PAOLETTI, Ferdinando
– Nacque il 23 dicembre 1717 in località Alla Croce presso Bagno a Ripoli (Firenze) da una famiglia di civile condizione originaria di Sesto fiorentino.
Compiuti gli studi presso il seminario vescovile della capitale e ordinato sacerdote, dopo un tentativo di raggiungere Palermo quale insegnante in un collegio, fallito per malattia, fu per qualche anno lettore di umanità e rettore del seminario di S. Miniato.
Uomo di cultura, d’ispirazione muratoriana e antiquaria, nel 1743 pubblicò a Firenze una dissertazione Della teologia de’ Caldei (in Antichità illustrata per mezzo di dissertazioni, tanto edite, quanto inedite, ovvero Introduzione generale allo studio dell’Antichità, Firenze 1743), in cui mostrò agguerrite competenze storico-filologiche, che gli guadagnarono il riconoscimento di Giovanni Lami, direttore delle Novelle letterarie. I loro rapporti sono attestati da una lettera di Paoletti e dal suo impegno nella diffusione del periodico a S. Miniato. Qui Paoletti promosse un’accademia, utile per «il buon gusto e l’avanzamento delle lettere» (Mirri, 1967, pp. 36-37 n. 5) tra i giovani. Volta agli studi di erudizione sacra e profana, di teologia e filosofia, l’istituzione si segnalò anche per l’apertura alle scienze naturali e al newtonianesimo, allora agli inizi della sua fortuna italiana.
Nel 1746, forse per contrasti interni, fu trasferito come pievano a S. Donnino (Villamagna), dove trascorse il resto di una vita priva di grandi eventi e poco documentata dalle fonti.
Nel lungo periodo di silenzio seguito al trasferimento maturò notevoli competenze tecniche in campo agricolo, dedicandosi alla coltura dei tre poderi del suo beneficio (in totale 25 ettari) e alla cura solerte di un piccolo gregge di ‘anime’ (ca. 300 persone). L’interesse per l’agricoltura fu probabilmente rafforzato dalla vicinanza delle tenute di alcuni grandi proprietari fiorentini, con cui egli fu in contatto: Orlando Malevolti Del Benino, i Martelli e gli Altoviti, il marchese Carlo Rinuccini. Su queste basi diede alle stampe i Pensieri sopra l’agricoltura (Firenze 1769; poi nelle Opere agrarie, Firenze 1789, in due volumi), la prima delle sue opere agrarie.
Attento alle misere condizioni dei contadini, Paoletti proponeva concrete e specifiche misure per incrementare la redditività e la produttività dei suoli, pur restando all’interno del prevalente quadro mezzadrile, del seminativo cerealicolo e della piccola coltura promiscua. Ne veniva arricchita la funzione del parroco (con trasparenti echi da Muratori), pastore d’anime ed educatore del proprio popolo tramite l’istruzione, le nuove tecniche, l’indicazione delle migliorie possibili, il proprio vigoroso esempio morale. Della diffusione capillare dei saperi agrari doveva farsi carico anche il potere regio, istitutore di pubbliche cattedre di agricoltura aperte al clero, entro un disegno complessivo di graduale sviluppo, di cui erano parte la riduzione del prelievo fiscale sui contadini e l’eliminazione della questua dei frati mendicanti. Fulcro dell’intero processo era la grande proprietà fondiaria, esponente di un ordine trascendente legato a precisi presupposti teologici di cui la natura era interprete e manifestazione. «Divine», le leggi della società erano complementari «alle dottrine apostoliche», mentre la necessità del mantenimento delle gerarchie dava spazio a una disciplina severa dei contadini, che prevedeva la disdetta immediata dei contratti mezzadrili in caso di mancanze e denunciava ignoranza e caparbietà di una forza lavoro troppo incline ai «divertimenti» e, quando possibile, al «lusso».
Tutto ciò precostituiva il quadro in cui avviare migliorie, sviluppando la coltura della vite e l’esportazione vinicola, la produzione dell’olio, il potenziamento del bestiame mediante «cascine appoderate» dotate di vacche da latte per la commercializzazione dei latticini sui mercati urbani, resi più accessibili grazie alla semplificazione e all’ammodernamento della rete viaria.
La dimensione tecnico-agraria del testo (poi accolta dalla migliore letteratura specialistica, da Marco Lastri a Filippo Re) si apriva a più ampie prospettive nella difesa del liberismo cerealicolo. Paoletti coglieva così l’importanza del mercato internazionale in espansione e la richiesta di liberalizzazione dell’economia toscana, avvertita già nel corso della carestia del 1764-66 e fatta propria da molti possessori. I Pensieri sostenevano, dunque, il liberalismo frumentario avviato dal governo nel 1767 e sancito poi (1775) dalla completa liberalizzazione dell’esportazione e dell’importazione dei cereali. La fase di transizione al nuovo regime giustifica le esitazioni di Paoletti, nell’operetta del 1769, verso l’illimitata esportazione dei grani – che gli guadagnarono critiche all’uscita del libro –, mutate poco dopo nella difesa completa e coerente del liberoscambismo.
La sua fama è legata tuttavia al De’ veri mezzi di render felici le società (Firenze 1772), dedicato al granduca di Toscana, Pietro Leopoldo.
L’opera, già in stampa nel 1771, fu bloccata dalla censura arcivescovile, che vi scorse pericolose derive illuministe. Paoletti dimostrò di avere trovato nella fisiocrazia un complesso di linguaggi e valori che gli permetteva di offrire un quadro organico di politica economica, adeguato alle condizioni toscane e destinato a influire sulle prospettive di più generazioni di ‘campagnoli’ dell’Ottocento.
La critica ha sottolineato da tempo il carattere compilativo di gran parte del testo, dove Paoletti traduce, parafrasa o piega alle proprie esigenze lunghi brani degli auctores della setta: da Mirabeau, con cui ebbe contatti diretti e che lo raccomandò al granduca, a François Quesnay, Pierre-Paul Le Mercier de la Rivière, Guillaume Le Trosne, Pierre Samuel Du Pont de Nemours. A quest’ultimo si deve, probabilmente, una severa critica allora inedita al libro, che ne evidenzia le contraddizioni rispetto al canone fisiocratico, nonché il moralismo e il provvidenzialismo religiosi di Paoletti e la poca cura nella traduzione di concetti-chiave (produit net, avances primitives, avances annuelles ecc.). Paoletti rappresenta «uno dei casi più complessi… di ricezione della fisiocrazia in Italia» (Mirri, 2009, pp. 427 s.), ma non risulta sensibile «all’aspetto teorico delle dottrine utilizzate» (p. 416). La discrasia nasceva dai diversi contesti produttivi analizzati dagli economisti, imperniati sulla grande cultura capitalista quale volano di progresso economico-sociale e politico, e il riferimento alle condizioni strutturali toscane della piccola coltura mezzadrile promiscua, considerate da Paoletti.
Opera, in qualche misura, di propaganda, legata alla politica interna del Granducato e all’impegno pubblicistico dell’Accademia dei Georgofili (cui Paoletti appartenne dal 1769, ricoprendo incarichi in deputazioni governative e commissioni concorsuali sull’agricoltura), i Veri mezzi furono intesi come uno dei manifesti più convincenti del liberismo da Alfonso Longo (in una seduta del Consiglio dei Juniori della Repubblica Cisalpina del maggio 1798; cfr. Illuministi italiani, III, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1958, p. 221) e da Giuseppe Pecchio (Storia della economia pubblica in Italia, Lugano 1829), mentre Pietro Custodi li ripubblicò interamente nel volume XX, Parte moderna, degli Scrittori classici italiani di economia politica (Milano 1804), che fu alla base delle fortune ottocentesche di Paoletti.
I Veri mezzi costituiscono un esempio significativo di mediazione culturale, in grado di adattare alle esigenze locali il sistema teorico-dottrinale della fisiocrazia: dal liberismo della quale Paoletti si discosta solo in pochi casi (l’intervento statale sui salari minimi in condizioni di prix vrai e la regolamentazione del commercio dei grani in casi di gravissima penuria alimentare interna). Favorevole alla semplificazione delle leggi positive, appoggiò dapprima l’imposta unica sui fondi; mutò poi parere, secondo il suo miglior biografo, Uberto De Nobili (1803, pp. 101 s.), che offre un riassunto dell’ultimo, perduto lavoro di Paoletti, gli Elementi di economia politica, presentato ai Georgofili nel 1791. Su di un fronte diverso, Paoletti sostenne la sterilità delle manifatture, in polemica con le Meditazioni sull’economia (1771) di Pietro Verri.
Nell’opera maggiore favorì un regime di alti prezzi agricoli, ma non dimenticò le necessità vitali dei salariati. Quanto alla proprietà, essa costituiva una «istituzione divina», base della libertà individuale di acquisire e possedere, di vendere il proprio lavoro, d’investire in agricoltura a opera, soprattutto, dei «grandi e ricchi possessori» chiamati a potenziare strutture d’impiego e produttività dei suoli: proprietari che restano, comunque, lontani dai grands et riches fermiers capitalisti, cui Quesnay aveva dedicato un celebre articolo nell’Encyclopédie. Se il compito dell’autorità politica era, per Paoletti, quello di tutelare l’ordine e la proprietà, la sua adesione alla mezzadria e l’incapacità di organizzare strutture d’impiego più produttive erano i limiti del «pievano di Villamagna» denunziati da Arthur Young, che pure ebbe modo d’incontrarlo e apprezzarlo nel breve soggiorno fiorentino del 1789.
Ecclesiastico illuminato, agricoltore esperto, propugnatore della ‘pubblica felicità’ in chiave muratoriana, Paoletti restò al di qua dell’Illuminismo francese, di cui non poteva condividere il deismo e l’anticristianesimo. La ragione fu per lui uno strumento pratico di orientamento generale, privo di corrosive asprezze verso saperi e istituzioni: la Chiesa, cui fu sempre fedele con comportamenti austeri, che gli guadagnarono la stima del vescovo riformatore Scipione de’ Ricci, e il potere regio, che lo protesse. Non lontano dalla morte scriveva a Marco Lastri che «quasi tutti gli studi languiscono e vanno ormai a gran passi nell’ultima decadenza (effetto fatale delle stravolte, orrende massime, seminate dai barbari del nostro secolo, che hanno inondata la nostra Italia)» (27 agosto 1799, in Mirri, 1967, p. 100). Si chiudeva così un percorso significativo delle speranze e delle chiusure che accompagnarono la corrusca fine secolo in Italia.
Morì a Villamagna il 1° dicembre 1801.
Tra le opere a stampa, oltre a quelle menzionate: L’arte di fare il vino perfetto e durevole, Firenze 1774 (riedito in Opere agrarie, I, Firenze 1789); Esame critico delle osservazioni del p. m. Guglielmo Della Valle sul modo di migliorare i vini d’Italia, coll’aggiunta di due memorie sulla manifattura del vino e dell’olio, lette nell’Acc. de’ Georgofili dal pievano di Villamagna, Firenze 1781; Lettera apologetica sull’apparizione di un’anima, seguita sul mese di agosto del corrente anno 1800, presso ai poggi di Rosano non lungi dalla città di Firenze…, Firenze 1800.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Archivio Bencivenni Pelli, 8 (lett. di P. a G. Bencivenni Pelli); Reggenza, 620, ins. 25 (sulla censura arcivescovile ai Veri mezzi); Misc. Finanze, 529; A. Young, Travels during the years 1787, 1788 and 1789 undertaken more particularly with a view of ascertaining the cultivation, wealth, resources and national prosperity of the Kingdom of France, London 1794, I, pp. 251 ss., II, passim; U. De Nobili, Elogio del sacerdote F. P., pievano di Villamagna, in Nuovo giornale dei letterati, 1803, vol. 5, pp. 9-40; vol. 7, 1803, pp. 65-90; 1803, vol. 8, pp. 35-84 (riedito a Firenze 1803, che ne fornisce la bibliografia); G. Sarchiani, Elogio di F. P., in Atti della Regia Accademia dei Georgofili, V, (1804), pp. 41-48; Gazzetta toscana, 10 aprile 1802, n. 37, pp. 58-59; M. Mirri, Un’inchiesta toscana sui tributi pagati dai mezzadri e sui patti colonici nella seconda metà del ’700 (Memorie di G. Bencivenni Pelli, G.F. Pagnini, L. Tramontani e F. P.), in Annali dell’Istituto G.G. Feltrinelli, II (1959), pp. 483-559; Id., F. P., agronomo, ‘georgofilo’, riformatore nella Toscana del ’700, Firenze 1967; T. Wahnbaeck, Luxury and public happiness. Political economy in the Italian Englihtenment, Oxford 2004, pp. 126 s., 129-131; Id., Fisiocrazia e riforme: il caso della Toscana e il ruolo di F.P., in Governare il mondo, a cura di M. Albertone, Milano 2009, pp. 123-441; P.D. Giovannoni, Fra trono e cattedra di Pietro. A. Martini arcivescovo di Firenze nella Toscana di Pietro Leopoldo, Firenze 2010, p. 182.