FERDINANDO III di Asburgo Lorena, granduca di Toscana
Nacque a Firenze, il 6 maggio 1769, secondogenito maschio di Pietro Leopoldo, granduca di Toscana e di Maria Luisa di Borbone, figlia di Carlo III di Spagna.
Nella sua educazione, come in quella del fratello primogenito Francesco, destinato a succedere nei domini della Corona austriaca, pesarono le scelte della nonna Maria Teresa e dello zio, l'imperatore Giuseppe II. Quale aio dei due giovani venne così inviato in Toscana da Vienna il conte Franz de Paula von Colloredo, affiancato dall'ex gesuita conte Sigismund von Hohenwart e dal marchese rodigino Federigo Manfredini, che ebbe influenza decisiva sulla formazione di F. e, poi, sulle sue decisioni politiche. Fu però lo stesso Pietro Leopoldo a stabilire minuziosamente non solo rigorosi piani di studio, ma anche i criteri schiettamente illuministici e non privi, addirittura, d'influssi rousseauiani ai quali dovevano attenersi gli educatori: "I principi occorre siano sempre ben consapevoli che la loro posizione la devono solo ad un accordo raggiunto fra altri uomini e che essi, per parte loro, hanno l'obbligo di assolvere tutti i loro compiti e i loro doveri, ciò che gli altri uomini si attendono a buon diritto da loro, in virtù dei privilegi che ad essi hanno concessi".
La sorte di F., che era destinato a continuare la secondogenitura asburgica in Toscana, sembrò dover mutare radicalmente, quando, nel 1784, Giuseppe Il elaborò un progetto di sistemazione politico-territoriale in cui era coinvolto anche il Granducato. La Toscana avrebbe perduto la propria autonomia, per diventare una provincia austriaca di cui il principe sarebbe stato soltanto governatore. Mentre Francesco partiva per Vienna, per completarvi la sua educazione, F. resto a Firenze, sotto la guida del Manfredini. Ma la morte prematura dell'imperatore, nel 1790, rimise in giuoco le sorti della Toscana. Pietro Leopoldo successe sul trono imperiale e, ben convinto dei vantaggi che la Toscana avrebbe avuto come Stato indipendente, non si attenne al piano del fratello e mantenne la secondogenitura toscana. Costituito un Consiglio di reggenza per il Granducato, in attesa della sua decisione, partì per Vienna il 1º marzo, dove fu seguito, poco dopo, da Ferdinando. Questi, il 19 settembre, sposò a Vienna la cugina Luisa, figlia di Ferdinando IV di Borbone, re di Napoli, e di Maria Carolina d'Asburgo Lorena. Frattanto, il 21 luglio, Pietro Leopoldo aveva rinunziato alla sovranità toscana in suo favore; mentre lo stesso giorno anche Francesco accettava l'atto di cessione e abdicazione del padre, rinunciando e abdicando anche per sé ed i propri eredi. Il 22 febbr. 1791 il nuovo sovrano poté così incaricare il presidente del Consiglio di reggenza, Antonio Serristori, di prendere possesso del Granducato in suo nome.
Questo ritardo era stato causato da una grave crisi verificatasi subito dopo la partenza di Pietro Leopoldo e del figlio. Lasciando la Toscana, egli aveva impartito istruzioni categoriche di salvaguardare le riforme operate, soprattutto quelle di carattere ecclesiastico ed economico, già divenute un esempio per le tendenze riformatrici europee e così acclamate dalla cultura illuministica. Ma solo un mese dopo il malcontento popolare suscitato dalla sua politica giurisdizionalistica e dall'appoggio fornito ai giansenisti si manifestò in varie località, anche per la sobillazione degli elementi più retrivi del clero, degenerando in tumulti. Altrove, come a Livorno, a queste proteste si unirono le reazioni contro i provvedimenti liberistici relativi al commercio dei grani, considerati la causa principale del carovita. E tali reazioni furono poi particolarmente violente a Firenze, ove, ai primi di giugno, accaddero incidenti di notevole gravità, repressi a fatica dalla autorità e dalle scarse forze a loro disposizione. Ciò fornì alla reggenza l'occasione per trasgredire alle disposizioni di Pietro Leopoldo e revocare la libertà di commercio frumentario, vietando l'esportazione di grani, biade e oli. Furono inoltre autorizzate varie pratiche di culto e di disciplina ecclesiastica già abolite. La reazione dell'imperatore fu molto decisa: in un dispaccio del 17 giugno condannò l'operato della reggenza che, piegandosi a ribellioni fomentate dagli avversari delle riforme, aveva rovesciato "in pochi giorni tutti i sistemi di governo da lui in tanti anni di tempo e fatiche introdotti e con tanto buon successo stabiliti in vantaggio del pubblico" e riportato la Toscana "in mano agli ecclesiastici ed al fanatismo". Vietò qualsiasi concessione; e mentre disponeva pesanti sanzioni per i colpevoli dei tumulti e ordinava il ripristino della pena di morte per i sobillatori, scriveva di ritenere del tutto inopportuno l'invio in Toscana di un rappresentante della propria famiglia, prima che fosse ristabilita "la disciplina, il buon ordine e tutto come prima". Poi, con un dispaccio dell'8 ott. 1790, ordinò il ripristino della libertà del commercio frumentario; ma Solo il 27 dicembre il Consiglio di reggenza pubblicò la legge relativa, aggiungendovi dei provvedimenti che, in realtà, ne limitavano la portata.
L'invio di truppe austriache permise, comunque, di ristabilire la piena normalità. Così, il 16 marzo 1791, il Serristori poté finalmente prendere possesso del Granducato in nome di F., secondo le antiche consuetudini costituzionali, mentre il nuovo sovrano aveva già confermato tutte le leggi, disposizioni e regolamenti dello Stato e tutti i funzionari in carica. Infine, l'8 aprile, il granduca e la granduchessa, accompagnati dall'imperatore, dai sovrani napoletani e dagli arciduchi Carlo e Leopoldo, fecero il loro ingresso in Firenze. Poi, il 24 giugno, il Senato e il Municipio fiorentino, quale rappresentante dell'antico Consiglio dei duecento, gli giurarono fedeltà.
La prima questione che F. dové affrontare fu quella relativa al patrimonio personale e privato del padre che sembra creasse dissapori tra di loro. Il granduca dové dichiararsi debitore di 1.113.562 scudi in favore del padre che rinunziava al 20% sulla cifra originaria di 1.390.953, in considerazione delle spese per l'esazione dei frutti e di altre perdite. Il frutto da corrispondere sulla cifra dovuta fu stabilito nella misura del 3%.
Assai più gravi furono però i problemi che gli vennero imposti dalla difficile situazione politica ed economica del Granducato. I moti del 1790 avevano rivelato la notevole impopolarità delle riforme ecclesiastiche leopoldine, respinte non solo dai ceti popolari, facilmente suggestionabili dal clero più conservatore, ma pure da una parte della classe dirigente. In particolare, oggetto delle più aspre contestazioni era stato il vescovo di Prato e Pistoia, Scipione de' Ricci, ispiratore di alcune delle riforme più radicali e che, con la celebrazione del sinodo di Pistoia, considerato espressione di atteggiamenti giansenistici, si era posto in grave contrasto con la Sede romana. Il proposito di evitare nuovi incidenti, insieme colla propenisione a trovare uno stabile accordo con il Papato per meglio fronteggiare gli sviluppi sempre più "eversivi" degli eventi rivoluzionari francesi, indussero F. ed i suoi consiglieri ad una politica di cauta conservazione; e, pertanto, suggerirono una soluzione drastica di questo maggior punto di contrasto con Roma: chiedere al Ricci la rinunzia alla sua sede. Non solo: mentre cessava di favorire i prelati ed il clero giansenisti, il granduca, pur manifestando incertezze e parziali resistenze, finì col cedere spesso alle pressioni dei conservatori ed alle richieste dell'alto clero che voleva la restituzione di taluni poteri e privilegi.
Tra le varie concessioni fatte ai vescovi fu il permesso loro accordato di visitare le rispettive diocesi senza il "regio exequatur"; il diritto di punire gli ecclesiastici con pene spirituali e canoniche, salvo il ricorso al principe; l'attribuzione alle curie episcopali della cognizione delle cause riguardanti i voti ecclesiastici e talune questioni matrimoniali. Vennero, poi, ripristinati vari conventi, monasteri e confraternite, invece di procedere alle nuove soppressioni divisate da Pietro Leopoldo. Nondimeno le prerogative giurisdizionali dello Stato furono preservate. Con il rescritto del 27 sett. 1792, F., riferendosi alle concessioni accordate ai vescovi, dichiarò fermamente che l'uso delle facoltà loro attribuite "si trasferiva unicamente in essi dal Sovrano e avrebbe risieduto in loro, non per autorità originaria, ma come negli altri magistrati dello Stato, nella cui classe comprendonsi le loro sacre persone"; ed era indubitabile che "tali facoltà inalienabilmente appartenessero al sovrano inedesimo".
Non molto dopo, nella primavera del 1794, tornò attuale la questione del sinodo di Pistoia che Pio VI intendeva condannare formalmente. F. tentò di dissuaderlo, adducendo, il 16 maggio, gravi motivi di ordine pubblico; ma il suo appello non valse a far recedere il papa dalla sua decisione. Così la bolla di condanna Auctorem fidei del 28 agosto 1794, dopo esser stata attentamente esaminata, non ottenne l'exequatur in Toscana, come, del resto, accadde pure in Austria, nel Regno di Napoli, nel Regno di Sardegna, Venezia e in Spagna. In questo caso la linea leopoldina era prevalsa. Ma il granduca tenne un atteggiamento assai diverso nei confronti di alcune delle più importanti innovazioni istituzionali compiute dal padre. Venne, infatti, ripristinata la Consulta, suprema magistratura toscana, già abolita da Pietro Leopoldo nel 1788, le cui attribuzioni erano state ripartite tra il presidente del Buongoverno e il consultore legale; e, con un editto del 5 nov. 1793, le furono restituite le stesse prerogative esercitate prima della soppressione. La stessa inversione di rotta prevalse anche nel caso della soppressione della Casa di correzione. E pure nell'ambito della politica educativa le riforme leopoldine vennero drasticamente ridimensionate: nel maggio 1794 vennero soppresse le scuole normali di S. Leopoldo, a Firenze, e l'insegnamento nelle scuole che le sostituirono fu affidato agli agostiniani. Anche le scuole normali di Pisa furono abolite, ma dovettero essere ripristinate in seguito alla richiesta di molti cittadini.
Il governo, di F. procedé, dunque, in una continua alternanza di provvedimenti spesso contraddittori, abolendo istituzioni recenti e ripristinando le antiche, per tornare però talvolta sui propri passi. Ed un atteggiamento simile fu pure tenuto dal potere granducale nel difficile tentativo di far fronte alla grave crisi toscana, resa ancora più pesante dal cattivo andamento della produzione manifatturiera.
Già nell'ottobre 1791 F. nominò una deputazione incaricata di rimediare al disordine delle dogane. Ottenutone il parere, sempre nell'ottobre, promulgò la nuova tariffa doganale che, in certo modo, stabiliva un compromesso tra la piena libertà di commercio e il divieto d'importare generi grezzi, vietando, da un lato, l'esportazione delle materie prime necessarie alla manifatture, ma consentendo, d'altro canto, la libera importazione di merci estere. Tale tariffa non risolse però la crisi manifatturiera e la conseguente disoccupazione, né poté eliminare il forte malcontento popolare. Anche lo scarso raccolto di grano degli anni 1791 e 1792, che fece salire i prezzi e nascere il timore del ripetersi di nuovi tumulti, indusse il granduca a prendere una serie di provvedimenti protezionistici: il 9 ott. 1792 fu abolita la libertà di commercio delle granaglie, con il divieto della "estrazione dei grani, biade, legumi, castagne fresche e secche e loro farine"; il 19 dello stesso mese vennero istituiti magazzini di deposito per il traffico delle "grascie" estere; il 30 furono stabilite magistrature speciali, i presidenti delle Vettovaglie, con funzioni analoghe a quelle delle antiche magistrature medievali (Abbondanza e Grascie) che avevano regolato il sistema annonario toscano, sino alla loro abolizione da parte di Pietro Leopoldo. Si trattava, insomma, di un complesso di misure che, rovesciando i criteri liberistici leopoldini, avrebbero dovuto assicurare il ribasso dei viveri essenziali e mantenere, per questa via, la calma e la tranquillità nel Granducato. Ma il carovita e la disoccupazione risultarono ulteriormente aggravate, mentre il prezzo del grano, nonostante la revoca della libertà di commercio, andò ancora aumentando in modo costante e notevole, sia per la difficoltà di approvvigionarsi all'estero, sia per la tendenza generale al rialzo dei prezzi in seguito all'inizio della guerra tra la Francia rivoluzionaria e la coalizione delle monarchie europee. Varie agitazioni esplosero in località periferiche della Toscana; ma neppure gli editti che, tra il giugno 1794 e il maggio 1795, ristabilirono in pieno il vecchio sistema annonario sortirono alcun effetto positivo. Infine, dopo nuovi tumulti scoppiati nella primavera del 1795, soprattutto nel Valdarno e nella Valdichiana, F., con l'editto del 17 ag. 1795, prese atto dell'errore commesso con il ritorno al sistema protezionistico che aveva avuto il solo risultato di assorbire gran parte del denaro pubblico, ristabilì la libertà di commercio e della compravendita dei grani all'interno, soppresse il presidente delle Vettovaglie ed abolì l'obbligo di licenze per poter commerciare, conservando soltanto il divieto di esportazione dei grani ed alcuni provvedimenti che avrebbero dovuto favorire i centri urbani. Ma, frattanto, un altro colpo all'edificio leopoldino era stato già inferto il 26 sett. 1794, con la riaccensione del debito pubblico e il ristabilimento del Monte comune, abolito sin dal 1788.
Il 30 ag. 1795, frutto del lavoro della Consulta, fu promulgato un editto che modificava, in più parti, il codice penale leopoldino, allo scopo sia di evitare gli "abusi" cui poteva prestarsi la tendenza assai più correttiva che punitiva di quel codice, sia di intimidire, con la gravità delle pene, i possibili rei di ribellione o, addirittura, di dissenso politico e religioso. La pena di morte, già ripristinata dallo stesso Pietro Leopoldo, venne infatti estesa, oltre che ai "perturbatori della quiete pubblica", anche ai colpevoli di azioni tendenti a "distruggere, rovesciare o alterare la nostra santa religione", mentre era nuovamente configurato il delitto di lesa maestà di cui si sarebbe reso colpevole chi "attraverso l'attacco diretto alla pubblica autorità o al sovrano tende o direttamente mira a sconvolgere la società e l'ordine pubblico". Anche in questo caso era comminata la pena di morte, applicabile pure ai rei di omicidio premeditato.
Come si vede, restava ormai ben poco del "sisterna" riformatore creato da Pietro Leopoldo, che aveva subito il duro contraccolpo degli eventi rivoluzionari e le conseguenze del rapido prevalere delle tendenze e dei provvedimenti più conservatori. Ma va pur detto che questi mutamenti così radicali della legislazione toscana, del resto non privi anch'essi d'incertezze e di contraddizioni, furono pure la conseguenza sia della morte prematura dello stesso Pietro Leopoldo (1º marzo 1792) che privò il figlio di una guida così autorevole e sicura, esponendolo all'influenza degli ambienti Più ostili alle riforme, sia della situazione sempre più difficile in cui la Toscana venne a trovarsi nel corso della guerra ormai generale.
Subito dopo la morte del padre F., accompagnato dal Manfredini, elevato alla carica di maggiordomo maggiore e divenuto il suo più ascoltato consigliere, si recò a Vienna, dove si trattenne per quasi quattro mesi, non solo per risolvere delicate e complesse questioni familiari, ma proprio per discutere con il fratello Francesco II l'atteggiamento che la Toscana avrebbe dovuto tenere nei confronti della Francia rivoluzionaria. Il nuovo imperatore si stava ormai orientando sempre più verso la guerra, contando anche sull'alleanza della Prussia e del Regno di Sardegna; ma il 20 aprile l'Assemblea legislativa francese aveva rotto gli indugi, dichiarando la guerra all'Impero ed iniziando così un conflitto di dimensioni europee nel quale fu presto coinvolta anche l'Inghilterra. F., sostenuto energicamente dal Manfredini-1 decise, invece, di attenersi al principio della neutralità della Toscana, già stabilito da Pietro Leopoldo il 1º ag. 1778; così la legge di neutralità, nuovamente pubblicata, venne subito inviata ai rappresentanti toscani all'estero, sottolineandone il carattere di "costituzione fondamentale perpetua della Toscana". La neutralità doveva, quindi, essere rigorosamente osservata in tutto il Granducato e, particolarmente, nel porto franco di Livorno, uno dei maggiori centri del commercio granario mediterraneo, alle cui franchigie erano ampiamente interessate le maggiori potenze europee.
Proprio prevedendo che il perdurare della guerra avrebbe reso assai difficile e precaria la neutralità toscana, mentre ancora si trovava a Vienna, F. per consiglio del Manfredini avanzò ai diplomatici di Napoli, Venezia, del Regno di Sardegna e dello Stato pontificio un progetto di comune neutralità armata che non ottenne, però, alcun successo.
In ogni caso, anche dopo la proclamazione della Repubblica, il granduca mantenne le relazioni diplomatiche con la Francia, continuate pure dopo la condanna e l'esecuzione di Luigi XVI e di Maria Antonietta. F. e il Manfredini furono perciò spesso accusati, sia in Toscana sia all'estero, di manifestare un'eccessiva parzialità verso un paese considerato ormai in preda al terrorismo e fautore di una rivoluzione generale europea. Ma la ragione di tale atteggiamento era la consapevolezza dell'estrema impotenza militare del Granducato che costringeva a mantenere i migliori rapporti possibili sia con i rappresentanti diplomatici francesi a Firenze, sia con quelli delle opposte potenze. A tale linea di condotta il governo toscano cercò sempre di attenersi, nonostante che il prolungarsi della guerra e la pressione crescente sia dei Francesi sia dei loro avversari inglesi rendessero sempre più difficile l'autonomia politica del paese e la sua neutralità, continuamente sottoposta alla minaccia di interventi stranieri. La situazione di difficile e faticoso equilibrio fu, infatti, presto compromessa dall'uccisione a Roma, il 13 genn. 1793, del rappresentante francese Nicolas de Bassville. La Repubblica dichiarò guerra alla S. Sede e chiese subito al granduca libero passo nel territorio toscano per le truppe francesi che intendevano marciare su Roma. F. rispose in termini generici, offrendosi piuttosto come mediatore. Il 19 febbraio scrisse al cardinale Andrea Corsini perché intercedesse presso il papa per giungere ad un accordo che allontanasse il pericolo della guerra in Italia; e propose la punizione dei colpevoli dell'assassinio e l'invio a Parigi di un plenipotenziario papale. Pio VI oppose un netto rifiuto; anzi si lamentò presso Francesco II dell'atteggiamento del granduca, proclive - riteneva - a lasciar passare le truppe francesi. Per il momento la gravità della situazione militare della Francia impedì, però, che avesse luogo la spedizione contro Roma e che la neutralità toscana fosse clamorosamente violata.
F. volle, comunque, giustificare la sua condotta di fronte al fratello e chiarire la propria posizione. Il 6 aprile scrisse appunto all'imperatore che l'unico mezzo per mantenere la pace in Toscana era l'attenersi alla più stretta neutralità, giacché la quasi inesistenza dell'apparato militare toscano non permetteva una politica diversa. Negava di aver mai concesso il passo ai Francesi; ma riconosceva che se le loro truppe avessero voluto attraversare il Granducato non avrebbe avuto alcun modo d'impedirglielo. Tuttavia, si dichiarava disposto "a seguire scrupolosamente ogni suggerimento", se l'esercito austriaco avesse assunto la difesa della Toscana; smentendo così la sua neutralità, chiedeva al fratello d'inviare al più presto e con la massima segretezza le sue truppe nel Granducato.
L'intervento austriaco non ebbe luogo né allora, né durante gli anni immediatamente successivi. Sicché il granduca dové far fronte da solo ad una situazione sempre più insostenibile. Ma, nonostante la diffusa avversione nei confronti della Francia di gran parte dell'opinione pubblica toscana. il suo governo non prese alcuna misura atta a danneggiare gli interessi francesi; e ciò sebbene, sin dalla primavera del 1792, alcune navi francesi non avessero ottemperato agli obblighi dovuti a un porto neutrale come quello di Livorno. Un sintomo, questo, assai preoccupante e che giustificava i timori di F., sicuro che non avrebbe mai potuto opporsi ad un attacco francese condotto per terra o per mare.
La neutralità toscana fu, però, messa in giuoco dall'arrivo nelle acque del Tirreno di una squadra navale inglese.
Già il 19 ag. 1793 il rappresentante inglese a Firenze, lord john Hervey, inviò una prima nota al ministro degli Esteri, A. Serristori, per censurare la condotta della Toscana nei confronti della Francia e dei suoi cittadini presenti in Toscana ed annunciare l'arrivo della squadra inglese che avrebbe offerto protezione a tutti gli Stati italiani desiderosi di "mettersi al sicuro dagli insulti e dalla tirannia dei Francesi". F. fece rispondere che la Toscana non si era mai allontanata, né intendeva allontanarsi dalla sua neutralità nei confronti di tutte le potenze. Lo Hervey, l'8 ottobre, rispose con un vero e proprio ultimatum: se il granduca, entro dodici ore, non avesse espulso il rappresentante francese e rotto le relazioni diplomatiche, una forza navale anglo-spagnola in procinto di giungere a Livorno avrebbe agito "offensiva mente" contro la città ed il porto. La minaccia ottenne il suo effetto: l'indomani F. fece comunicare al rappresentante Alexis de la Flotte che si trovava "costretto" ad intimargli di abbandonare la Toscana il più presto possibile, rassicurandolo però che aveva impartito l'ordine di non recare alcun danno a lui ed al suo seguito. Lord Hervey, non ancora soddisfatto, rinnovò la minacciosa richiesta chiedendo pure l'allontanamento del console francese di Livorno. Il granduca respinse questo nuovo ultimatum, dichiarando che non poteva assegnare alcun termine preciso, sino a che non avesse procurato ai diplomatici francesi i mezzi necessari per partire. Ma già il 13 cedeva alla richiesta inglese di restituire le granaglie di proprietà di alcuni mercanti di Tolone che erano state sequestrate su istanza del console francese a Livorno. Il 28 ottobre, poi, venne siglata una convenzione tra il Granducato e la Gran Bretagna che stabiliva la rottura delle relazioni diplomatiche con la Francia, contro l'impegno inglese a difendere i territori toscani da ogni attacco francese.
Nel gennaio 1794, dopo la riconquista repubblicana di Tolone, F. scrisse al fratello imperatore, esprimendo il timore che le truppe francesi potessero ora invadere l'Italia e chiedendo, in tal caso, asilo per sé e la propria famiglia nei domini austriaci. E, intanto, prendeva alcuni provvedimenti di scarsa efficacia, ben presto revocati. Il 6 febbraio ordinava l'espulsione di tutti i francesi, adducendo motivi di ordine pubblico e la scarsità dei generi frumentari. Poi, tra il giugno e l'agosto del 1794, ordinò l'aumento delle truppe toscane stanziali e la creazione di nuovi corpi. Consapevole però dell'assoIuta impossibilità di fronteggiare attacchi nemici, mirava, in tal modo, solo a rafforzare la sicurezza interna e l'ordine pubblico. Ma la politica migliore era, per lui, sempre quella della neutralità. Sicché ritenne opportuno ripristinare le relazioni diplomatiche con la Francia.
La scelta dell'uomo più adatto per questo compito cadde sul conte Francesco Saverio Carletti che aveva già avuto contatti con il diplomatico francese François Cacault, sui quali aveva riferito in un'importante corrispondenza con Neri Corsini, allora segretario del Consiglio di Stato. Il motu proprio del 4 nov. 1794 fornì al Carletti le credenziali per confermare l'intenzione della Toscana di tornare alla neutralità e la disponibilità a restituire, in contanti o natura, le granaglie sequestrate dagli Inglesi. Un altro motu proprio del 13 dicembre lo autorizzò poi a trattenersi a Parigi, per condurre a termine le trattative, con le più ampie facoltà di affrontare ogni affare relativo ai rapporti tra i due paesi. Il 9 febbr. 1795 venne, infine, firmato a Parigi il trattato che ristabiliva la neutralità della Toscana e le sue relazioni diplomatiche con la Repubblica.
Il comportamento troppo disinvolto del Carletti provocò il suo allontanamento da Parigi, ove fu sostituito dal Corsini che cercò in ogni modo di stornare i sospetti di un celato favoreggiamento nei confronti dell'Inghilterra. In realtà, molte navi inglesi continuavano a stazionare nel porto di Livorno, ove il clima politico era nettamente antifrancese e suscitava le continue proteste del console francese. Ma la posizione della Toscana divenne davvero critica l'anno seguente, dopo le travolgenti vittorie del Bonaparte, soprattutto quando questi pose il suo quartier generale a Bologna. F. gli inviò subito un'ambasceria, composta dal Manfredini, da Tommaso Corsini e da Lorenzo Pignotti, per convincerlo a non occupare Livorno, come sembrava ormai inevitabile. L'ambascieria non ottenne il suo scopo; le truppe francesi varcarono il confine toscano e, da Pistoia, il 26 giugno 1796, il generale comunicò al granduca che, per la palese impotenza toscana a mantenere la neutralità, avrebbe occupato la città ed il porto di Livorno. Il granduca rispose che non poteva né voleva opporsi, pur esprimendo la sua sorpresa per la decisione presa dal Direttorio.
Il 27 il Murat, al comando di una divisione, chiese al governatore di Livorno di far entrare le sue truppe in città; questi si affrettò ad accordare il permesso, ma, al tempo stesso, notificò pubblicamente l'imminente invasione, così da permettere al console ed ai commercianti inglesi di rifugiarsi con i propri beni sui loro mercantili presenti in buon numero nel porto e di allontanarsi indisturbati. All'occupazione francese gli Inglesi risposero bloccando il porto; e, poco dopo, occuparono Portoferraio, l'isola di Capraia, e ancora Campiglia e Castiglione della Pescaia. Lasciata una guarnigione a Livorno, il corpo francese ripiegò verso l'Emilia. Durante il suo viaggio di ritorno, Napoleone s'incontrò a Firenze con il granduca che lo ricevé con particolari attenzioni. Sembra anzi che, già in questo primo colloquio, il Bonaparte concepisse una buona considerazione del suo interlocutore, per il quale, anche in seguito, manifestò una certa simpatia.
L'occupazione francese di Livorno, i danni economici che ne derivavano e il costo del mantenimento della guarnigione francese pesarono subito gravemente sulle già dissestate finanze toscane. Si comprende perché F. inviasse, nel gennaio 1797, di nuovo il Manfredini a Bologna per trattare il ritiro delle truppe dalla Toscana e convincere Napoleone che la neutralità toscana avrebbe rappresentato un maggior vantaggio anche per la Francia. Una convenzione firmata il 10 gennaio stabilì che il Granducato avrebbe pagato un milione di lire tornesi in cambio dell'evacuazione della città ed avrebbe provveduto a rimborsare le varie Comunità per le spese sostenute per le truppe d'occupazione. Ma solo dopo che gli Inglesi ebbero abbandonato i territori toscani occupati anche i Francesi si allontanarono da Livorno (10 maggio). In ogni caso, il Granducato non seguì la sorte di altri Stati italiani che, dopo l'occupazione francese, erano stati rapidamente trasformati in repubbliche; né si ebbero in Toscana manifestazioni rilevanti di sentimenti filofrancesi e rivoluzionari o tentativi di suscitare movimenti o proteste che, in una situazione economica assai grave, potessero contribuire a trasformare l'assetto politico e portare al potere il piccolo gruppo dei giacobini toscani o, comunque, di coloro che con maggiore entusiasmo avevano accolto le idee repubblicane. Anzi, proprio in questo periodo si verificarono in Toscana accese manifestazioni di fervore religioso popolare o eventi "miracolosi", come quello della Madonna del Conforto di Arezzo, che dimostravano come la paura della guerra e delle sue terribili conseguenze provocasse nelle masse popolari il ritorno alle forme più tipiche della religiosità tradizionale.
Nondimeno, dopo che le truppe francesi, ripresa la guerra contro lo Stato pontificio, avevano invaso ed occupato gran parte delle Marche, la Toscana si trovò circondata quasi da ogni parte dalle armate repubblicane che potevano ormai disporne, senza alcuna difficoltà. mentre cresceva l'agitazione degli elementi filorepubblicani, sostenuta, in modo particolare, dal console francese a Livorno. Né le misure di polizia, caute e spesso timorose, potevano riuscire a controllare completamente l'opera dei pur ristretti circoli rivoluzionari e più ancora l'attiva propaganda svolta non solo da agenti francesi, ma, in maggior misura, dai rappresentanti a Firenze della Repubblica Cisalpina con la quale la Toscana aveva allacciato relazioni diplomatiche. Certo, la firma della pace tra l'Austria e la Francia, siglata a Campoformio il 17 ott. 1797, e, poi, l'apertura del convegno di Rastatt che avrebbe dovuto concludere la pace anche con il Sacro Romano Impero sembrarono rafforzare la neutralità della Toscana e, con essa, la sua autonomia. Ma già nel febbraio del 1798 le truppe francesi marciavano su Roma e. presto, con la proclamazione della Repubblica Romana veniva completato l'accerchiamento del Granducato. Pio VI si rifugiava a Siena, accrescendo le difficoltà diplomatiche di F. che fu costretto ad attribuire un carattere del tutto privato alla presenza del pontefice. E, tuttavia, l'attività diplomatica e politica svolta dal papa nel suo rifugio non era ignota al governo francese che premeva sul granduca perché la impedisse. Il pontefice fu così invitato a trasferirsi nella certosa di Firenze, mentre il Direttorio esigeva il suo allontanamento dall'Italia, proponendo come suo soggiorno la Spagna e, in un secondo tempo, la Sardegna. A Pio VI fu infine concesso di restare a Firenze, con la precisa condizione di cessare ogni intervento nelle vicende politiche italiane ed ogni critica alla Francia ed alla sua rivoluzione.
Ma neppure i buoni rapporti stabiliti con il Direttorio dal nuovo ministro plenipotenziario toscano, Luigi Angiolini, impedirono che si estendesse l'attività clandestina dei giacobini toscani, la cui manifestazione più preoccupante fu il complotto organizzato, nell'aprile 1798, da Orazio De Attellis, Giovanni Salucci e Leopoldo Micheli. Il De Attellis ed il Micheli furono facilmente scoperti ed arrestati dalla polizia; il processo, subito seguito, rivelò non solo che i congiurati avevano progettato l'uccisione del Manfredini e di altri consiglieri di F., ma che erano stati sostenuti dai diplomatici e dai governanti cisalpini. Il De Attellis fu condannato a morte, pena subito convertita nella prigione a vita che, in effetti, durò solo pochi mesi.
La sorte della Toscana venne ancora aggravandosi, allorché, con l'inizio della campagna napoleonica in Egitto (maggio 1798), ripresero le pressioni francesi per l'allontanamento del papa e venne avanzata dal Direttorio la richiesta di un forte prestito che il Granducato doveva concedere a favore dell'armata d'Italia. F., sia pure in forma molto diplomatica, respinse entrambe le richieste; ma non poté ottenere da parte francese la garanzia della neutralità toscana. Poi, alla fine di settembre, si profilò l'intervento napoletano a fianco degli Inglesi ed iniziarono, poco dopo, le operazioni militari che portarono alla caduta della Repubblica Romana. Il 28 novembre una squadra inglese si presentò dinanzi a Livorno, mentre i diplomatici inglese e napoletano a Firenze intimavano al granduca di lasciare sbarcare una forza d'occupazione napoletana. Ancora una volta, F. dovè consentire, pur protestando fermamente. Ma se l'occupazione napoletana durò breve tempo, sino al gennaio 1799, quando ormai l'esercito del Regno era stato travolto dalla rapida reazione francese, la sorte del Granducato era ormai segnata. Presa Lucca. che fu subito "democratizzata", le truppe francesi iniziarono, il 16 marzo, l'occupazione totale della Toscana: il 25 entrarono in Firenze, senza incontrare alcuna resistenza. L'indomani, il generale P.-L. Gaultier de Kervegnen, comandante le forze d'occupazione, intimò a F. di lasciare la Toscana, nel termine di ventiquattro ore. Così il 27 marzo, accompagnato dalla moglie, dai figli e da alcuni più stretti collaboratori, il granduca partì per Vienna, sotto la scorta della cavalleria francese, sino agli avamposti dell'esercito austriaco che era già entrato in guerra contro la Francia. Il Manfredini dové rifugiarsi in Sicilia, insieme al Fossombroni ed a Neri Corsini, mentre iniziava il governo di Charles Reinhard, investito della carica di commissario della Repubblica francese in Toscana.
F. non doveva tornare più in Toscana prima della fine della breve età napoleonica. Anche dopo che l'"insorgenza aretina" e l'arrivo delle truppe austriache posero fine al dominio francese, restaurando l'autorità granducale, egli, nonostante l'invito a tornare a Firenze che gli era stato rivolto dal Senato e le insistenti pressioni del Fossombroni, non si mosse da Vienna. Esternò - è vero - "il dovuto plauso al coraggio, fermezza e fedeltà di tutto quel popolo toscano", invitando i sudditi ad ubbidire agli ordini dell'imperatore e delle sue autorità; e, solo alla fine di agosto, attribuì al Senato il potere di agire in sua vece. Non ebbe, però, alcuna parte nell'ondata di arresti e persecuzioni contro i veri o presunti "giacobini" scatenata nei mesi seguenti; né influì su alcune delle decisioni prese dal Senato per far fronte alla gravissima situazione economica ed al malcontento crescente dei ceti popolari, specie delle città, ove il costo della vita saliva continuamente. Non venne a Firenze neppure per l'inumazione dei figlio Francesco che fu sepolto nella cripta di S. Lorenzo. con grandi cerimonie. Soltanto il 10 febbr. 1800 proclamò Arezzo "capo di provincia", in riconoscimento dei meriti degli insorti e preannunziò altre misure simboliche per manifestare la sua grafitudine.
L'occupazione austriaca e il precario governo della reggenza nominata da F. il 19 giugno terminarono il 15 ottobre con la nuova occupazione francese. Iniziò così una nuova fase della storia toscana che, dopo il breve periodo dei Regno di Etruria, si concluse con l'annessione all'Impero francese. Dopo il suo allontanamento da Firenze, F. visse alla corte di Vienna, senza alcuna possibilità di svolgere una propria attività politica, comportandosi con la massima fedeltà e lealtà nei confronti del fratello. Le sue sorti, insieme con quelle della Toscana, furono decise dal trattato di Lunéville (9 febbr. 1801). Inutilmente i rappresentanti austriaci tentarono di ottenere che il granduca tornasse in Toscana; Napoleone fu inflessibile. Sicché F. dové rinunziare per sé e i propri successori al Granducato in favore dell'infante Ludovico di Borbone Parma. Gli fu assicurato un pieno indennizzo nei territori germanici che, secondo un articolo segreto, consisteva nel principato arcivescovile di Salisburgo e nella prepositura di Berchtesgaden delle cui secolarizzazioni si era già trattato in occasione del congresso di Rastatt.
F. rifiutò di accettare la perdita della Toscana; inviò accorati appelli al papa, allo zar e al re d'Inghilterra, protestando contro l'ingiusta decisione. Si rivolse, infine, direttamente a Napoleone, al quale chiese di poter inviare un proprio rappresentante per esporre le ragioni della sua protesta. L'inviato fu Luigi Angiolini, le cui argomentazioni furono subito respinte dal Bonaparte. Né ottenne miglior risultato il Manfredini, giunto poco dopo a Parigi: anche il ventilato progetto di un indennizzo in Italia, costituito dai territori veneti o dalla stessa Venezia, non ebbe alcun esito. A F. rimase la sola opportunità di ottenere qualche altro compenso territoriale in aggiunta all'indennizzo già pattuito.
Nell'agosto del 1802 la Deputazione straordinaria dell'Impero, riunita a Ratisbona per stabilire indennizzi e compensi per i principi tedeschi danneggiati dal trattato di Lunéville, gli attribuì definitivamente Salisburgo, Berchtesgaden e parte del vescovato di Passovia; poi, lo stesso Napoleone, nel novembre, gli fece assegnare anche la maggior parte del vescovato di Eichstätt di cui, però, aveva già preso possesso la Baviera. F. dové rinunciare alle enclaves di Ansbach e Bayreuth che rimasero alla Baviera, in cambio dei possessi palatino-bavaresi in Boemia. Alla fine del 1802, con il trattato di Parigi, Francia e Russia, s'impegnarono inoltre a fargli ottenere il titolo di principe elettore dell'Impero che ebbe poi, ma solo a titolo personale.
Tutti i territori attribuiti a F. erano in realtà assai più piccoli e meno popolati della Toscana, oltre ad essere separati e lontani gli uni dagli altri; ed erano inoltre occupati dall'esercito austriaco che aveva dovuto contenderli ai Bavaresi. Il principe riconobbe che Salisburgo costituiva ormai un "caposaldo" della monarchia asburgica, integrato nel suo sistema difensivo; ma rivendicò dignitosamente la propria autonomia anche nei confronti del fratello imperatore. Nondimeno, nonostante le assicurazioni subito fornite da Francesco III la sua libertà d'azione restò limitata soltanto alla politica interna. Venne però riconosciuto, per Salisburgo, come già per la Toscana, il principio della secondogenitura. Solo nel caso che questa si fosse estinta, i territori di F. sarebbero passati alla linea principale. Poco dopo l'ex principato arcivescovile di Salisburgo venne elevato dall'imperatore a Ducato. F. fece la sua entrata in Salisburgo alla fine di aprile del 1803, accompagnato da un seguito composto da molti italiani. Affidò al Manfredini la carica di "ministro dirigente" ed al principe Giuseppe Rospigliosi quella di gran tesoriere.
Nell'estate del 1805 l'Austria aderì alla coalizione antifrancese che riuniva Inghilterra, Svezia e Russia, mentre la Baviera ed altri Stati germanici si alleavano con la Francia. L'attacco austriaco contro la Baviera fu vittorioso; ma l'intervento dell'armata napoleonica rovesciò le sorti della guerra. All'approssimarsi delle truppe francesi, F. partì per Vienna e di qui proseguì per Buda, mentre, tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre, i Francesi entravano in Salisburgo, che occuparono sino al marzo dell'anno successivo. Durante le trattative che portarono alla pace di Presburgo (26 dic. 1805) Francesco tentò inutilmente di far attribuire al fratello i territori austriaci in Italia; e, per qualche tempo, si parlò pure di un compenso nel Tirolo in cambio di Salisburgo. Infine, il trattato stabilì che Salisburgo e Berchtesgaden passassero all'Austria e Passovia ed Eichstátt alla Baviera. F. fu compensato con l'antico vescovato di Würzburg sul Meno, passato da poco alla Baviera. Il titolo di elettore fu trasferito al principato di Würzburg, ove egli avrebbe esercitato una sovranità piena ed autonoma, con la medesima clausola della secondogenitura. Il 1º maggio 1806 F. entrò a Wúrzburg, già presidiata dalle truppe austriache; poco dopo nominò "ministro dirigente" in luogo del Manfredini il conte Anton von Wolkenstein-Trostberg.
Anche il nuovo possesso era costituito da territori non contigui, comprendenti possedimenti e diritti particolari degli Stati confinanti, così come il principato di Würzburg aveva varie enclaves nei loro territori; il che creò complicate questioni confinarie. Dopo la formazione della Confederazione del Reno e la rinunzia di Francesco al titolo d'imperatore del Sacro Romano Impero, F. vi aderì, ottenendo però solo modesti ingrandimenti territoriali. Rinunziò alla dignità di principe elettore, assumendo il 30 sett. 1806 il titolo di granduca di Würzburg.
Intanto si delineava un nuovo conflitto tra la Francia e la Prussia; e Würzburg, strategicamente assai importante, si trovò al centro dei movimenti delle truppe francesi. Napoleone stesso vi giunse il 2 Ottobre, all'indomani dell'ultimaturn prussiano, e vi pose il proprio quartier generale. Il piccolo Granducato dové fornire all'esercito napoleonico due battaglioni e procurare viveri ed alloggiamenti. F., dopo un incontro con Napoleone, scrisse al fratello, esponendogli i disegni del Bonaparte e l'opportunità di un'alleanza austrofrancese. L'accordo non fu raggiunto e l'Austria si mantenne neutrale.
Iniziata la guerra, F. lasciò Würzburg, dove tornò soltanto alla vigilia di Natale, quando si fu allontanato il fronte di guerra. In seguito Würzburg dové fornire il suo contingente anche per la campagna del 1807 contro la Prussia e la Russia.
Dopo la vittoria francese F. fu invitato ufficialmente a Parigi. Vi giunse nell'agosto 1807 e vi si trattenne per tre mesi, accolto con particolare riguardo, sia per la simpatia personale di Napoleone, sia perché poteva essere un utile intermediario per un accordo con l'Austria. Mentre era a Parigi istituì l'Ordine di S. Giuseppe, di cui fu subito insignito Napoleone.
I rapporti tra Austria e Francia peggiorarono rapidamente nel corso dell'anno successivo. F., come principe della Confederazione del Reno, si trovò nella difficilissima, condizione di essere legato all'alleanza francese e perciò obbligato a partecipare alla guerra contro il fratello. Ma, poiché il contingente del Würzburg era già impegnato in Spagna, le sue truppe non parteciparono direttamente alle operazioni contro l'Austria. Anche in questa occasione il granduca lasciò la capitale per ritirarsi a Francoforte, e vi ritornò solo dopo la vittoria francese di Wagram. Nel corso delle trattative per la pace, Napoleone offrì all'Austria il mantenimento della sua integrità territoriale, a condizione che Francesco abdicasse in favore di F. che, peraltro, non era stato neppure consultato. Il granduca fece un altro viaggio a Parigi nel marzo del 1810, in occasione delle nozze della nipote Maria Luisa con Napoleone. La sua fedeltà alla Francia e la nuova parentela gli permisero, questa volta, di ottenere discreti ingrandimenti territoriali, con l'incorporazione di alcune enclaves bavaresi che migliorarono i confini del Granducato. Tornò nuovamente a Parigi nel 1811, come padrino per il battesimo del re di Roma.
Dopo un breve periodo di pace, la crisi intervenuta tra la Francia e la Russia minacciò nuovamente la guerra. In previsione della nuova campagna, truppe francesi tornarono nel Granducato che fu costretto di nuovo a versare contributi e fornire contingenti. Nel maggio del 1812 F. e Napoleone s'incontrarono a Wúrzburg; ed è probabile che, in tale occasione, l'imperatore francese ventilasse il progetto di attribuirgli il futuro Regno di Polonia, da creare dopo la sconfitta russa. Durante la campagna di Russia, i soldati del Würzburg si batterono nei ranghi della Grande Armée, mentre il territorio granducale diveniva di nuovo un'importante base logistica.
La disfatta napoleonica dell'autunno 1812 rese assai pericolosa la posizione politica di Ferdinando. Durante la campagna di Germania, nella primavera seguente, il Würzburg restò ancora schierato con la Francia; le sue truppe parteciparono alla vittoria napoleonica di Bautzen. F. lasciò, tuttavia, ancora una volta, lo Stato, per riparare nei possedimenti boemi; ed è probabile che già allora venisse a conoscenza dell'imminente passaggio dell'Austria dall'alleanza con la Francia a quella con la Russia, la Prussia, l'Inghilterra e la Svezia. Tornò, però, ancora a Würzburg, dove i Francesi si erano fortemente arroccati nella fortezza di Marienberg. Il 12 agosto l'Austria aderì alla coalizione antifrancese; ma F. continuò, almeno in apparenza, a partecipare all'alleanza francese, pur iniziando un cauto e graduale sganciamento. Quando poi, l'8 ottobre, anche la Baviera abbandonò Napoleone, F. si rifugiò a Mergentheim, proprio nei giorni della battaglia di Lipsia. L'esercito austrobavarese occupò il Granducato e, di fronte al rifiuto francese di cederla, attaccò la capitale che fu costretta alla resa. Poco dopo F. annunziò il suo distacco dalla Confederazione del Reno e fece ritorno a Würzburg, dove i Francesi continuavano a resistere nella fortezza di Marienberg che si arrese solo il 21 maggio 1814.
F., certo che con la caduta dell'Impero napoleonico gli sarebbe stata restituita la Toscana, fin dal gennaio aveva intanto nominato il Rospigliosi suo plenipotenziario presso il generale H. Y. de Bellegarde, comandante dell'armata austriaca in Italia. Acconsenti, quindi, senza difficoltà, alla cessione di Wúrzburg alla Baviera, sancita dal trattato austrobavarese del 12 giugno. Intanto il 20 aprile era già stata firmata, a Parma, la convenzione tra il rappresentante di Gioacchino Murat (allora alleato all'Austria) che aveva occupato la Toscana, il rappresentante austriaco e il Rospigliosi, in base alla quale il granduca veniva reintegrato nel possesso della Toscana. Il 25 aprile lo stesso Murat indirizzò un proclama ai Toscani per informarli del ritorno del granduca, mentre il Rospigliosi prendeva possesso dello Stato in suo nome. Si preparava il congresso di Vienna che avrebbe dovuto decidere anche la sistemazione definitiva dell'Italia; F., che si trovava a Schónbrunn, vi delegò come suo plenipotenziario Neri Corsini, il cui compito non si presentava facile, per l'opposizione dell'ex regina di Etruria che, sostenuta dalla Spagna e poi anche dal Talleyrand, non intendeva rinunciare alla Toscana. Ma il granduca poteva, a sua volta, contare sull'appoggio determinante del Metternich, deciso a ristabilire l'egemonia asburgica in Italia.
In ogni caso, già il 17 settembre, F. tornò a Firenze, accolto da calorose manifestazioni di giubilo.
La fuga di Napoleone dall'isola d'Elba (28 febbr. 1815) e, nell'aprile, la rottura tra il Murat e l'Austria e il suo attacco contro le truppe del Bellegarde, condotto proprio nelle Marche e in Toscana, costrinsero il granduca a inviare la propria famiglia in direzione di Mantova e a ritirarsi a Pisa. Ma dopo pochi giorni tornò a Firenze; e anzi un piccolo contingente di truppe toscane partecipò a fianco degli Austriaci alle ultime fasi della campagna conclusa con la fuga del Murat. Al loro ritorno. tali truppe cooperarono con gli Austriaci all'occupazione dell'isola d'Elba, avvenuta nel corso dell'estate.
Il 9 giugno erano stati, intanto, firmati i protocolli del trattato di Vienna riguardanti l'Italia. Il Granducato di Toscana, ricostituito nei suoi antichi territori, ottenne inoltre lo Stato dei Presidi, la parte dell'Elba già appartenente ai Borboni di Napoli, il principato di Piombino con le sue dipendenze, i feudi imperiali di Vernio, Montauto e Santa Maria, nonché il diritto alla reversibilità del neocostituito Ducato di Lucca. L'accordo fu perfezionato il i o giugno 1817, con il trattato di Parigi, e più tardi rettificato, per una migliore sistemazione dei confini, con il trattato di Firenze (28 nov. 1844). Infine, il 12 giugno il Corsini stipulava a Vienna un trattato di alleanza e di amicizia tra la Toscana e l'Austria.
Al suo ritorno in Toscana F. dové affrontare problemi economici e politici gravi e difficili. Già il Rospigliosi, che nutriva tendenze più che conservatrici, aveva subito ripristinato il Buongoverno, alla cui presidenza era stato assunto Aurelio Puccini, un ex giacobino passato ormai su posizioni conservatrici, incline a sopprimere istituzioni di marca "francese", quali la gendarmeria e la guardia nazionale. Altro provvedimento del Rospigliosi fu la nomina di una commissione legislativa che, eliminando le leggi del periodo borbonico e francese, avrebbe dovuto restaurare il diritto civile e penale toscani vigenti nel 1799. La commissione era però presieduta dal Fossombroni, ben consapevole della necessità di conservare varie leggi francesi, tra le quali l'abolizione dei diritti feudali, la legislazione sulle ipoteche, l'eliminazione dei fidecommissi, lo stato civile, i testamenti, ecc., e, in generale, tutto il diritto commerciale. In sostanza, fu raggiunto un compromesso tra la pur buona legislazione toscana del passato e quelle leggi che erano ormai rese necessarie dal nuovo corso della, vita sociale e delle attività economiche.
Per quanto concerne la composizione del governo, F., già prima del rientro a Firenze, nominò proprio il Fossombroni segretario di Stato, primo direttore delle reali segreterie, ministro degli Affari esteri e direttore del dipartimento di Guerra. A capo della segreteria delle Finanze nominò Leonardo Frullani che fu anche incaricato della direzione della Reale Depositeria. Neri Corsini riprese le funzioni di direttore della segreteria di Stato e di gran ciambellano. La scelta del Fossombroni e del Corsini dimostrava bene quali fossero le intenzioni del granduca nei confronti dei numerosi funzionari toscani che avevano già servito il governo francese, perché si trattava di personalità che avevano svolto attività politica e amministrativa assai rilevante durante i passati regimi, ottenendo alti riconoscimenti dallo stesso Napoleone. In effetti nessuno dei funzionari fu allontanato dai propri uffici, né furono perseguitati in alcun modo coloro che avevano servito le autorità napoleoniche.
Nondimeno furono presi provvedimenti atti a rafforzare l'autorità assoluta del sovrano. In particolare, con l'editto del 16 sett. 1816, la nomina dei gonfalonieri delle Comunità fu attribuita al granduca, mentre i priori furono per metà estratti a sorte e, per metà, nominati dal provveditore provinciale. Al gonfaloniere furono affidati compiti di vigilanza e di polizia, ma sempre alle strette dipendenze del sovrano.
La riorganizzazione del governo e dell'amministrazione locale lasciava, tuttavia, aperte numerose e impellenti questioni di varia natura, dalla restituzione delle opere d'arte trafugate in Francia ai problemi relativi alla politica ecclesiastica, dalla liquidazione e pagamento delle somme dovute dal governo francese alle misure necessarie per far fronte ad una situazione economica e finanziaria dissestata dai lunghi anni di guerra e di occupazione straniera. I commissari toscani inviati a Parigi riuscirono ad ottenere il sollecito ritorno a Firenze della massima parte delle opere d'arte e dei codici più preziosi. Contemporaneamente una giunta straordinaria di liquidazione procedé, insieme ai rappresentanti francesi, alla sistemazione delle questioni finanziarie pendenti con la Francia, concluse con una transazione soltanto il 25 apr. 1818. La Toscana ottenne dei compensi che però ripagavano solo in minima parte le ingenti spese e i pesanti danni subiti durante la dominazione francese. Ancor più laboriose furono le trattative con la S. Sede per ridefinire i rapporti tra le autorità ecclesiastiche e lo Stato toscano e i diritti specifici del potere sovrano. Particolarmente grave era il problema costituito dalle proprietà degli Ordini religiosi e conventi soppressi, vendute a privati o usate a beneficio dello Stato durante il periodo francese. Il governo granducale si dimostrò disposto a restituire i patrimoni non ancora alienati; ma il delegato apostolico, l'arcivescovo Tommaso Arezzo, chiese addirittura l'annullamento delle leggi leopoldine sulla limitazione dell'acquisizione e possesso dei beni ecclesiastici attraverso la manomorta. Le leggi restarono in vigore, nonostante le proteste e la netta opposizione della Curia romana. Tuttavia lo Stato toscano, sebbene si fosse dichiarato vero proprietario dei beni della Chiesa, chiese a Roma di ratificare l'esproprio dei beni conventuali compiuto dai Francesi. Il 4 nov. 1815 la commissione toscana formata da Giovanbattista Nuti e Francesco Cempini stipulò una convenzione che stabiliva il ripristino di 77 conventi, esclusi quelli dei frati questuanti. Non furono riammessi, in nessun modo, i gesuiti.
Lo Stato non aveva, comunque, i mezzi finanziari necessari per ripristinare i conventi, sicché si rese necessaria la vendita di un'altra porzione dei beni ecclesiastici già confiscati, allo scopo di provvedervi. In ogni caso, la proprietà e l'amministrazione dei beni furono poste sotto la piena tutela delle leggi toscane, mentre veniva confermata la precedente legislazione giurisdizionale sui regolari.
Un'altra questione ancora aperta con la S. Sede era quella relativa al controllo esercitato sulla Chiesa toscana da parte dell'ufficio del Regio Diritto che era stato ripristinato, sin dal novembre del 1814, con tutti i poteri che esso esercitava nel 1799: vigilare che bolle, brevi e altri atti papali o di diverse autorità ecclesiastiche non fossero pubblicati senza l'exequatur dei granduca; fungere da organo giudiziario nei ricorsi in appello in materia ecclesiastica e provvedere alla gestione finanziaria dei conventi. Anche in questo caso, nonostante l'opposizione papale, l'ufficio fu mantenuto, così come venne conservata la registrazione dello stato civile, stabilendo però che i parroci ne fossero i funzionari incaricati. In tal modo, sia pure con diverse attenuazioni, fu conservata la tradizione giurisdizionalistica lorenese.
Assai più urgenti e gravidi di pericoli per la tranquillità interna erano però i molti problemi posti dal dissesto finanziario ed economico del Granducato estremamente impoverito dai lunghi anni di guerra. Già nel luglio 1814 il Rospigliosi aveva reintrodotto, sia pure con alcune eccezioni, la tariffa doganale del 1791. Ma il Fossombroni, appena divenuto ministro, restaurò la piena libertà di commercio all'interno e con l'estero. Si trattava di Iin provvedimento che si richiamava alla tradizionale politica leopoldina, in contrasto però con le condizioni d'insicurezza ancora perduranti nelle attività commerciali, specie nei mercati del Levante, sempre minacciati dalle incursioni barbaresche. L'intervento della flotta inglese che, nel 1816, bombardò Algeri permise una lenta ripresa del commercio marittimo livornese che, nondimeno, non valse a migliorare in brevi tempi le condizioni economiche generali, aggravate dal susseguirsi di cattivi raccolti e dalla scarsità di manodopera dovuta alle coscrizioni ed alle guerre. I prezzi erano saliti a livelli difficilmente tollerabili dalla maggior parte della popolazione; per di più, la Toscana fu pure colpita da gravi epidemie di tifo e di febbre gialla che fecero numerose vittime, specie a Livorno. In questa situazione il governo stabilì che chiunque potesse presentarsi al proprio Comune per chiedere un lavoro consono alle proprie capacità; misura temporanea, presa per impedire il dilagare della disoccupazione e l'aggravarsi del pauperismo. Per creare posti di lavoro furono fatti grossi investimenti nei lavori pubblici e, in particolare, seguendo, anche in questo, la tradizione leopoldina, furono progettate e costruite nel tempo le strade della Valdichiana, del Casentino, l'Arezzo-Siena, l'Arezzo-Chiusi, cosi come vennero completate la via Sarzanese sino al confine, quella da Torre San Vincenzo a Terranuova e a Piombino e la carrozzabile da Grosseto a Orbetello, in modo da collegare i nuovi territori acquisiti. L'opera pubblica più importante fu certo la bonifica della Valdichiana, compito precipuo del Fossombroni, anche nella sua qualità di grande competente di ingegneria idraulica.
Un secondo aspetto della politica economica della Restaurazione fu lo stimolo offerto all'iniziativa privata, mediante aiuti pubblici e l'intervento delle istituzioni bancarie. Nel 1816 fu fondata la prima banca di sconto che mirò a far giungere in Toscana anche capitali stranieri, mentre cominciavano a nascere le prime Casse di risparmio per favorire i piccoli risparmiatori. Si provvide pure alla riforma della tassazione, mediante l'istituzione di una modica imposta fondiaria (nassa prediale") che rese ancor più necessaria l'attuazione del nuovo catasto, già iniziato dal governo francese e che fu ultimato solo nel 1834. Rimasero, però, a carico dello Stato le passività del vecchio Monte comune che non fu ripristinato.
Le misure prese non incontrarono tutte l'approvazione della popolazione e anche di una parte della classe dirigente toscana. In particolare fu posto in discussione (e sede del dibattito fu principalmente l'Accademia dei Georgofili) il ristabilimento del libero commercio dei prodotti agricoli. Il progressivo miglioramento della situazione economica europea, la ripresa del commercio specie granario con il Levante e l'aumento della produzione agricola toscana portarono, comunque, negli anni seguenti a una sostanziale discesa dei prezzi, allontanando il pericolo di carestie e le più gravi cause di malcontento. Ma ciò non diminuì le preoccupazioni e le tendenze protezionistiche di molti agrari che chiedevano il blocco o la limitazione delle importazioni dei grani, e sostenevano che la forte discesa dei loro utili avrebbe provocato una ripresa della disoccupazione. Il Fossombroni, però, non revocò né attenuò la sua politica liberistica che caratterizzò nettamente l'età della Restaurazione toscana.
Assai limitata e modesta fu, naturalmente, la politica estera del Granducato, condizionata dall'alleanza austriaca e dallo stretto legame dinastico asburgico. Su invito dell'Austria, la Toscana dové aderire alla Santa Alleanza, anche se l'atto relativo fu siglato soltanto il 27 genn. 1818. F. non poté permettere che, dopo i Cento giorni, si rifugiasse in Toscana la madre di Napoleone, Letizia Bonaparte, e dovette invitarla a proseguire per Roma. Più tardi, però, la Toscana offrì larga ospitalità a tutti i Bonaparte e Firenze divenne presto la città italiana dove trovarono un tollerante ricetto molti esuli e perseguitati politici. D'altro canto, la tradizionale politica "matrimoniale" condotta dagli Asburgo contribuì a stabilire stretti rapporti tra la famiglia granducale toscana e le monarchie dei due Stati italiani presto coinvolti nei primi movimenti insurrezionali: il Regno delle Due Sicilie ed il Regno di Sardegna.
Come si è detto F. aveva sposato la principessa napoletana Luisa di Borbone, morta però già nel 1802; la figlia sedicenne Maria Teresa sposò, nel 1817, Carlo Alberto di Savoia Carignano, erede presunto del trono di Sardegna; in questo stesso anno l'erede Leopoldo si unì con Maria Anna di Sassonia. Questo matrimonio non dette, per il momento, eredi maschi. Così, preoccupato per la continuità della secondogenitura, F. sposò, nel 1821, la sorella della propria nuora, Maria Ferdinanda di Sassonia. Ma anche questo matrimonio non dette eredi.
Allorché nel 1820, dopo le rivoluzioni spagnola e napoletana e la concessione delle costituzioni, fu convocato a Lubiana il congresso della Santa Alleanza, F. non vi si recò di persona e vi inviò Neri Corsini che sostenne la necessità dello statu quo in Italia, ma difese l'autonomia della Toscana, cercando di opporsi alla richiesta di far passare per il Granducato le truppe austriache incaricate d'intervenire a Napoli. Alla fine però dovette cedere. Ciò non impedì che a Firenze potesse trovare rifugio uno dei maggiori protagonisti della vicenda napoletana, Pietro Colletta, e che, proprio nel 1820, Gian Pietro Vieusseux potesse darvi vita al suo Gabinetto scientifico letterario di cui non occorre ricordare la profonda influenza sulla cultura toscana ed italiana. Nel 1821, poi, la pubblicazione dell'Antologia confermò che la capitale toscana non era soltanto uno dei centri più vitali della cultura italiana del tempo, ma che, grazie ad una politica ispirata a criteri di tolleranza, poteva ospitare una rivista che non nascondeva le proprie simpatie liberali e alla quale collaboravano esuli e rappresentanti tra i più tipici delle nuove correnti di pensiero.
Anche l'insurrezione piemontese del 1821 ebbe importanti riflessi sulla politica toscana. Carlo Alberto trovò rifugio a Firenze presso il suocero; e, nel congresso di Verona del settembre 1822, Neri Corsini, seguendo le direttive del granduca, difese il diritto di successione del Carignano, mentre si rifiutò di accettare la proposta di costituire una sorta di ufficio centrale di polizia politica comune a tutti gli Stati italiani e sostenne la politica tollerante della Toscana che - a suo avviso - permetteva un miglior controllo delle personalità e tendenze liberali. Né mancò, specie a Firenze e a Livorno, un'evidente simpatia e solidarietà con gli insorti greci condivisa anche da uomini che appartenevano alla classe dirigente del Granducato, come il banchiere e consulente amministrativo Jean-Gabriel Eynard.
F. morì a Firenze, dopo breve malattia, il 18 giugno 1824; fu sepolto nelle cappelle granducali di S. Lorenzo.
Fonti e Bibl.: Si indicano, con poche eccezionì, solo i più recenti scritti sui Lorena in generale, e su F. in particolare; per opere precedenti e per le fonti archivistiche si rinvia alle indicazioni in essi contenute. A. Zobi, Storia civile della Toscana..., II, Firenze 1850, pp. 340-345, 495 ss.; III, ibid. 1851, passim;IV, ibid. 1852, pp. 5-312; G. Baldasseroni, Leopoldo II granduca di Toscana e i suoi tempi, Firenze 1871, pp. 33-54;A. Morena, Dissidi nella corte del granduca F. III dal riconoscimento della Repubblica francese all'occupazione di Livorno, in Arch. stor. ital., XVII (1896), 2, pp. 379-382;L. De Santis, Federigo Manfredini e la sua politica (Contributo alla storia dei Lorenesi in Toscana), Roma 1919, passim;P. Pieri, La Restaurazione in Toscana, 1814-1821, Pisa 1922;L. Dal Pane, La questione del commercio dei grani nel Settecento in Italia, I, Parte generale. Toscana, Milano 1932, pp. 320-380; A. Aquarone, Aspetti legislativi della Restaurazione toscana, in Rass. stor. del Risorgimento, XLIII (1956), I, pp. 3-34; L. Dal Pane, La finanza toscana dagli inizi del sec. XVIII alla caduta del Granducato, Milano 1965, pp. 181-209, 273-334; G. Pansini, L'amministrazione del Granducato di Toscana dal 1815 al 1859, in Mostra storica dell'unificazione amministrativa italiana. Guida alla mostra, Firenze 1965, pp. 1226; G. Mori, L'industria del ferro in Toscana dalla Restaurazione alla fine del Granducato (1815-1859), Torino 1966, ad Indicem;A. Wandruszka, Pietro Leopoldo, un grande riformatore, Firenze 1968, II, ad Indicem;G. Turi, "VivaMaria". La reazione alle riforme leopoldine (1790-1799), Firenze 1969, ad Indicem;L. Dal Pane, Industria ecommercio nel Granducato di Toscana nell'età del Risorgimento, I, Il Settecento, Bologna 1971, ad Indicem; II, L'Ottocento, ibid. 1973, ad Indicem;L. Bortolotti, La Maremma settentrionale 1738-1970. Storia di un territorio, Milano 1980, ad Indicem;P. Bellucci, I Lorena in Toscana. Gli uomini e le opere, Firenze 1984, ad Indicem;V. Becagli, La tariffa doganale nel 1791 e il dibattito sulla libertà di commercio, in La Toscana nell'età rivoluzionaria e napoleonica, a cura di I. Tognarini, Napoli 1985, pp. 279-292; F. Pesendorfer, F. III e la Toscana in età napoleonica, Firenze 1986; Id., LaToscana dei Lorena. Un secolo di governo granducale, Firenze 1987, pp. 89-140; Il governo di famiglia in Toscana. Le memorie del granduca Leopoldo II di Lorena (1824-1859), a cura di F. Pesendorfer, Firenze 1987, ad Indicem;F. Pesendorfer, Leopoldo II di Lorena. La vita dell'ultimo granduca di Toscana, Firenze 1989, ad Indicem; I Lorena in Toscana. Convegno internazionale di studi (Firenze 20-21-22 nov. 1987), a cura di C. Rotondi, Firenze 1989, passim; La Toscana dei Lorena. Riforme, territorio, società. Atti del Convegno di studi (Grosseto, 27-29 nov. 1987), a cura di Z. Ciuffoletti-L. Rombai, Firenze 1989, ad Indicem; Parigi-Firenze 1789. La Toscana e la Rivoluzione francese. Atti del Convegno di studi, in Il Vieusseux, III (1990), 9, passim.