, sia a Napoli sia in Sicilia, e della pubblicazione di opuscoli. L'ostinazione di F., che respinse l'invito ad aderire alla Lega doganale stipulata il 3 nov. 1847 tra il papa, la Toscana ed il Piemonte, adducendo come pretesto il danno che sarebbe potuto derivare all'economia del Regno, preoccupava i liberali italiani. Il 21 dicembre il giornale torinese Il Risorgimento gli rivolse un indirizzo, esortandolo ad allinearsi ai principi riformatori, e il 31 dicembre gli rivolse lo stesso invito A. Montanari, direttore del Felsineo di Bologna, presentatogli da N. Nisco.
Tra i liberali (alcuni loro esponenti erano stati arrestati in settembre) a Napoli e in Sicilia si faceva strada la convinzione che fosse necessario ricorrere alla forza. La rivolta scoppiò a Palermo il 12 genn. 1848. In pochi giorni gli insorti si impadronirono della città e, nei mesi successivi, di tutta l'isola, tranne la cittadella di Messina, rimasta in mano ai Borbonici. F. cercò di placare la rivolta richiamandosi ancora una volta ai criteri dei primi anni del regno.
Il 18 gennaio nominò luogotenente in Sicilia il fratello Luigi conte di Aquila, coadiuvato da un ministro (di nuovo il principe di Campofranco) e da tre direttori, richiamò in vigore le leggi dell'8 e 11 dic. 1816, per far godere "tutti i vantaggi di una amministrazione distinta e separata da quella di Napoli", abrogando la legge del '37 per la promiscuità di cariche e impieghi e promettendo di riservare ai soli siciliani tutte le cariche in Sicilia. Seguendo tardivamente i consigli del Pietracatella, ampliò le prerogative delle Consulte di Napoli e Sicilia e dei Consigli provinciali, e promise maggiore autonomia alle amministrazioni comunali. Il 19 furono modificati i criteri della censura sulla stampa.
Intanto si era ribellato il Cilento. Preoccupato dalla piega degli avvenimenti, il 23 gennaio accordò la grazia a tutti i condannati e detenuti per cause politiche, e il 26 licenziò ed espulse dal Regno il Del Carretto (sospettato di voler attuare un colpo di Stato simile a quello ideato nel '31 dall'Intonti), abolì il ministero della Polizia ed allontanò il suo confessore, mons. Cocle, ritenuto, con Del Carretto, ispiratore della politica reazionaria.
La via dei ritocchi ad un sistema che restava imperniato sull'assolutismo e della sostituzione di alcuni degli uomini più invisi si dimostrò impraticabile. Il fermento contro l'assolutismo si accrebbe. Il re si trovò isolato. Non poteva contare sull'aiuto armato dell'Austria per l'impossibilità di far passare un corpo di spedizione attraverso lo Stato pontificio o di trasportarlo via mare, mentre il 27 gennaio i generali gli dichiaravano per iscritto che non si poteva fare affidamento sull'esercito per soffocare eventuali disordini. Allora decise di abbandonare le misure interlocutorie e di concedere la costituzione, sopravanzando i sovrani riformatori. Il ministero presieduto dal Pietracatella si dimise; il nuovo presidente del Consiglio, Nicola Maresca duca di Serracapriola, si circondò di uomini non molto qualificati politicamente. Il 29 il re emanò l'atto sovrano con cui concedeva la costituzione, fissandone le basi. Questa, promulgata il 10 febbraio, fu redatta da F. P. Bozzelli, uno degli esifiati ammessi al ritorno nel '36, che era stato chiamato agli Interni il 30gennaio. Se con queste iniziative F. acquistava enorme simpatia in tutta Italia, la rapidità della sua conversione teneva però in sospetto i liberali napoletani, e sulla stampa, non più imbavagliata, si aprì un serrato dibattito politico, che poneva in discussione la stessa costituzione da poco concessa e le direttWe politiche del governo.
La costituzione, ispirata a quella francese del 30, prevedeva una Camera dei pari di nomina regia ed una Camera dei deputati eletta in base al censo, che dalla legge elettorale del 29 febbraio era fissato ad un livello molto alto per elettori ed eleggibili. Era evidente la preoccupazione di mantenere la direzione dello Stato nelle mani del sovrano e dei moderati, ma in questo modo si escludeva dalla vita politica gran parte della borghesia. Perciò ci fu una vivace campagna di stampa per l'abolizione della paria e per l'abbassamento del censo elettorale.
In realtà il ricordo dell'ambigua condotta di Ferdinando I nel '20-'21 rendeva diffidenti i liberali, che d'altra parte, divisi tra loro, non erano in grado di esprimere un orientamento preciso sui problemi da affrontare, mentre il ministero, formato da uomini che non rappresentavano le forze promotrici della rivoluzione, non aveva l'autorità necessaria per guidare il paese in un momento tanto delicato.In Sicilia la rivoluzione era continuata dopo la concessione della costituzione. A Palermo si era formato un governo provvisorio, che aveva chiesto il ripristino della costituzione del '12 e riservava al futuro Parlamento siciliano il compito di indicare i legami da stabilire con Napoli nell'ambito di una costituenda federazione italiana. Il ministero Serracapriola non aveva molte possibilità di scelta sulla via da seguire, perché la prova di forza era fallita, né si poteva pensare ad una nuova azione repressiva, dato che l'isola si era stretta tutta intorno a Palermo e l'opinione pubblica napoletana nella sua parte liberale appariva, al momento, favorevole all'autonomia.
In queste circostanze, e in una situazione europea caratterizzata dall'indebolimento delle potenze conservatrici, il governo napoletano chiese la mediazione anglo-francese per risolvere pacificamente la contesa; quasi contemporaneamente Palermo chiese l'intervento dell'Inghilterra. I mediatori si scontrarono con l'intransigenza dei Siciliani, che volevano l'assoluta separazione da Napoli e rifiutavano il ritorno delle guamigioni napoletane. Non potendo accettare tali richieste, il ministero il 2 marzo diede le dimissioni. Il sovrano diede a Gennaro Spinelli Barile principe di Cariati l'incarico di formare un nuovo ministero, ma questi, di fronte alla crisi aperta in Europa dalla insurrezione parigina del 28 febbraio, consigliò al re di chiudere al più presto la crisi, con un rimpasto. Così fu fatto. In base alle proposte del secondo ministero Serracapriola, rafforzato dall'ingresso di Carlo Poerio, Giacomo Savarese ed Aurelio Saliceti, il re il 6 marzo decretò che presso il luogotenente in Sicilia vi sarebbe stato un Consiglio composto da tre ministri e assistito da un segretario; nominò luogotenente Ruggero Settimo e ministri tre membri del governo rivoluzionario; ristabilì il ministero di Sicilia a Napoli; ricalcando decisioni gia prese dal governo siciliano, convocò per il 25 marzo il Parlamento a Palermo "per adattare ai tempi e alle politiche convenienze la costituzione del 1812"; diede istruzioni per la formazione delle Camere; dichiarò che i due Parlamenti di Napoli e Palermo si sarebbero messi d'accordo su tutto ciò che poteva riguardare interessi comuni.
Le concessioni, il massimo a cui poteva giungere il governo napoletano, furono respinte dai Siciliani. Le loro controproposte, comportanti una separazione totale tra le due parti del Regno, non poterono essere accettate da Napoli, ed anche i liberali che prima del '48 avevano cospirato con i Siciliani li accusarono di municipalismo.
I Siciliani erano rafforzati nella loro intransigenza dal nuovo impulso dato al moto nazionale dalle insurrezioni di Milano e Venezia e dall'inizio della prima guerra d'indipendenza. A fine marzo a Napoli ci furono manifestazioni popolari contro l'Austria, e Gabriele Pepe chiese al re l'immediato intervento in Lombardia.
F. non era favorevole ad una guerra contro l'Austria, tradizionale alleato, combattuta lontano dal Mezzogiorno, senza la prospettiva di vantaggi per il Regno, e le sue perplessità erano condivise da molti. Per i liberali, invece, la partecipazione alla guerra nazionale avrebbe rafforzato il regime costituzionale, eliminando il pericolo costituito dalla preponderanza austriaca nella penisola. F., che aveva aderito alla proposta di una lega degli Stati costituzionali avanzata in febbraio dalla Toscana, il 15 marzo propose la convocazione di un congresso a Roma per definire le clausole della lega, cercando ora in Italia, soprattutto per la questione siciliana, quell'appoggio che non poteva più trovare nell'Austria.
Il governo napoletano dovette permettere l'arruolamento e la partenza di volontari. Alla fine di marzo il ministero Serracapriola, non in grado di affrontare le difficoltà dell'ora, si dimise.
Il sovrano diede l'incarico prima al vecchio generale F. Pignatelli, comandante della guardia nazionale, garante della libertà costituzionale, poi a Guglielmo Pepe, il quale presentò un programma molto avanzato, formulato da A. Saliceti - e appassionatamente discusso -, che tra l'altro contemplava la sospensione della nomina dei pari e la revisione della costituzione ad opera della Camera dei deputati. Il re rispose che non era in suo potere modificare la costituzione da poco giurata. In realtà il sovrano non voleva che fosse alterato il sistema bicamerale, garanzia di equilibrio e di moderazione.
F., sottoposto alle pressioni dell'opinione pubblica, risolse la crisi rivolgendosi a C. Troya. Questi formò il ministero con un programma di compromesso: si abbassava il censo elettorale passivo; si autorizzavano gli elettori a presentare elenchi nei quali il re avrebbe scelto i pari; si prometteva che, aperto il Parlamento, "i tre poteri" avrebbero avuto facoltà "di svolgere e fecondare lo statuto", massimamente per la Camera dei pari. Si decise anche la partecipazione alla guerra. Il re, capo delle forze armate, ordinò il richiamo della riserva, la partenza di un primo reggimento, l'inizio dei preparativi per la partenza di un corpo di spedizione, ed invitò tutti a concorrere all'organizzazione dell'armata, regalando venti cavalli.
Il 7 aprile dichiarava in un proclama di condividere l'interesse per la causa italiana e di essere deciso a contribuire alla vittoria con tutte le forze disponibili, considerando "corne esistente di fatto la lega italiana..., benché non ancora formata con certi ed invariabili patti". Questo fu il punto di maggiore attrito tra F. e i fautori dell'intervento. Carlo Alberto aveva inviato a Napoli il conte F. Rignon, chiedendo che le trattative per la lega fossero rimandate alla fine della guerra e che per il momento si pensasse a dargli aiuti militari. Nell'aprile la delegazione napoletana mandata a Roma non concluse nulla, perché il granduca di Toscana e il papa, nell'assenza dei rappresentanti piemontesi, avevano ritenuto inutile dare inizio ai lavori. Allora il governo napoletano, vedendo l'ambiguità della politica di Carlo Alberto, propose che la lega si stringesse tra Roma, Firenze e Napoli, per evitare che il Piemonte prendesse il sopravvento. Poi l'allocuzione papale del 29 aprile mutò le prospettive, e il ministero Troya fece rientrare la missione da Roma.
Il 18 apr. 1848, e seguente ballottaggio del 30, furono tenute le elezioni dei 164 deputati, e con decreto del 13 maggio F. nominò cinquanta pari, scegliendo nelle liste formate dagli elettori uomini di grande prestigio. In vista della seduta inaugurale, fissata per il 15 maggio, i deputati affluirono nella capitale, insieme con gruppi di elettori desiderosi di assistere ai lavori del Parlamento. Il governo però solo il 13 maggio fece conoscere il programma della seduta inaugurale, in cui era previsto il giuramento della costituzione, e questo fatto causò sospetti, agitazioni di deputati, scontri pubblici con l'esercito, minando il rapporto di fiducia verso il sovrano e del sovrano.
Il ritardo nella pubblicazione del programma, che poteva preludere al rifiuto dello "svolgimento" promesso dal ministero Troya, allarmò i deputati, riunitisi in gran numero proprio il giorno 13 in una sala offerta dal Municipio per iniziativa di F. P. Ruggiero. In effetti la formula del giuramento era quella adottata dal re il 24 febbraio, di "osservare e fare osservare inviolabilmente" la costituzione.
F. non acconsentì al rinvio del giuramento, proposto dal Troya come misura interlocutoria, ritenendolo un cedimento. Il 14, in una nuova riunione informale di un centinaio di deputati, si trovò l'accordo su una formula che contemplava il giuramento "con tutte le riforme e le modificazioni che verranno stabilite dalla rappresentanza nazionale, massimamente per ciò che riguarda la paria". F. respinse questa formula, che delegava al Parlamento il potere costituente, e fece sapere che acconsentiva solo ad aggiungere alla formula del 24 febbraio la clausola: "Salvo le leggi di svolgimento che i tre poteri stimeranno sanzionare in proposito" - In tal modo ristabiliva la sua presenza tra i poteri costituenti accanto alle due Camere, e, parlando di "leggi di svolgimento", spostava il riferimento alle leggi che dovevano integrare la costituzione. Il ministero si dimise, ritenendo di non poter svolgere opera di mediazione. Problemi del genere non si erano presentati a Torino, dove i lavori del Parlamento erano stati aperti l'8 maggio da Carlo Alberto.
Preoccupato per l'agitazione che regnava nella capitale, F. cercò di ristabilire il dialogo con i deputati. Convocò a corte alcune persone di sua fiducia, tra cui il Bozzelli, e ricevette il direttore generale delle Gabelle, Maurizio Dupont, inviato dal ministero che si era reso conto dell'errore commesso lasciando isolato il re e proponeva un'altra formula di compromesso. Quindi, dopo ulteriori consultazioni nell'ambito della corte, modificò il punto controverso, scrivendo di suo pugno: "Salvo tutto ciò che sarà legalmente sanzionato nello svolgere lo Statuto ai termini dell'articolo 5 del programma del tre aprile". Il sovrano non si discostava dal termine "svolgere", che appariva meno estensivo di altri, ma ammetteva nel giuramento l'ipotesi di modifiche alla costituzione da lui promulgata. Il ministero colse l'occasione per ritirare le dimissioni, data l'evidente buona volontà del re, e fece sua la formula, ritenendo aperta la strada alla conciliazione. Ma sia la formula del re avallata dal ministero, sia un'altra formula proposta da alcuni dei pari da poco designati, non trovarono accoglimento, mentre per l'eccitazione degli animi cominciavano ad essere erette barricate nel centro cittadino. L'agitazione nasceva dalla voce che le truppe fossero uscite dalle caserme per sciogliere con la forza l'assemblea dei deputati. In effetti le truppe erano state atte uscire quando si era saputo delle barricate, ma F. le fece rientrare, e per mezzo del deputato O. Piccolellis fece sapere ai deputati che il giuramento si sarebbe prestato dopo la verifica dei poteri. La proposta del re, portata nella notte ai deputati, ridotti ad una ventina, ed accolta con favore, non dissuase dalla decisione di restare in armi coloro che avevano innalzato le barricate, che non furono convinti a rimuoverle neanche dall'intervento del sindaco di Napoli.
F. fece uscire di nuovo le truppe dalle caserme, dando l'ordine di distruggere le barricate. Contemporaneamente la mattina del 15 riesaminò la situazione in un Consiglio dei ministri durato quattro ore. Fu confermato il rinvio del giuramento a dopo la verifica dei poteri e fu approvata una nuova formula di esso, comportante la fedeltà alla costituzione "quale sarebbe stata svolta e modificata dalle due Camere di accordo col re, massimamente intorno alla Camera dei pari, come era stato detto nell'articolo 5 del programma del 3 aprile". Per far si che la situazione si decantasse, la seduta inaugurale del Parlamento fu fissata per il pomeriggio. Il cedimento del re, comunicato inizialmente a voce, era così formalizzato. L'avallo del ministero ed il perfezionamento della decisione regia con un decreto offrivano tutte le garanzie desiderabili. Ma i deputati, riunitisi in buon numero la mattina del 15, si scissero, e prevalse l'opinione che convenisse irrigidirsi sulla prima formulazione, che riservava alla Camera la modifica della costituzione. Una commissione fu inviata dal Troya e si cominciò a discutere su una nuova formula conciliativa, mentre invano alcuni deputati ed ufficiali della guardia nazionale cercavano di ottenere la rimozione delle barricate. La disponibilità del sovrano si spiegava col fatto che nel febbraio-marzo a Parigi, a Vienna, a Milano, a Venezia, i cittadini in rivolta avevano sempre avuto il sopravvento; per la stessa ragione i radicali ritenevano di poter forzare la mano per raggiungere una sostanziale esautorazione del potere regio. La tensione, esasperata da voci allarmistiche incontrollate, sfociò in un improvviso conflitto. Alcune fucilate partite dalle barricate provocarono la reazione dell'esercito. I soldati napoletani e svizzeri, circa 12.000, ebbero in poche ore ragione degli insorti. La popolazione della capitale non si uni alla rivolta. La borghesia non era preparata ad un'azione di forza, voluta da pochi, refrattari alle esortazioni alla moderazione venute fino all'ultimo momento da deputati e ufficiali della guardia nazionale, né l'atteggiamento di F. giustificava il sospetto di un colpo di mano in senso reazionario. Al termine della lotta furono i lazzari, fedeli al re, a riversarsi nelle strade per saccheggiare le case incustodite.
Alle prime fucilate F. aveva cercato di far cessare il fuoco, poi, nel timore che i rivoltosi raggiungessero il palazzo reale, vicino alle prime barricate, ordinò l'intervento in forza delle truppe. Alla reggia si recarono subito i ministri, chiedendo al re di fermare l'esercito, ma F. replicò che avrebbe dato ordini in proposito, ma non garantiva del loro accoglimento se non si fossero distrutte le barricate. Al ministero non restò che dare le dimissioni. I deputati durante i combattimenti restarono riuniti. La maggioranza evitò l'adozione di misure estreme (decadenza del re, formazione di un governo provvisorio), e si adoperò per far cessare la lotta, con poco successo. Alla sera il sovrano ordinava lo scioglimento dell'assemblea.
La minuziosa ricostruzione delle trattative svoltesi il 14-15 sulla questione del giuramento mostra che il re, il ministero e la maggioranza dei deputati erano propensi all'accordo, e che F. ammorbidì la posizione iniziale, avvicinandosi molto alle richieste della controparte. L'irrigidimento fu dovuto ad una minoranza, sospettosa delle vere intenzioni del sovrano, decisa a limitarne il potere. I fatti del 15 maggio, non voluti dal re (a torto accusato di avere eccitato gli animi per mezzo di agenti provocatori), né dai deputati (accusati, egualmente a torto, dal sovrano di aver tentato di assumere arbitrariamente il potere durante la lotta) lasciarono per il momento incerti gli osservatori sulle conseguenze politiche del conflitto.
Inizialmente sembrò che il regime costituzionale non ne fosse stato vulnerato. F. il 16 maggio formò un nuovo ministero con uomini di idee liberali, come il principe di Cariati, il Bozzelli, F. P. Ruggiero; in un proclama del 24 attestò "la sua fermissima ed immutabile volontà ... di mantenere la costituzione del di 10 febbraio pura ed immacolata da ogni specie di eccesso". Il 17 aveva sciolto la Camera dei deputati, convinto che essa avesse cercato di assumere illegalmente il potere durante i torbidi del 15, ma il 24 indisse le elezioni per il 15 giugno, e fissò la prima riunione del Parlamento per il 10 luglio.
In realtà F., riacquistata la fiducia per l'appoggio dell'esercito, aveva ripreso la direzione della politica governativa, ma, in una situazione internazionale ancora difficile per le potenze conservatrici, mentre negli Stati italiani continuava l'esperimento costituzionale, non vedeva la possibilità di un ritorno all'assolutismo. Piuttosto intendeva muoversi su una linea di moderazione, che poteva trovare l'adesione di gran parte della borghesia meridionale.
Perciò apportò qualche restrizione alla legge elettorale del 5 aprile ed alla libertà di stampa, sperando di ridurre l'influenza dei radicali, e di sollecitare l'attenzione per i problemi interni: la questione siciliana, il deficit delle finanze, il riordinamento dell'amministrazione. Con le difficoltà interne, messe non senza fondamento in primo piano, fu giustificato il richiamo del corpo di spedizione dall'Alta Italia. Il fatto è che i liberali non avevano saputo esprimere una direzione politica. Il debole ministero Troya era stato incapace di prevedere e prevenire gli eccessi della minoranza radicale, né i giornali avevano saputo orientare l'opinione pubblica su un programma rispondente alle necessità del paese. I fatti del 15 maggio avevano acuito la diffidenza verso il re, che non trovava interlocutori nel tentativo di continuare su basi più ristrette l'esperimento costituzionale.
Il decreto che indiceva nuove elezioni calmò le apprensioni determinate dal timore di un colpo di Stato reazionario. Solo in Calabria la provincia di Cosenza e parte delle province di Catanzaro e Reggio furono spinte alla rivolta dai radicali, ma i ribelli vennero sconfitti dall'esercito in poche settimane, e fu rapidamente soffocato un moto nel Cilento.
La borghesia, non favorevole ad una rivolta che avrebbe potuto avere gravi conseguenze sul piano sociale, mentre molte province erano turbate dai moti contadini per la quotizzazione dei demani comunali, era però decisa a continuare la lotta sul piano legalitario. Ristabilita la libertà di stampa, molti giornali insistettero sui pericoli che correvano le libertà costituzionali e il 15 giugno furono rieletti quasi dovunque i deputati uscenti. Le posizioni furono delineate con precisione all'apertura del Parlamento. Nel discorso della Corona, letto dal Serracapriola, il re deplorò come "un fatale disastro" i fatti del 15 maggio, e confermò "le libere istituzioni", che dovevano essere fecondate e affiancate da leggi. Il ministero avrebbe proposto quelle sull'amministrazione comunale e provinciale, sulla guardia nazionale, sulla pubblica istruzione, avrebbe sollecitato provvedimenti sulle finanze e sull'ordine pubblico. Rimanendo pacifiche le relazioni con le altre potenze europee, tutte le cure sarebbero state rivolte all'amministrazione interna dello Stato.
Non c'era accenno allo "svolgimento dello statuto, era evidente il ritiro dalla partecipazione alla guerra italiana, non si demandava all'assemblea il problema dei rapporti con la Sicilia, non si faceva cenno alla Calabria ancora non domata: il sovrano escludeva l'assemblea dalle decisioni determinanti sul futuro del Regno. I deputati non accettarono un'interpretazione così riduttiva dei loro compiti. Nei dibattiti cercarono di impostare un discorso politico, e nell'indirizzo di risposta al discorso della Corona, approvato il 3 agosto, riallacciarono gli avvenimenti napoletani agli avvenimenti italiani, biasimarono la decisione di sciogliere la Camera attribuendo a ciò il fermento nelle province e la rivolta nelle Calabrie, chiesero al governo un gesto distensivo, criticarono il richiamo del corpo di spedizione dall'Alta Italia, auspicarono il riscatto dallo straniero e la federazione degli Stati italiani.
Le posizioni erano inconciliabili. F. procedette per la strada intrapresa, rafforzato nei suoi propositi dalla crisi dei movimenti liberali e nazionali. In Italia Carlo Alberto era stato sconfitto a Custoza ed aveva chiesto l'armistizio. In Francia il 15 maggio era stato respinto un attacco all'Assemblea parigina ed i socialisti erano stati allontanati dal governo, e nel giugno l'esercito aveva soffocato l'insurrezione degli operai. La monarchia asburgica stava riprendendo il controllo del paese: nel giugno era stata domata Praga e nell'ottobre la stessa sorte sarebbe toccata a Vienna. Nel novembre in Francia il riflusso conservatore sarebbe stato confermato dall'elezione di Luigi Napoleone e in Italia sarebbe tramontato il mito di Pio IX.
F. sperò di ammorbidire l'opposizione del Parlamento. Il io settembre ne prorogò i lavori al 30 novembre, nell'attesa che le elezioni supplettive del 13 novembre modificassero in favore del governo la composizione della Camera. I risultati elettorali rafforzarono l'opposizione e F. prorogò ulteriormente l'apertura dei Parlamento al 1º febbr. 1849. Anche questa volta il ministero fu attaccato violentemente. La Camera lo accusò di illegalità, per aver riscosso le imposte senza l'autorizzazione del Parlamento, e decise di appellarsi al re contro le prevaricazioni dell'esecutivo. Era un atto ai limiti della costituzionalità, estremamente grave. Il sovrano non poteva tollerare che i ministri da lui nominati fossero sottoposti a censura e che le sue direttive politiche fossero criticate: con decreto del 12 marzo sciolse la Camera, riservandosi di stabilire con altro decreto la convocazione dei collegi elettorali. Di fatto il regime costituzionale era finito.
Pure per la questione siciliana non era stato possibile trovare un punto d'incontro.
Il Parlamento, eletto nell'isola nel marzo '48, aveva dichiarato decaduta la dinastia borbonica e, dopo l'approvazione di una nuova costituzione, rispondente alle trasformazioni avvenute nella società siciliana dal '12 al '48, il io luglio aveva designato re il secondogenito di Carlo Alberto, che rifiutò nell'agosto, dopo Custoza. Il governo rivoluzionario aveva avuto vita difficile: in politica estera non era riuscito ad ottenere il riconoscimento da parte degli altri Stati, e nell'interno si era trovato di fronte a gravi problemi politici, economici e sociali, che avevano impedito la costituzione di un esercito capace di difendere l'isola.
Il Borbone ai primi di settembre del 48 aveva ordinato al generale C. Filangieri di ricorrere alla forza. Dopo i primi successi, le truppe napoletane furono fermate da Francia e Inghilterra, che intendevano esercitare la mediazione interrotta nel marzo. Fu firmato un armistizio, ma le trattative fallirono per l'irrigidimento delle due parti.
Concessioni allo spirito autonomistico furono fatte da F. il 28 febbr. 1849: il re offrì all'isola uno statuto diverso da quello napoletano, ispirato alla costituzione del '12, un Parlamento separato con Camera dei pari e Camera dei comuni, la nomina di un viceré e di un ministero per gli affari di Sicilia, l'esclusività delle cariche nell'isola ai siciliani, bilanci separati per le due parti del Regno; la direzione di Esteri, Guerra e Marina restava nella capitale e la Sicilia doveva contribuire alle spese generali del Regno con 3.000.000 di ducati annui. Rispetto alla stretta accentratrice del '37 era molto. Se attuato (il se è di obbligo, dal momento che a Napoli si era alla vigilia del definitivo scioglimento della Camera), il complesso dei provvedimenti offerti da F. avrebbe restituito a Palermo il ruolo di subcapitale goduto fino al '16 ed avrebbe dato all'isola una notevole autonomia. Ma in Sicilia gli animi erano eccitati contro il Borbone. Si pretendeva un esercito separato per evitare ripensamenti da parte della monarchia. Le offerte di F. furono rifiutate.
Riprese le ostilità a fine marzo, i Napoletani riconquistarono l'isola in poche settimane. Con l'ingresso del Filangieri a Palermo il 15 maggio cessò ogni resistenza. A poco più di un anno da quel gennaio '48 che lo aveva visto iniziatore dell'esperimento costituzionale in Italia, F. riprendeva il suo posto tra i sovrani assoluti.
I fatti gli davano ragione. Nel novembre '48 Pio IX, fuggito da Roma, aveva trovato scampo a Gaeta, e poi a Portici, dove rimase fino al 1850, sotto la protezione napoletana. Il ristabilimento del potere temporale, dichiarato decaduto dalla Repubblica Romana, avvenne ad opera della Francia, con l'intervento armato d'Austria, Spagna, ed anche di Napoli. Nel febbraio '49 si rifugiò presso F. pure il granduca di Toscana, poi riportato sul trono dagli Austriaci.
F. senti l'orgoglio di aver ristabilito la sua autorità nel Regno senza l'aiuto di truppe straniere., pagato a caro prezzo nel '15 e nel '21. Convinto di aver dato con la repressione del 15 maggio il segnale della riscossa all'Europa conservatrice, perseverò in un atteggiamento intransigente anche quando la politica delle grandi potenze prese una nuova piega. Nel '48 si rallegrò con Luigi Napoleone per l'elezione alla presidenza della Repubblica francese, ritenendola garanzia di ordine, e nel'52 volle essere il primo a congratularsi con lui quando assunse il titolo imperiale. Più che mai deciso a tutelare la sua indipendenza, pur avendo ristabilito buoni rapporti con l'Austria già nella seconda metà del '48, nel '50 non appoggiò un progetto di lega degli Stati italiani con l'Austria (che avrebbe rafforzato la preminenza degli Asburgo) e si mostrò propenso ad un'alleanza dei soli sovrani assoluti della penisola, che non avrebbe messo in pericolo la sua autonomia.
Egualmente all'intransigenza fu ispirata la politica interna. Il ritorno all'assolutismo fu sottolineato nell'agosto '49 dall'allontanamento dei ministri che avevano dato credibilità al momento moderato-costituzionale, il Cariati, il Bozzelli, il Ruggiero. Alla presidenza del Consiglio fu chiamato Giustino Fortunato senior. La libertà di stampa fu abolita con la legge 13 ag. 1850; nel '59 per la stampa dei libri sarebbe stata resa obbligatoria l'autorizzazione preventiva dei vescovi.
La Chiesa, chiamata a puntellare il trono, ebbe grande ingerenza nell'istruzione e negli istituti di beneficenza. Tuttavia anche nei riguardi di questa il sovrano rivendicò la sua autorità. La Civiltà cattolica, nata a Napoli nel '50, durante la permanenza di Pio IX, e trasferita poi a Roma, fu proibita nel Regno nel '54 perché il re si irritò ritenendo messi in dubbio i diritti dei sovrani assoluti.
La persecuzione degli esponenti liberali era cominciata presto. Primo dei deputati, S. Spaventa era stato arrestato il 19 marzo. Il re era animato dallo stesso desiderio di annientare l'avversario che aveva spinto il nonno agli eccessi del '21. Proposte del Ruggiero del 29 maggio '48 e del luglio '49 per amnistiare i responsabili dei fatti del 15 maggio, con l'esclusione degli autori principali, non trovarono accoglienza (G. Paladino, Il 15 maggiodel 1848, pp. 436, 485 ss.). A Napoli e nelle province furono celebrati macchinosi processi. Gli uomini politici più noti furono colpiti con gravi condanne, o esiliati, o costretti ad emigrare. Diecine di migliaia di individui sospetti, elencati in liste di "attendibili", furono sottoposti alla sorveglianza della polizia. F. pensò anche di abrogare formalmente la costituzione. Petizioni in proposito (2.283, secondo De Sivo, cap. XIII, § 18) gli furono rivolte dai Consigli provinciali e comunali e dalle principali istituzioni. Nel giugno '50 il re, esaminando la convenienza politica di un passo del genere, interpellò anche le potenze conservatrici. L'Austria espresse parere negativo. Il governo austriaco nell'agosto del '49 aveva concesso l'amnistia agli emigrati politici del Lombardo-Veneto, escludendo poco più di un centinaio tra i più compromessi, ed avrebbe voluto che i principi italiani favorissero la pacificazione. Al re il primo ministro principe F. v. Schwarzenberg suggerì, piuttosto, di rendere più efficiente l'amministrazione per evitare il malcontento e non dare pretesti all'azione dei liberali.
Come era avvenuto dopo il '21, F. era incapace di uscire dalla logica della repressione. Come allora la monarchia si era privata della competenza dei murattiani, così ora allo Stato veniva meno l'apporto della parte migliore della classe dirigente. Poerio, Pironti, S. Spaventa, Settembrini erano in prigione; i meridionali Scialoja, De Sanctis, B. Spaventa, Mancim, Bonghi, Guglielmo Pepe, G. Ulloa, Pisanelli, Dragonetti, Massari, Ricciardi, Zuppetta, Musolino (circa 850 secondo D'Ayala), e i siciliani Amari, Crispi, Lafarina, Torrearsa, F. Ferrara, Ruggiero Settimo, Stabile, avevano portato altrove il loro prestigio e la loro professionalità. Intorno al re erano rimasti i mediocri. F. si rendeva conto del danno che la cattiva scelta del personale causava all'andamento dell'amministrazione, ma era consapevole della difficoltà di uscire in maniera indolore dalla situazione determinatasi dopo il '48. "Qualunque cambiamento di impiegati anche tra il più infimo ... pel modo come è stato montato il paese dall'esterna influenza, sarebbe un segnale di sicura rivoluzione", scrisse nel '56 (A. Saladino, La crisi della pubblica amministrazione alla vigilia del crollo del Regno delle Due Sicilie, in Saggi di storia civile e storia delle istituzioni pubbliche nel Regno di Napoli, Roma 1981, p. 343).
L'opinione pubblica nell'Europa liberale fece di F. il simbolo della reazione. Dopo i fatti del '15 maggio, violente manifestazioni contro di lui si ebbero in molte città italiane, con ripercussioni negative in Europa. Per il feroce bombardamento di Messina del settembre '48, che diede inizio alla riconquista della Sicilia, il sovrano era stato spregiato col soprannome di "re bomba". Alle udienze per il processo dell'unità italiana tenute nel 1850 assistette assiduamente l'ambasciatore inglese W. Temple, che si convinse dell'innocenza di C. Poerio, condannato sulla base di false testimonianze (G. Paladino, Ilprocesso per la setta "L'Unità italiana", pp. 193 ss.), e chiese che ai Napoletani fosse applicata l'amnistia data dal Filangieri in Sicilia, altrimenti si sarebbe verificata una disparità di giudizio sui reati politici nelle due parti del Regno. La sorte di Poerio, tenuto in catene in un carcere malsano, e quella degli altri carcerati per motivi politici, spinse il Gladstone alla pubblicazione delle due lettere a lord Aberdeen, terribile atto di accusa contro il malgoverno borbonico.
Il Fortunato era stato avvertito tempestivamente dall'ambasciatore napoletano a Londra dei propositi del Gladstone. Questi, d'altra parte, era disposto a rinunziare alla divulgazione delle lettere se il governo napoletano avesse migliorato il regime carcerario e il trattamento di C. Poerio. In tal senso lord Aberdeen scrisse riservatamente al governo austriaco, che ne diede comunicazione al Fortunato. Questi, sottovalutando il pericolo, non prese provvedimenti e non informò il re.
La pubblicazione delle lettere nel 1851 suscitò in Europa un'ondata di recriminazioni contro il Borbone. Il Palmerston criticò aspramente il governo napoletano alla Camera dei comuni e rincarò la dose in una nota diplomatica cui diede ampia diffusione. Il re, quando seppe di essere stato tenuto all'oscuro della questione, gestita così male a sua insaputa, nel gennaio '52 licenziò il Fortunato (sostituito da F. Troya) ed il suo segretario particolare L. Corsi (succeduto nel 1841 al Caprioli, caduto in disgrazia per la questione degli zolfi).
Aumentò però l'accentramento nelle mani del sovrano. Questi affidò a due diverse persone la segreteria particolare e la segreteria del Consiglio di Stato, e mise a capo di alcuni dicasteri direttori invece di ministri. per avere nel Consiglio persone più ligie alla sua volontà, spinto anche da un malinteso senso dei risparmio. Per questo criterio di gretta economia negli ultimi anni di regno ritardò le promozioni e lasciò scoperti molti posti, compromettendo ulteriormente la funzionalità dell'amministrazione civile e militare.
Agì con maggiore moderazione in Sicilia. Decadute automaticamente le concessioni del 28 febbraio per il rifiuto dei ribelli all'obbedienza, ripristinò le condizioni anteriori al '37: il 26 luglio '49 istituì un ministero di Sicilia a Napoli, il 27 settembre stabilì che l'amministrazione siciliana sarebbe stata per sempre separata da quella napoletana. L'isola sarebbe stata governata da un luogotenente, assistito da un ministro e tre o più direttori; la Consulta per la Sicilia avrebbe avuto sede a Palermo. Era il massimo che poteva concedere F., che così rinunziava alla incorporazione della Sicilia in un unico organismo statale, caposaldo della sua azione dal '37.
Il Filangieri, nominato luogotenente il 9 ottobre, si preoccupò di recuperare alla monarchia la classe dirigente, facendo leva sui timori di eversione sociale affiorati durante la rivoluzione. Il principale successo l'ottenne con la ritrattazione di oltre la metà dei pari e dei deputati che nel '48 avevano votato la decadenza della dinastia. Inoltre emanò un'ampia amnistia, con l'esclusione di soli 43 tra i più compromessi. Nella prospettiva di un effettivo recupero dell'isola alla monarchia, il Filangieri riprese l'idea di tonificarne l'economia con la costruzione di una moderna rete stradale, e nel '52 presentò un piano che ottenne l'approvazione del re; poi la burocrazia napoletana, tra discussioni sulle persone incaricate dei lavori e richieste di modifiche al progetto, fece arenare l'iniziativa. Il Borbone tollerò che il luogotenente si ispirasse a criteri opposti a quelli seguiti nel Mezzogiorno, ma non gli diede l'appoggio necessario per i suoi programmi più ambiziosi. Deluso, il Filangieri lasciò l'isola nel '55, sostituito dal principe di Castelcicala Paolo Ruffo, che si preoccupò solo di mantenere l'ordine pubblico.
Nessuna iniziativa di largo respiro fu presa dal re. Importanti linee ferroviarie, per gli Abruzzi, per Foggia-Bari-Brindisi, per Salerno-Taranto furono decretate nel 1855-56, ma di fatto, dopo averle concesse a privati, F. stesso ne ostacolò la costruzione, temendo forse che vi avesse troppa parte il capitale straniero o che un deciso ammodernamento nel campo dell'economia preludesse a nuovi moti politici. A spese dello Stato si lavorò ad un tronco ferroviario da Capua verso il confine romano.
Pochi furono i pericoli provenienti dall'interno: nel '56 la rivolta promossa a Corleone da Francesco Bentivegna e il tentato regicidio di A. Milano. 1 maggiori pericoli per la monarchia borbonica vennero dall'esterno.
In occasione della guerra tra Russia e Turchia e del successivo intervento di Francia e Inghilterra, F. decise di seguire la più stretta neutralità. Le misure che limitarono il commercio dello zolfo e il divieto di approvvigionamento alle truppe in Crimea irritarono la Francia, senza soddisfare la Russia, che si aspettava dal Borbone una più concreta dimostrazione di amicizia. Al congresso di Parigi l'8 apr. '56 le critiche dei ministri francese e inglese e le richieste di un miglioramento delle istituzioni governative e della concessione di un'amnistia furono un diretto attacco al re. Questi non ammise che potenze straniere potessero intervenire nella politica interna del suo Stato, anzi affermò che ingerenze del genere gli impedivano riforme o amnistie che sarebbero apparse imposte dall'esterno. F. quindi il 30 giugno replicò con durezza alle note inviategli dai governi francese e inglese. Sollecitato dalle pressioni austriache a un gesto di clemenza che avrebbe favorito la distensione, il 28 e 30 luglio concesse il ritorno ad alcuni esuli. Era troppo poco. Né bastò che a fine agosto il re desse le scuse formali per il tono della nota del 30 giugno, dal momento che non prometteva i provvedimenti richiesti perché ritenuti prematuri. Dopo aver minacciato un'azione navale contro Napoli, Francia e Inghilterra nell'ottobre '56 si limitarono a ritirare i loro ambasciatori.
Il Regno restava isolato, mal sostenuto dall'Austria, consigliera inascoltata di moderazione e di prudenza, e insidiato dalla dinamica politica di Cavour. Se il proponimento di collocare sul trono napoletano Luciano Murat, ventilato in quegli anni, non trovò molte adesioni, il lavorio degli esuli si concretizzò nel '57 con la spedizione di C. Pisacane, soffocata agevolmente a Sanza. All'interno F. appariva padrone della situazione, forte di un esercito a lui devoto, che nel '57 contava quasi 100.000 uomini e costava circa 10.000.000 di ducati, assorbendo con la marina oltre un terzo dell'introito complessivo dello Stato.
Sul terreno della politica economica le direttive di F. furono messe sotto accusa nel '57 da A. Scialoja.
L'economista meridionale, ormai inserito nell'ambiente torinese, in un opuscolo su Ibilanci del Regno di Napoli e degli Stati sardi, con note e confronti (Torino 1857) paragonò le direttive finanziarie dei due paesi, simboli dell'assolutismo e del liberalismo, dimostrando la superiorità del sistema piemontese, m cui era più alta l'imposizione fiscale, ma la qualificazione della spesa pubblica favoriva lo sviluppo economico-sociale. Lo scritto, benché vietato, ebbe larga diffusione, e i nove opuscoli pubblicati per confutarlo non riuscirono a dissipare le perplessità sulle direttive seguite dal governo borbonico.
F. si accorgeva di essersi cacciato in un vicolo cieco. La severità del trattamento ai condannati politici era sempre più malvista dall'opinione pubblica europea, dal momento che anche l'Austria nel Lombardo-Veneto portava avanti una politica di pacificazione. Era evidente l'opportunità di ristabilire i rapporti diplomatici con Francia e Inghilterra, per neutralizzare le iniziative di Cavour. Nel febbraio '57 il governo napoletano stipulò una convenzione con l'Argentina per deportarvi i condannati politici, ma la cosa non andò in porto.
Nel gennaio '59 il matrimonio del principe ereditario porse l'occasione per un largo indulto; inoltre ottantanove condannati politici (tra i quali era il Poerio) ebbero la pena commutata in esilio perpetuo e furono imbarcati per New York. Intanto c'erano stati gli accordi di Plombières tra Napoleone III e Cavour, e si profilava l'eventualità di una guerra tra Francia ed Austria. All'inizio del '59 la Russia propose che la questione italiana fosse risolta pacificamente con un congresso delle grandi potenze. F. si mantenne estraneo alle trattative per il congresso, convinto della utilità per Napoli di isolarsi dall'Europa. Già sul letto di morte, il 28 aprile, all'inizio della guerra in Alta Italia dichiarò la neutralità.
F. si era ammalato in Puglia, dove si era recato nel gennaio '59, in un inverno particolarmente rigido, per accogliere a Bari Maria Sofia di Baviera, andata sposa a Francesco, duca di Calabria. La malattia si andò rapidamente aggravando. Ai primi di marzo il re fu trasportato nella reggia di Caserta, dove morì il 22 maggio 1859.
Fonti e Bibl.: L'archivio riservato della Casa Reale borbonica, lasciato a Napoli da Francesco II nel settembre 1860 e acquisito dal locale Archivio di Stato, andò bruciato nel settembre 1943. Una parte di esso era stata portata nell'esilio dal re: acquistato dallo Stato italiano, fu depositato nel 1953 presso l'Archivio di Stato di Napoli - fondo Archivio Borbone - e fu aperto alla consultazione tra il 1955 ed il 1960. I documenti riguardanti il regno di F. vanno dal fascio 751 al fascio 1131; segnaliamo i ff. 751-803 di corrispondenza con Francesco I, con i familiari, con sovrani e principi diversi; i ff. 805-806, di corrispondenza con i papi Pio VIII, Gregorio XVI, Pio IX; i ff. 807-817, di corrispondenza con ministri e ambasciatori; i ff. 826-926 riguardanti gli affari dei vari ministeri; i ff. 984-1035 riguardanti gli affari di Sicilia; i ff. 1036-1052 relativi al 1848 ed alle vicende politiche successive; i ff. 1087-1102 riguardanti la famiglia reale. Nell'Archivio Borbone lettere con risposte di F., duca di Noto e duca di Calabria, ai familiari, sono nei fasci 173, 534-551, 751; il f. 553 riguarda i progetti di matrimonio del 1829-30; i fasci 552 e 642-648 sono relativi al vicariato del 1829-30; i fasci 628 e 1104 contengono memorie e istruzioni sulla sua educazione. Cfr. anche Almanacco reale del Regno delle Due Sicilie, e Almanacco della Real Casa e Corte, per gli anni 1815-1859.
Per una visione complessiva del regno di F. rimandiamo ad A. Scirocco, Dalla seconda restaurazione alla fine del Regno, in Storia del Mezzogiorno, IV, Roma 1986, pp. 689-762, e per la bibliografia fino al 1970 alle assai sintetiche indicazioni date in R. Moscati, Il Regno delle Due Sicilie, §§ 9 e 10, e a quelle più ampie in F. Brancato, La Sicilia, §§ 3, 4, 5, entrambe in Bibliografia dell'età del Risorgimento in onore di Alberto M. Ghisalberti, II, Firenze 1972, pp. 309-311 e 338-350. Degli studi riguardanti particolarmente F., conservano qualche utilità i contemporanei M. Musci, Storia civile e militare del Regno delle Due Sicilie sotto il governo di F. II dal 1830 al 1849 (in realtà si ferma al 1836), Napoli 1855; F. Durelli, Cenno storico di F. II re del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1859; M. d'Ayala, Vita del re di Napoli, Napoli 1860; D. Galdi, F. II, Torino 1861; G. De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Trieste-Roma 1863-1869; N. Nisco, Gli ultimi trentasei anni del reame di Napoli (1824-1860), II, F. II, Napoli 1890; P. Calà Ulloa, Il regno di F. II, a cura di G. De Tiberiis, Napoli 1967. Ancora interessante R. De Cesare, La fine di un Regno, Città di Castello 1909. Per la ricchezza della documentazione ricordiamo G. Paladino, Il 15 maggio del 1848in Napoli, Milano-Roma-Napoli 1920, e Id., Ilprocesso per la setta l'"Unità italiana" e la reazione borbonica dopo il '48, Firenze 1928 (cfr. A. Scirocco, G. Paladino e la storiogr. del Risorg., in Studi storici merid., VI [settembre-dicembre 1986], pp. 343-362). Documenti d egli archivi piemontesi sono utilizzati in A. Amante, Maria Cristina di Savoia, regina delle Due Sicilie, Torino 1933 (si veda anche G. Dell'Aja, Nel 150ºdella morte della venerabile serva di Dio Maria Cristina di Savoia regina delle Due Sicilie, Napoli 1986). Si basa su documenti che andranno perduti nel 1943 A. Zazo, Come fu educato F. II di B., in Samnium, IX (1938), 1-2, pp. 74-123, e F. Ferrara, Fra i Borboni e i Savoia. La missione segreta del marchese Salvo in Piemonte 1831-1832, Napoli1971. Restano di grande importanza E. Pontieri, Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e dell'Ottocento, Roma 1945; R. Moscati, F. II di Borbone nei documenti diplomatici austriaci, Napoli 1947; Id., Un duro antagonista della rivoluzione del '48: F. II, in Arch. stor. per le prov. napol., n.s., XXXI (1947-49). Della bibliografia recente ricordiamo G. Cittadini, Carteggio privato tra papa Pio IX e F. II re di Napoli, Macerata 1968; F. Tessitore, La cultura filosofica tra due rivoluzioni (1799-1860), in Storia di Napoli, IX, Napoli 1972, pp. 225-293; G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari 1973, capp. III, IV e V; V. Giura, La questione degli zolfisiciliani 1838-1841, Genève [ma Napoli] 1973; G. Cingari, Gliultimi Borboni: dalla Restaurazione all'Unità, in Storia della Sicilia, VIII, Napoli 1977; Id., La professione di fede di F. II alla vigilia del '48 e il dibattito sul dispotismo e la responsabilità dei ministri, in Storia e cultura del Mezzogiorno, Cosenza 1978; J. Davis, Società e imprenditori nel Regno borbonico 1815-1860, Bari 1979; T. Pedio, Classi e popolo nel Mezzogiorno d'Italia alla vigilia del 15 maggio 1848, Bari 1979; A. Lepre, IlMezzogiorno dal feudalesimo al capitalismo, Napoli 1979; N. Ostuni, Iniziativa privata e ferrovie nel Regno delle Due Sicilie, Napoli 1980; G. Bovi, Leopoldo di Borbone, principe di Salerno (1790-1851), Napoli 1981, col carteggio tratto dall'ArchivioBorbone trail principe e il nipote F. e documenti sul secondo matrimonio di F., pp. 206-303, in particolare pp. 219-246; L. Parente, Stato e contadini nel Mezzogiorno d'Italia tra il 1830 e il 1848, in Quaderni intern. di storia economica e sociale, 1981, estratto, pp. 5-64; L. De Matteo, Politica doganale e industrializzazione nel Mezzogiorno (1845-1849), Napoli 1982; A. Scirocco, F. II e la Sicilia: gli anni della speranza e della delusione (1830-1837), in Rass. stor. del Risorg., LXXIV (1987), pp. 275- 298.