RUSSO, Ferdinando
– Nacque a Napoli il 25 novembre 1866, secondo di sette figli, da Gennaro, ufficiale del dazio di consumo, e da Cecilia De Blasio.
Lasciati gli studi, lavorò come correttore di bozze per la Gazzetta di Napoli, interessandosi di poesia in dialetto napoletano, cui si dedicò poi per tutta la vita, lasciando l’italiano solo per la scrittura in prosa.
Esordì con i sei sonetti di Gano ’e Maganza (Napoli 1885), editi dallo Stabilimento tipografico dell’Iride, rilettura del ciclo carolingio attraverso la voce di un cantastorie che riportava le gesta di ‘Linardo’ contro il maganzese. La tendenza, tipica di certa poesia in dialetto dell’Ottocento (si pensi almeno a Giggi Zanazzo e alla sua Un’infornata ar Teatro nazionale, 1882, in romanesco), consisteva nella rappresentazione di allestimenti teatrali oppure operistici in un contesto fittiziamente popolare, con (voluti) bisticci, anacronismi, storpiature e interferenze fra i piani del racconto. Secondo analoghe modalità Russo compose i sonetti di Rinaldo, ’A vittoria d’Orlando e ’E Riale ’e Francia, che apparvero sulla Lega del Bene nel 1886.
Dopo la fondazione del periodico Prometeo, che ebbe vita breve, lavorò come impiegato presso il Museo archeologico di Napoli e pubblicò i testi di Sunettiata (Napoli 1887) per i tipi di Federigo Casa: dialoghi di popolani, carcerati, guappi, e «documenti umani» colti fra le vie di Napoli con qualche concessione sentimentale. Vi trovarono spazio alcuni topoi della letteratura napoletana, come il gioco del lotto (’A furtuna), la superstizione (Jettatura) e la rasoiata inflitta sul volto della donna fedifraga (Rasulata), già nel Salvatore Di Giacomo di Sfregio (in Sunette antiche, 1884); diversamente dal suo concittadino, però, Russo utilizzò subito un dialetto più aspro e difficile, frutto di una frequentazione dei bassifondi e di un’aderenza al vero che lo contraddistinsero come autore verista contro il più lirico Di Giacomo. Sempre nel 1887 scrisse una delle sue prime (e più fortunate) canzoni in napoletano, Scètate (Svegliati), musicata da Mario Pasquale Costa, componendone circa 250 fino alle soglie della morte.
Riunì i sonetti carolingi (esclusi i sei di Gano), cui ne aggiunse altri di argomento vario (Sunettiatella), in Rinaldo. Costumi napoletani (Napoli 1888), pubblicato da Luigi Pierro, di cui Russo frequentava la libreria, ritrovo di letterati, in piazza Dante. Inaugurò, così, una proficua collaborazione con l’editore napoletano, che avrebbe stampato le sue opere fino a inizio secolo, a cominciare dai poemetti ’O libbro d’ ’o turco (1890), storia dell’amore fra un soldato saraceno sbarcato a Napoli e una popolana, e ’N Paraviso (1891), sorta di mistico viaggio in pallone aerostatico al cospetto di Dio, ispirato a un recente volo a bordo della mongolfiera di Eduard Spelterini. Il 1891 è anche l’anno in cui conobbe Giosue Carducci in visita a Napoli. La declamazione di Scètate, fatta eseguire da Russo durante un pranzo con Carducci e Annie Vivanti, destò la commozione della donna e la gelosia del poeta toscano, che lasciò il ristorante.
Licenziato il poemetto Petrusinella sul finire del 1893, versione in ottave e sestine di un cunto di Giambattista Basile, conobbe Émile Zola, che accompagnò in un tour per i bassifondi di Napoli nel 1894. Riscrisse quindi e ampliò i sonetti di Rinaldo, arricchendo l’orizzonte culturale dello chanteur napoletano di influenze ariostesche ed eroicomiche. Nacque così ’O cantastorie, declamato al Circolo filologico di Napoli il 13 gennaio 1895. Nello stesso anno partecipò con Di Giacomo, Roberto Bracco e Rocco Edoardo Pagliara alla crestomazia lirica napoletana Chi chiagne e chi ride...! 40 poesie napoletane (1895), per i tipi di Ricordi & C. I successi editoriali gli aprirono le porte del Pungolo, dove sostituì proprio Di Giacomo, e del Mattino, dove si strinse d’amicizia con Edoardo Scarfoglio, Matilde Serao, Gabriele D’Annunzio e Federigo Verdinois.
Dopo aver affidato il resoconto della guerra d’Abissinia, allora ancora in corso, ad altri popolani in Lettere ’a ll’Africa. 35 sonetti (1896), raccolse ritratti di giovani camorristi e malavitosi nei sonetti di ’E scugnizze (1897; ed. definitiva: ’E scugnizze. Gente ’e mala vita, 1920). L’anno seguente diede direttamente voce al popolo che viveva di espedienti nella silloge Ncopp’ ’o marciappiede (1898): i monologhi e i dialoghi, piegati ancora al metro del sonetto, erano di venditori, banditori, magnetizzatori, cabalisti, callisti, prestigiatori, sul modello del Di Giacomo di ’O funneco verde (1886), quantunque sfrondato, in obbedienza a un canone realistico, di personali denunce sociali. Spiccava nella raccolta il trittico ’O pezzente ’e San Gennaro, sfogo di un nobile campano impoveritosi dopo la confisca garibaldina delle sue terre e indizio del tardivo ‘borbonismo’ di Russo. Apparso come macchietta nel Mattino del 29-30 agosto 1898, causò il temporaneo sequestro del giornale e la convocazione dell’autore in questura, tuttavia senza conseguenze legali. Sempre a Napoli, nel 1898, apparve la raccolta di Canzoni, canzonette e bizzarrie. Strenna per Piedigrotta.
Chiamato a recitare suoi versi, Russo si recò a Firenze e poi a Bologna nel 1901, dove, il 15 novembre dell’anno successivo, sposò Elisa Rosa Pennazzi, cantante di caffè-concerto. Il matrimonio terminò presto per la gelosia della donna, che era arrivata a farlo pedinare da un investigatore. In quegli anni, tutte pubblicate a Napoli per i tipi di Pierro, compose le novelle di Santa Lucia (1901), nate dalla volontà di documentare la vita dei luciani prima dello sventramento del loro quartiere, le scene di malavita raccolte in La confessione (1901) e le poesie d’amore e i ritratti femminili di Rusario sentimentale (1902).
Le pubblicazioni successive segnarono un allontanamento da Pierro: i Poemetti napoletani, corone di sonetti dall’andamento narrativo (fra cui ’A lucanna ’e “Capa e coda”), apparvero presso l’editore napoletano Detken nel 1903, mentre il poemetto in terza rima Montecassino, in cui il dialetto si faceva espressione di una religiosità di gusto simbolista, e le liriche di Sinfonie d’amore apparvero per i tipi di Morano sempre a Napoli (1905).
Se il primo romanzo di Russo – condotto su toni da feuilleton e pubblicato da Treves (Memorie d’un ladro, Milano 1907) – fu l’ennesimo pretesto per una rappresentazione dei costumi della malavita, La Camorra. Origini, usi, costumi e riti dell’“Annorata soggietà” (Napoli 1907, in collaborazione con Ernesto Serao), fu insieme saggio, inchiesta giornalistica, ricostruzione storica, raccolta di ritratti di camorristi celebri e di sonetti russiani sull’argomento. L’anno seguente uscì, invece, ancora per Treves, Il destino del Re (Milano 1908), romanzo d’avventure ispirato alle relazioni degli interrogatori di François Ravaillac, assassino di Enrico IV di Francia.
Dedicando un cenno sbrigativo alla produzione di Russo in La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900 (saggio del 1909, poi in Letteratura della nuova Italia. Saggi critici, Bari 1947, IV, p. 349), Benedetto Croce mal celava una disistima che sarebbe divenuta addirittura, dopo la morte del poeta, accusa di grossolanità e sciatteria artistica (v. Scrittori in dialetto, in Letteratura della nuova Italia, Bari 1940, VI, pp. 137 s.). Inaugurandone così la ‘sfortuna’ critica, ne sanciva anche la rivalità con Di Giacomo, cui aveva dedicato, invece, diverse pagine ammirative. Ciò nonostante, Russo intensificò la propria attività almeno per un decennio, con il volume di Poesie napoletane (Napoli 1910), in cui riunì l’intera produzione poetica, canzoni (divenendo anche direttore della Poliphon di Lipsia), narrativa, articoli e saggi.
Adombrò le proprie idee reazionarie nel poemetto in ottava rima ’O luciano d’ ’o Rre (Lanciano 1911), narrazione degli ultimi giorni di Ferdinando II fatta da un vecchio abitante di S. Lucia, che lo aveva accompagnato nel viaggio per il matrimonio del figlio Francischiello e gli era stato vicino fino alla morte. Con l’articolo La città morta che rivive, in La lettura del Corriere della sera del maggio 1912, celebrò invece l’archeologo Vittorio Spinazzola, soprintendente agli scavi di Pompei.
Attento lettore della poesia campana del Cinque-Seicento, dedicò a essa due saggi: Il gran Cortese. Note critiche su la poesia napoletana del ’600, contenuto in Il poeta napoletano Velardiniello e la festa di San Giovanni a Mare (Roma 1913), nel primo dei quali asserì l’identità di Giulio Cesare Cortese e Felippo Sgruttendio de Scafato. Tornando a rivolgere la propria attenzione alla cronaca contemporanea, diede alle stampe il poemetto in ottave ’A storia nova (1913), che rileggeva la recente campagna di Libia come se a narrarla fosse un cantastorie e suoi protagonisti i paladini di Francia. Di lì, accostandosi al teatro, compose La primavera della vita e Il folle amore, entrambi di tre atti, che segnarono il momentaneo riavvicinamento a Pierro. Il 14 dicembre di quell’anno vide quindi la luce il primo numero del periodico letterario Vela latina, da lui fondato, in cui pubblicò, fra gli altri, un articolo sul poeta napoletano Giovanni della Carriola (Un cantastorie napoletano del Cinquecento, III (1915), 27, pp. 2 s.).
Dopo alcune canzoni, fra cui Tammurriata palazzola (musicata su ritmi da tarantella da Rodolfo Falvo, 1914), e Serenata a Pusilleco (su musiche di Nicola Valente, 1915), tornò alla narrativa con i romanzi I ricordi del fante di picche (Napoli 1918) e Il tesoro della regina (Napoli 1919), editi per i tipi di Giannini, che pubblicò nello stesso anno anche il poemetto in ottave ’O surdato ’e Gaeta, rievocazione dell’assedio di Gaeta e celebrazione di Francesco II affidate a un veterano filoborbonico. Il poemetto era preceduto da una nota sul dialetto come registro linguistico più adatto alla rappresentazione letteraria del documento umano.
A parte le pièces, entrambe di due atti e in napoletano, Luciella Catena (Napoli 1920), e ’A paranza scicca, rappresentata nel 1921 ma edita postuma (con prefazione di P. Ruocco, Napoli 1932), la sua vena letteraria si espresse di lì in poi quasi solo con testi di canzoni, come ’E denare d’ ’o nfinferinfì, musicata da Vincenzo D’Annibale e interpretata da Russo al Teatro Modernissimo (1924), e Mamma mia che me cunzola, musicata da Emanuele Nutile (1925).
Già affetto da diabete, morì a Napoli il 30 gennaio 1927.
Poco prima aveva riunito alcune novelle in Il mio amico Landru per i tipi di Cappelli (Bologna 1927). Il 10 febbraio sul Mezzogiorno uscì il commosso ricordo di Di Giacomo, con cui non era stato sempre in buoni rapporti. Postume comparvero le strofe amorose di Villanelle napoletane per i tipi di Guida, a cura di P. Ruocco e con introduzione di A. Macchia (Napoli 1933; rist., Napoli 1966).
Fonti e Bibl.: O. Giordano, F. R., Napoli 1927; L. Bovio, F. R., Napoli 1928; E. Mura, Enciclopedia della canzone napoletana, Napoli 1969, ad vocem; L. Reina, F. R.: popolarità, dialetto, poesia, Napoli 1983; F. Russo, Poesie, a cura di C. Bernari, Napoli 1984; Id., Poesie napoletane, a cura di R. Marrone, Roma 1995; R. Cossentino, La canzone napoletana..., Napoli 2013.