Abstract
Viene esaminata la disciplina del diritto del lavoratore a godere di ferie annuali retribuite in misura non inferiore a quattro settimane annuali. La disciplina appare più complessa di quanto non sembri a prima vista, in ordine sia alla collocazione delle ferie, sia ai rapporti che intercorrono fra l’effettivo godimento delle ferie ed altre ipotesi di sospensione o interruzione del rapporto di lavoro.
Il diritto alle ferie è una conquista dell’uomo moderno che, sulla scorta dell’esperienza propria della nobiltà europea del settecento (“la villeggiatura”), aspira al riconoscimento di un diritto al tempo libero. Nelle epoche più antiche, infatti, il tempo produttivo veniva ad essere cadenzato su un ritmo che non conosceva altra interruzione se non quella (peraltro assai più frequente di oggi) delle festività religiose o civili. Il primo paese ad introdurre il diritto alle ferie annuali retribuite fu la Francia che nel 1936 riconobbe il diritto a due settimane ai suoi lavoratori.
La nostra Costituzione fa tesoro di quell’esempio e all’art. 36, dopo aver consacrato il diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente e alla limitazione della giornata lavorativa, stabilisce, nel suo comma terzo, che al lavoratore è riconosciuto il diritto irrinunciabile (al riposo settimanale nonché) a ferie annuali retribuite e che a tale diritto non può rinunziarsi.
La previsione, in questa sua ultima parte, assume un carattere tecnico che bene si sposa con la difficoltà di configurare la posizione pretensiva che si intende garantire, poiché il lavoratore potrebbe anche trovare maggior convenienza nella prestazione lavorativa ininterrotta rispetto al godimento effettivo delle ferie. Si tratta di ipotesi apparentemente marginali, ma non infrequenti, come di chi si trovi a lavorate in un paese estero e accetti periodi assai lunghi di lavoro nella prospettiva di poter conglobare poi le ferie, anche se riferite a più anni, in un solo momento, o di chi percepisca il diritto in termini meramente retributivi e, dunque, sia disposto a rinunziare al godimento delle ferie nella prospettiva di un maggior guadagno, cumulando sia il compenso per le ferie che quello per la prestazione in concreto effettuata.
Il legislatore costituente, nel prevedere l’irrinunziabilità delle ferie, dunque, non aveva in mente una prescrizione di tipo morale o etico, ma aveva evidentemente maturato la sicura consapevolezza che, ove non si fosse esternata tale caratteristica, il diritto alle ferie avrebbe potuto patire serie compromissioni. La norma costituzionale, dunque, risolve ogni possibile contrasto in ordine all’utilizzo delle ferie, imponendo a ciascuno di doverle godere, venendo così ad assimilare il diritto alle ferie ad ogni altro diritto indisponibile del lavoratore.
Per tale ragione si deve ritenere che tale caratteristica si estenda all’intero “monte” delle ferie previsto per legge o per contratto collettivo, di modo che, pur a fronte di una previsione di legge che limita a quattro settimane la durata minima delle ferie (art. 10 d.lgs. 8.4.2003, n. 66), non può distinguersi nell’ambito delle previsioni di legge e del contratto collettivo in ordine alla disciplina applicabile, che rimane dunque sempre la stessa. Non appare quindi condivisibile la indicazione fornita nella nota circolare del Ministro del lavoro n. 8 del 3 marzo 2005, là dove ammette che il lavoratore possa rinunziare alla fruizione delle ferie previste dalla contrattazione collettiva in aggiunta alla soglia minima stabilita per legge.
Il comma terzo dell’art. 36 Cost. si rispecchia nell’art. 2109 c.c., che stabilisce al suo secondo comma che il lavoratore ha diritto «ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l'imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro». Per il resto, il codice si limita a rinviare in ordine alla durata delle ferie a quanto previsto a riguardo «dalla legge, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità», aggiungendo tuttavia che «l’imprenditore deve preventivamente comunicare al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie» (art. 2109 c.c., co. 3).
Il rinvio alla normativa di legge è stato per anni limitato alle sole disposizioni di cui alla convenzione OIL 24.6.1974, n. 132, ratificata peraltro solo con l. 10.4.1981, n. 157, mentre la materia risultava sostanzialmente disciplinata dalla contrattazione collettiva, di modo che le specifiche previsioni della direttiva comunitaria vengono in certo modo a colmare una lacuna.
L’art. 7 della direttiva 4.11.2003, n. 88 (già dir. n. 104/1993) al par. 1 stabilisce il diritto di ogni lavoratore a beneficiare di ferie annuali retribuite per almeno quattro settimane «secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali». Il par. 2 della stessa disposizione fa divieto di sostituire con una “indennità finanziaria” il periodo minimo di ferie annuali retribuite, salvo che per il caso di fine del rapporto di lavoro. L’art. 22, par. 2, prevede infine un regime transitorio che tuttavia ha oramai esaurito la sua legittimità.
Le previsioni della direttiva sono riprese dall’art. 10 del d.lgs. n. 66/2003 che ha proceduto a specificare alcuni aspetti del precetto, che il codice civile e la Costituzione avevano affidato alle fonti secondarie, fissando in 4 settimane la durata minima delle ferie e stabilendo il periodo in cui esse devono essere godute. A riguardo, il co. 1 dell’articolo ora citato, così come riformulato ad opera del d.lgs. 19.7.2004, n. 213, stabilisce che il periodo di ferie «salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva o dalla specifica disciplina riferita alle categorie di cui all’art. 2, co. 2, va goduto per almeno due settimane, consecutive in caso di richiesta del lavoratore, nel corso dell'anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell'anno di maturazione».
La giurisprudenza costituzionale è intervenuta in più occasioni sulle disposizioni di legge per sancire, innanzitutto, il diritto alla maturazione delle ferie in precisa corrispondenza con lo svolgersi del rapporto di lavoro, dichiarando di conseguenza illegittima quella parte dello stesso art. 2109 c.c. che subordinava il maturare del diritto ad un anno ininterrotto di servizio (C. cost., 10.5.1963, n. 66) o che, implicitamente, non prevedeva il diritto a ferie anche per il lavoratore assunto in prova e licenziato prima del termine dell’esperimento (C. cost., 22.12.1980, n. 189, in Foro it., 1981, I, 308).
Da queste pronunzie si è fatta discendere l’esistenza del cd. principio della infra-annualità, che impone di godere le ferie entro l’anno di maturazione e non successivamente, se non a fronte di motivate ed eccezionali esigenze di servizio.
Sul punto si esprime la Corte costituzionale riferendosi al godimento delle ferie entro il periodo annuale di maturazione (C. cost., 19.12.1990, n. 543, in Foro it., 1991, I, 391): «ove infatti non venisse rispettata tale scadenza per effetto di rinvii o posticipazioni totali o parziali a periodi ricompresi in anni successivi, verrebbe a frustrarsi il diritto al congedo, che matura giorno per giorno in relazione all'accumulo della fatica lavorativa e al conseguente bisogno di riposo: che perciò verrebbe colpito se non si consentisse che nel corso dell'anno il lavoratore possa usufruire di quel periodo feriale ritenuto adeguato da norme di legge o disposizioni contrattuali».
E subito dopo aggiunge che: «ciò non significa però che il diritto al godimento infra-annuale delle ferie non possa tollerare in modo assoluto deroghe, soprattutto allorché l'attività svolta dal lavoratore si ricolleghi a servizi di pubblica utilità gestiti dall'impresa da cui dipende. Ma tale compressione, per la particolare natura e per il fine del diritto che ne è l'oggetto, può avvenire solo per l'insorgere di situazioni eccezionali non previste né prevedibili, e non per generiche e immotivate “esigenze di servizio”».
Pur a dispetto di sì impegnative affermazioni della Corte, il principio sembra aver trovato sostanziale limitazione nell’art. 10 del d.lgs. n. 66 del 2003, là dove questo individua con riferimento ai 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione il momento finale entro cui il lavoratore potrà godere delle ferie.
Un’altra importante pronunzia riguarda l’effettività del godimento delle ferie, poiché la Corte ha riconosciuto che la malattia insorta durante il periodo feriale viene a sospenderne il decorso, dichiarando così anche per questo aspetto l’incostituzionalità dell’art. 2109 c.c. (C. cost. 30.12.1997, n. 616, in Foro it., 1988, I, 1062 ss. e 2153 ss.).
La giurisprudenza ordinaria ha avuto modo di precisare il significato di tale dichiarazione di incostituzionalità, chiarendo che non tutti gli stati morbosi insorti in corso di ferie vengono ad interrompere il godimento delle stesse, ma solo quelli che per le loro caratteristiche si presentino come radicalmente inconciliabili con le necessaria esigenza di un recupero psico-fisico (Cass., S.U., 23.2.1998, n. 1947, in Foro it., 1998, I, 1065 ed analog. Cass., sez. lav., 6.4.2006, n. 8016, in Lav. giur., 2006, 10, 980). La giurisprudenza di merito a riguardo, ha quindi richiamato sia, de plano, le ipotesi nelle quali vi sia stato ricovero del lavoratore, sia quelle nelle quali comunque le modalità di assoggettamento alle cure siano state tali da rendere impossibile il godimento del riposo, attribuendo in ogni caso grande rilievo al fatto che la malattia sia comunicata tempestivamente.
Il diritto alle ferie annuali viene riconosciuto a tutti i lavoratori dipendenti, qualunque ne sia la categoria, nonché ai soggetti impiegati nei lavori socialmente utili, nei lavori di pubblica utilità e nei progetti di inserimento professionale. Anche i detenuti che lavorino alle dipendenze dell’amministrazione carceraria hanno diritto ad un periodo di riposo annuale retribuito (C. cost. 10.5.2001, n. 158). Nel caso di lavoro a domicilio, per il quale non si ritiene sussista un vero e proprio diritto alle ferie, i contratti collettivi prevedono non di rado una maggiorazione percentuale, a compenso del mancato godimento di una interruzione retribuita della attività lavorativa. In caso di mancato godimento l’ordinamento appresta una sanzione all’art. 18 bis, co. 3, d.lgs. n. 66 del 2003, secondo un particolare sistema che gradua la pena, a scaglioni, in ragione del numero dei lavoratori interessati.
La previsione di una sanzione a carico del datore di lavoro rende evidente come sia a costui che spetti in ultima analisi la concessione delle ferie, pur a fronte di disposizioni collettive che disciplinano in dettaglio la sua decisione (per tutte: Cass., 18.6.1988, n. 4198 in Not. giur. lav., 1988, 514; Mass. giur. lav. 1988, 474; nonché in Orient. giur. lav. 1988, 1037 ed ancora in Riv. giur. lav. 1988, II, 305; nella giurisprudenza comparata v. la recente sent. 13.6.2012 della Cour de cassation francese, che, proprio in forza delle previsioni della direttiva, afferma che: «il appartient à l’employeur de prendre les mesures propres à assurer au salarié la possibilité d’exercer effectivement son droit à congé, et, en cas de contestation, de justifier qu’il a accompli à cette fin les diligences qui lui incombent légalement»).
Per quel che riguarda la collocazione del periodo feriale, l’art. 2109 c.c. è sufficientemente chiaro nell’attribuire tale potere unicamente all’imprenditore quale ipotesi di manifestazione del generale potere organizzativo e direttivo dell’impresa (di cui agli artt. 2086 e 2104 c.c.), con il solo limite (invero insolito nella tecnica legislativa) di dover tener conto “degli interessi” del lavoratore e di dare opportuno preavviso, comunicando dipendente preventivamente il periodo stabilito per il godimento delle ferie (art. 2109 c.c., co. 2 e 3), al fine di consentire così al lavoratore di organizzare in modo conveniente il proprio riposo.
Il lavoratore, quindi, non può da sé medesimo collocarsi in ferie, ma dovrà ottenere in via preventiva una specifica approvazione da parte del lavoratore; in questa prospettiva, la richiesta individuale deve intendersi, alla luce delle previsioni di cui all’art. 2109 c.c., come uno strumento diretto a dare conoscenza delle preferenze individuali dei lavoratori, per un più corretto esercizio del potere datoriale.
Alle proprie esigenze individuali, quindi, il lavoratore potrà far fronte innanzitutto attraverso le previsioni contrattuali in tema di permessi, senza che si possa pretendere di procedere unilateralmente alla determinazione del proprio periodo di ferie. Ed anzi, l’interruzione della prestazione lavorativa senza una preventiva autorizzazione datoriale deve considerarsi quale illecito disciplinare, suscettibile di essere sanzionato a titolo di assenza ingiustificata.
La sola ipotesi nella quale la giurisprudenza ha riconosciuto il diritto del lavoratore di collocarsi in ferie in via autonoma è relativo alla ipotesi nella quale si sia prossimi al superamento del comporto per malattia: in questo caso il principio dell’extrema ratio fa sì che il lavoratore non possa essere licenziato, a fronte del protrarsi della malattia, quando sussistano ancora ferie residue da consumare. L’orientamento prevalente, tuttavia, ritiene che spetti al lavoratore modificare il titolo della propria assenza, contestualmente trasmettendo la certificazione relativa all’ulteriore prolungamento dello stato morboso e comunicando la propria intenzione di godere delle ferie maturate (Cass., sez. lav., 17.11.2011, n. 24191; Cass., sez. lav., 22.4.2008, n. 10352, Cass., sez. lav., 22.5.2005, n. 6143).
Altra questione è quella relativa alla collocazione delle ferie non godute in conseguenza di malattia: secondo un certo orientamento il lavoratore avrebbe diritto a prolungare il momento del rientro in servizio, aggiungendo per così dire in coda alla malattia il periodo di ferie di cui non ha potuto godere; secondo altro orientamento invece le ferie non consumate rientrerebbero nella disponibilità del datore di lavoro che potrebbe riassegnarle anche in un momento diverso (v. Trib. Milano 12.11.1999, in Riv. crit. dir. lav., 2000, 194).
Il precetto di maggior rilievo introdotto dall’art. 10 d.lgs. 66 del 2003 è però racchiuso nel suo co. 2, a mente del quale il «periodo minimo di quattro settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro».
Un tale precetto, dettato in piena coerenza con l’asserito fondamento normativo dell’intervento comunitario, quale norma diretta a tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, ha determinato non pochi contrasti nelle varie legislazioni nazionali, tanto da venir ribadito in numerose pronunzie della Corte di giustizia: così nella sent. 26.6.2001, C-173/99, Bectu, si è affermato che la disposizione europea non consente di adottare una disciplina che riconosca il diritto alle ferie solo dopo aver compiuto un periodo minimo di lavoro di 13 settimane ininterrotte, perché, in un settore connotato da assunzioni a termine ripetute a breve distanza, questo priverebbe i lavoratori di qualsiasi diritto alle ferie nonché del beneficio di una indennità finanziaria che le sostituisca (punto 27 e 49). Nello stesso senso, precisando il concetto ora espresso, si è affermato successivamente che le ferie devono essere effettivamente godute dal lavoratore, il quale «deve di norma poter beneficiare di un riposo effettivo, per assicurare una tutela efficace della sua sicurezza e della sua salute» (punto 30, C. giust., 18.3.2004, C-342/01, Merino Gomez), di modo che, se il congedo per maternità di una lavoratrice coincide con il periodo di chiusura dello stabilimento definito in via generale da una fonte collettiva, costei deve poter godere delle ferie in un periodo diverso.
Non diversamente si è reputata contraria alle disposizioni comunitarie una disciplina nazionale che prevedeva che l’indennità di ferie fosse corrisposta mediante versamenti parziali, scaglionati nel corrispondente periodo annuale di lavoro e pagati insieme alla retribuzione per il lavoro svolto (cd. rolled-up holiday pay), giacché siffatto sistema finiva per incoraggiare i lavoratori a rinunziare al diritto alle ferie (C. giust., 16.3.2006, cause riunite C-131/04 e C-257/04, Robinson Steele, in Orient. giur. lav., 2006, 2, 28). Ancora nello stesso senso, la Corte di giustizia 6.4.2006 (causa C-124/05, Nederlandse Vakbeweging, in Riv. crit. dir. lav., 2006, 2, 407), ha affermato che i giorni di ferie annuali ai sensi dell’art. 7, n. 1, non goduti nel corso di un dato anno, non possano essere sostituiti da un’indennità finanziaria nel corso di un anno successivo.
La questione della disponibilità nell’ordinamento interno dovrebbe essere facilmente risolta attraverso il semplice rinvio alle previsioni costituzionali prima richiamate, che espressamente qualificano come “irrinunciabile” il diritto alle ferie. Si deve, tuttavia, segnalare come le enunciazioni costituzionali non sempre abbiano trovato in passato adeguata traduzione nella giurisprudenza ordinaria, tanto che in molti settori era diffusa una prassi di origine collettiva che consentiva al datore di procedere al pagamento delle ferie nel corso dell’anno di maturazione, liberandolo dalle conseguenze derivanti dal mancato godimento di esse.
Una tale prassi, a mente dell’espressa previsione del co. 2 dell’art. 10, deve ora ritenersi palesemente illegittima, almeno nelle ipotesi nelle quali il rapporto di lavoro non si sia già estinto. Nel caso di mancato godimento delle ferie, dunque, il lavoratore avrà diritto ad ottenere un risarcimento del danno subito, una volta che risulti accertato l’inadempimento datoriale, senza che gli sia richiesta alcuna prova specifica a riguardo (da ultimo, in questo senso v. Cass., sez. lav., 11.5.2006, n. 10856, in Foro it., 2007, I, 537; Cass., sez. lav., 29.11.2007, n. 24905, ivi, 2008, I, 509). Ed infatti, il diritto del lavoratore alle ferie appare conseguente alla stipula stessa del contratto di lavoro, assumendo le caratteristiche di un credito derivante da obbligazione contrattuale (art. 1218 c.c.: così Cass., 4.12.1997, n. 12334), non diversamente da quanto appare pacifico in relazione all’obbligazione di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c.
Neanche il lavoratore dovrà provare di aver richiesto inutilmente la concessione delle ferie, giacché, in conformità alle disposizioni di cui agli artt. 2086 e 2094 c.c., l’organizzazione dei fattori produttivi resta comunque affidata al potere direttivo dell’imprenditore, cui spetta di assicurare in concreto il godimento delle ferie, nel tempo che egli stesso stabilisce ai sensi dell’art. 2109, co. 2, c.c. (e si noti che la mancata concessione delle ferie trova sanzione penale nell’art. 18 bis, co. 3, d.lgs. n. 66 del 2003). La sola ipotesi, nella quale una prova siffatta appare richiesta dalla giurisprudenza ai fini del riconoscimento del danno, si ha quando il lavoratore occupi una posizione apicale nel contesto aziendale, di modo che è legittimato alla (auto) assegnazione delle proprie ferie “senza alcuna ingerenza del datore di lavoro” (così, per es., Cass., sez. lav., 7.6.2005, n. 11786).
Dunque, come la giurisprudenza ha ripetutamente affermato, nel caso in cui il lavoratore «non goda delle ferie nel periodo stabilito dal turno aziendale e non chieda di goderne in altro periodo dell’anno non può desumersi alcuna rinuncia, che in ogni caso sarebbe nulla per il contrasto con norme imperative (art. 36 Cost. e art. 2109 c.c.), e quindi il datore di lavoro è tenuto a corrispondergli la relativa indennità sostitutiva delle ferie non godute» (v. Cass., 18.6.1988, n. 4198, cit., analog.: Trib. Milano, 18.1.1995, in Riv. it. dir. lav., 1996, II, 72 ed ivi ampi ultt. riff. ed ancora Cass., 24.10.2000, n. 13980, ivi, 2001, II, 504, con la sottolineatura che «decorso l’anno di competenza il datore di lavoro non può - anche se l'impresa interessata è in stato di crisi - né imporre il godimento effettivo delle ferie, né tanto meno stabilire il periodo di godimento, ma è tenuto al solo risarcimento del danno»).
È sorta peraltro questione in giurisprudenza circa la esatta natura degli importi da riconoscersi al lavoratore in caso di mancato godimento delle ferie, affermandosi da parte di taluno la natura retributiva degli importi (con il conseguente onere di procedere al versamento della contribuzione) e da altri la natura di risarcimento di un danno conseguente alla maggiore usura psico fisica del lavoratore (v. ad es. Cass., sez. lav., 29.11.2007, n. 24905).
La misura delle ferie viene stabilita dalla contrattazione collettiva, in misura non inferiore ai minimi di legge (quattro settimane ai sensi dell’art. 10 d.lgs. n. 66 del 2003 sulla scorta della direttiva 88 e, già, tre settimane secondo la convenzione OIL n. 132). Nei contratti collettivi più recenti si prevede in qualche occasione una misura differenziata delle ferie in ordine alla anzianità di servizio, riducendone il monte per i lavoratori di più recente assunzione.
La maturazione delle ferie è sinallagmaticamente collegata all’effettiva prestazione di lavoro, di modo che il lavoratore non può richiedere di poter godere di ferie che ancora non abbia maturato, in relazione a prestazioni non ancora effettivamente effettuate.
Non è semplice identificare quali siano i periodi il cui il semplice decorso del rapporto di lavoro dia diritto alla maturazione delle ferie; in alcuni casi le assenze vengono equiparate, dalla legge o dalla contrattazione collettiva, alla effettiva presenza in servizio: così per l’astensione obbligatoria per congedo di paternità o di maternità; per il congedo matrimoniale o per l’ipotesi di infortunio sul lavoro o malattia. Le ferie non maturano invece durante: l’astensione facoltativa per maternità; l’assenza per malattia del bambino; l’aspettativa sindacale per cariche elettive; il periodo di preavviso non lavorato; la sospensione dal lavoro in caso di integrazione salariale a zero ore.
Nel caso di lavoro a tempo parziale orizzontale, il principio di non discriminazione impone una durata delle ferie eguale a quella riconosciuta ai lavoratori a tempo pieno, mentre quando si prevedano forme miste o di part time verticale, la durata delle ferie viene ridotta in proporzione alle giornate di lavoro effettivamente prestate (art. 4, co. 2, lett. a, d.lgs. 25.2.2000, n. 61).
Art. 36 Cost.; Art. 31.2 Carta dei diritti fondamentali dell’UE; Art. 2109 c.c. ; art. 10 d.lgs. 8.4.2003, n. 66; art. 4, co. 2, lett. a, d.lgs. 25.2.2000, n. 61.
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