GALLUZZI, Ferino
Nacque a Bologna intorno al 1290 da Albizo di Bonifacio. Della madre si conosce solo il nome, Agnese. Ebbe tre fratelli, Tano, Comazo e Maghinardo e almeno una sorella, Giovanna. La famiglia, un ramo della potente consorteria dei Galluzzi, era di condizioni non particolarmente floride. A fronte dei patrimoni di molti dei Galluzzi, valutati a migliaia di lire, i beni di Albizo nel 1308 raggiungevano appena le 100 lire.
Tra il 1310 e il 1315 il G. contrasse matrimonio con una certa Misina, della quale è ignoto il casato, e da questa unione nacquero almeno otto figli: cinque femmine - Agnese, Giovanna, Costanza, Francesca e Margherita - e tre maschi - Albizino, Giovanni e Giacomo.
Nelle sue prime esperienze di vita pubblica il G. si trovò coinvolto nelle scelte operate dal padre. Albizo Galluzzi - che sembra godesse di un certo credito quale capo militare (già nel giugno 1301 aveva guidato la fanteria bolognese richiesta dal Comune di Firenze per combattere la fazione dei guelfi neri) - si era trovato a confrontarsi con la situazione creata in Bologna dal tentativo di Romeo Pepoli di affermarsi come signore. Albizo militò nel campo avverso e quando, nel luglio del 1321, il Pepoli affrettò i tempi per la conquista del potere, sia lui sia i figli, tra i quali il G., furono incarcerati. La reazione degli oppositori del Pepoli fu peraltro estremamente decisa; nei tumulti di piazza i Galluzzi vennero liberati e anche loro presero parte a quello che si trasformò in un vero e proprio assalto alle case dei Pepoli e dal quale, secondo il notissimo aneddoto, Romeo e i suoi poterono scampare gettando monete d'oro agli inseguitori.
Per evitare un possibile ritorno dei Pepoli, le autorità cittadine presero contatti con i centri limitrofi. In questa occasione risulta che al G. fu affidato l'incarico di una missione diplomatica a Imola, missione abbastanza pericolosa perché i seguaci dei Pepoli occupavano parte del territorio lungo la via Emilia. Il paventato ritorno di Romeo, comunque, non avvenne e l'ordinamento bolognese riacquistò, almeno apparentemente, la struttura tipica di un libero Comune.
Nel gioco politico, estremamente confuso, che caratterizzò gli anni dal 1321 al 1327 non è del tutto chiara la parte sostenuta dal Galluzzi. Sembra che, mutata la sua precedente posizione, egli si sia avvicinato ai partigiani del Pepoli. Il suo nome compare infatti tra gli aderenti a una congiura, organizzata nel 1327, dal preconsole dei notai, Bettino Cavalli, per favorire il ritorno in città della fazione nemica. La congiura fu scoperta e, mentre diversi congiurati vennero giustiziati, il G. fu colpito dal solo provvedimento di bando.
La vicenda, simile a tante altre che si verificarono in quegli anni a Bologna, era la spia di una sempre più accentuata crisi dell'ordinamento comunale, che agli inizi del 1327 sfociò nella dedizione della città al cardinale Bertrando del Poggetto, legato pontificio e nipote di Giovanni XXII, il quale conduceva da alcuni anni in nome della fazione guelfa una costante lotta contro i Visconti e gli altri signori dell'Italia settentrionale. Bertrando del Poggetto utilizzò con larghezza e decisione i poteri conferitigli, cassando alcune magistrature, non convocando più i Consigli e intervenendo direttamente sui provvedimenti di giustizia.
Tra questi interventi va annoverato quello che portò nel 1328 alla riammissione in città di quanti erano stati banditi per la congiura di Bettino Cavalli e tra i riammessi figurò anche il Galluzzi. Non per questo egli aderì alla politica del legato: il suo nome non compare mai tra quanti affiancarono l'opera di Bertrando del Poggetto, né egli assunse una posizione di primo piano in occasione della cacciata da Bologna del cardinale, avvenuta nel 1334. Compare invece, l'anno successivo, tra i dodici esperti che il Consiglio del Popolo elesse per definire i termini di una possibile riconciliazione con il papa e nello stesso anno venne inviato con altri tre cittadini ad Avignone.
La missione non ottenne risultati particolarmente brillanti - data anche la presenza in Avignone di Bertrando del Poggetto - ma servì comunque a riannodare le fila di un rapporto che stava a cuore al papa, al nuovo ceto dirigente cittadino e, in particolare, a Taddeo Pepoli, che aveva ripreso con maggiore fortuna il disegno del padre Romeo. La presenza del G. accanto al Pepoli, unitamente a quella di Brandaligi Gozzadini, Tommaso Formaglini, Pietro Bianchetti e pochi altri, nel gennaio del 1336 ai funerali di Rinaldo d'Este indicava che egli aveva raggiunto una posizione di rilievo nella società bolognese. Di tale prestigio si servì pienamente l'anno successivo, nel momento in cui il Pepoli, sbarazzatosi dei rivali interni, organizzò il pronunciamento delle milizie mercenarie che doveva dargli la signoria sulla città.
Il 28 ag. 1337 al Consiglio del Popolo vennero presentate le delibere con le quali le varie società d'arti e d'armi avevano determinato di concedere al Pepoli i pieni poteri. Il Ghirardacci (Historia…, p. 134) - sulla scorta di una documentazione ora non più rintracciabile (ma lo storico bolognese riporta di solito con fedeltà gli atti d'archivio) - narra che il G. in questo Consiglio tenne uno splendido discorso "della felicità di una repubblica ben governata e della ubbidienza dei popoli verso il Capo loro" inducendo il Consiglio del Popolo ad approvare a larghissima maggioranza la concessione dei pieni poteri a Taddeo Pepoli.
Certamente ben diverse e più forti motivazioni di quelle presenti in un discorso giocarono a favore del Pepoli; ma resta il fatto che all'affermazione della nuova signoria il G. recò un personale e inequivocabile contributo. È comprensibile quindi che, decidendo agli inizi del novembre successivo di inviare ambasciatori nelle principali città italiane per prevenirne l'ostilità, Taddeo Pepoli utilizzasse anche il G. quale ambasciatore a Venezia. In tale missione il G. ebbe compagno il canonista Giovanni d'Andrea, cui sembra lo abbiano legato, oltre alla comunanza di idee politiche e ai rapporti di vicinato, anche una sincera amicizia.
Il vero contrasto che il Pepoli doveva peraltro affrontare era quello con il papa, alla cui giurisdizione la città si era sottratta. Per tre anni si succedettero missioni e tentativi di accordo, alternati a periodi di vera e propria crisi, culminati nei due interdetti con i quali Benedetto XII colpì Bologna a partire dal marzo del 1338. Tra i sostenitori del Pepoli il G. si distinse per la decisione con cui difese le posizioni del signore. Il 6 genn. 1339 nell'arengo cittadino, alla presenza del nunzio pontificio Guigo da San Germano, il G. espresse la più radicale opposizione di Bologna alle pretese papali, dichiarando che l'attribuzione dei pieni poteri a Taddeo Pepoli rientrava nella capacità di autodeterminazione della città e che esulava dalle prerogative del papa sindacarne l'attuazione. La stessa dura posizione traspare anche dalle parole espresse dal G. sei mesi più tardi, in seno a un consiglio ristretto convocato dal Pepoli per gestire la crisi provocata dal rinnovo dell'interdetto. Per rendere evidente al pontefice la decisione con cui si intendevano sostenere i poteri concessi al Pepoli, il G. propose di ridurre al minimo indispensabile la presenza dell'ambasceria bolognese in Curia.
L'operato del Pepoli seguì invece una linea più duttile, grazie alla quale gli riuscì non solo di far togliere l'interdetto alla città, ma di ottenerne anche il vicariato apostolico. È probabile pertanto che la scelta di questa linea abbia portato a una progressiva emarginazione dei suoi sostenitori più accesi quali il G., nonostante questi fosse legato a Taddeo anche da vincoli familiari: suo figlio Giovanni aveva infatti sposato Telda, figlia di Taddeo Pepoli.
Al progressivo allontanamento del G. dall'attività pubblica non furono forse estranei motivi di salute. Agli inizi del 1345 un'infermità lo obbligò a farsi sostituire dal figlio Giovanni nella gestione degli affari e il 18 apr. 1346, aggravatesi le sue condizioni, dettò il proprio testamento.
L'atto rivela l'alto rango sociale cui il G. era pervenuto. Le sue figlie erano spose o promesse a membri delle più rilevanti famiglie cittadine (Odofredi, Caccianemici, Tencarari, Albergati, Passipoveri); tra gli esecutori testamentari vi erano due dottori dello Studio, Giovanni d'Andrea e Giovanni de' Preti, mentre il patrimonio, del quale erano istituiti eredi i figli Giovanni e Giacomo, aveva raggiunto una notevole consistenza. Rimane in quest'ultima vicenda una zona oscura ed è quella che riguarda il figlio Albizino, che, causa il suo comportamento immeritevole, il G. ricordò con un lascito soltanto simbolico. Di quali colpe in particolare Albizino si fosse macchiato il G. non dice, né è stato possibile per noi determinarle.
Dopo la stesura delle sue ultime volontà non si hanno più notizie del G. che dovette morire poco tempo dopo.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Bologna, Comune, Governo, Riformagioni del Consiglio del Popolo, voll. 11, cc. 289v, 290v; 13, cc. 108-112v; 15, c. 226v; Provvigioni cartacee, s. III, reg. 30, c. 112; Riformatori degli estimi, s. I, vol. 6/2, c. 1; s. II, b. 162; Venticinquine, b. 7, aa. 1333, 1334, S. Ambrogio; b. 16, reg. 7, c. 20, S. Giacomo dei Carbonesi; Ufficio dei Memoriali, voll. 220, c. 209; 222, c. 301; 228, c. 132; 284, c. 25v; 286, c. 158v; 290, c. 27v; Archivio Pepoli, Sommario sec. XIV, c. 126; Corpus chronicorum Bononiensium, a cura di A. Sorbelli, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XVIII, 1, vol. II, ad ind.; M. de Griffonibus, Memoriale historicum de rebus Bononiensium, a cura di L. Frati - A. Sorbelli, ibid., XVIII, 2, ad ind.; Consigli della Repubblica Fiorentina, I, a cura di B. Barbadoro, Bologna 1921, p. 22; C. Ghirardacci, Istoria di Bologna, Bologna 1605, p. 563; Id., Historia dei vari successi d'Italia e particolarmente della città di Bologna, II, Bologna 1669, ad ind.; G. G0zzadini, Delle torri gentilizie di Bologna…, Bologna 1875, p. 260; M. Sarti - M. Fattorini, De claris Archygimnasii Bononiensis professoribus…, a cura di G. Albicini - C. Malagola, Bologna 1888-96, I, p. 290; II, pp. 107, 148; N. Rodolico, Dal Comune alla signoria. Saggio sul governo di Taddeo Pepoli in Bologna, Bologna 1898, pp. 128, 215, 240.