GHEDINI, Fernando Antonio
Nacque a Bologna il 19 ag. 1684 da Pietro Alberto e da Caterina Mingarelli.
Medico, naturalista, filosofo e letterato, attese dapprima agli studi di grammatica e retorica presso i padri gesuiti, in seguito fu allievo del collegio Dosi della sua città, dove si dedicò alla filosofia. Laureatosi in medicina il 19 giugno 1704 nella facoltà dell'ateneo bolognese, non esercitò mai la professione. Fu attratto dallo studio della letteratura e strinse amicizia con E. Manfredi, matematico e letterato, alternando la composizione di versi e di prose ad alcuni lavori di matematica e di scienze naturali. Condizioni economiche disagiate lo spinsero ad accettare, tra il 1710 e il 1712, l'incarico di precettore presso la famiglia Caracciolo. Nel 1715 dimorò un anno a Roma, dove fu ascritto all'Arcadia con il nome di Idaste Pauntino, conquistandosi la protezione di papa Clemente XI e l'amicizia e le lodi di molti illustri letterati e personaggi del tempo, tra i quali G.B. Roberti, G.B. Morgagni, S. Bettinelli e C. Zampieri.
Il G. letterato fu arcadico e fiero antimarinista, impegnato con la sua poesia a distruggere quanto rimaneva dell'odiata maniera seicentista in nome di un ritorno allo studio degli antichi lirici (Pindaro e Petrarca in primo luogo). Non è attendibile però la diffusa credenza che fu proprio lui a trascinare il Manfredi nella battaglia contro lo stile corrotto del Marino e dei suoi seguaci. La sua forza e severità di stile tuttavia, ben lungi da certe sdolcinatezze arcadiche, diedero vita, secondo i contemporanei, a componimenti dai toni troppo aspri.
Insieme con il Manfredi, G. e F.M. Zanotti, suoi colleghi letterati-scienziati, il G. è considerato il principale rappresentante del cosiddetto secolo d'oro della storia letteraria bolognese. Le vicende biografiche e l'attività di questo gruppo di intellettuali, che furono definiti "riformatori della bella letteratura" (l'epiteto fu a loro attribuito per la prima volta dall'abate gesuita G.B. Roberti, ma ripreso con cognizione critica soprattutto da D. Provenzal), sono fondamentali per la ricostruzione del clima culturale accademico di Bologna nella prima metà del sec. XVIII. Il movimento di idee al quale il G. e i letterati dell'età sua diedero vita, tendente a riformare illuministicamente la nostra letteratura, non potrebbe infatti essere colto nella sua profondità se non si considerasse il ruolo fondamentale che il pensiero scientifico rivestì come parte integrante nella loro personalità. Il G. e gli altri consideravano la letteratura il fiore della cultura del tempo, dedicandole il tempo che rimaneva loro dalle speculazioni scientifiche, ma plasmandola con un dilettantismo colto e animato da un sincero spirito di rinnovamento. La brigata dei riformatori amava riunirsi fraternamente, senza vani cerimoniali e solenni adunanze, nelle proprie case, intrattenendosi in conversazioni letterarie, filosofiche e scientifiche. Dal punto di vista strettamente letterario, il G. e i suoi colleghi potrebbero essere definiti arcadi della prima maniera, lontani dal petrarchismo epigrammatico e pastorale romano.
Le Rime del G., edite postume (Bologna 1769), sono costituite in gran parte da sonetti di argomento sacro, amoroso, ma soprattutto d'occasione, per nozze, monacazioni, lauree. Poco disinvolto nelle poesie erotiche - dove sono evidenti l'imitazione petrarchesca e l'esuberanza giovanile -, il G. rivela un suo stile breve, austero e concettoso nei sonetti encomiastici, sacri e commemorativi, dove dimostra capacità inventiva, pur all'interno di situazioni e soggetti poetici ripetitivi. Tra i suoi componimenti si distinguono per felicità di stile - frutto del suo richiamo alla dignitas degli antichi poeti - l'Ode sull'entusiasmo di Pindaro e un sonetto dedicato alla città di Roma, in cui vengono pianti i mali d'Italia.
Composto nel 1715, di ritorno da un viaggio in Spagna, questo sonetto mette a confronto l'antica grandezza di Roma ("gran latina città") con il suo presente decadimento, in cui non è più possibile rinvenire alcuna "reliquia di Fabbrizi e Curi", ovvero nessuna integrità di vita e severità di costumi. Questo componimento del G. fu inserito da G. Leopardi nella Crestomazia italiana poetica (1828), certamente perché rispondente, per stato d'animo, alla delusione provata al tempo della sua esperienza romana, ma soprattutto per la presenza di un motivo che costituirà una delle fonti principali della sua ispirazione poetica: l'esaltazione delle antiche età, in cui gli uomini sembravano migliori e nelle quali è rimasto sepolto per sempre il segreto della felicità perduta.
Del G. - oltre alle Rime (comprendenti 107 poesie: 102 sonetti, 4 canzoni, un'egloga religiosa) ristampate, con aggiunta della vita dell'autore, a Bologna nel 1818 - si conserva una prolusione alle lezioni di storia naturale dal titolo Ad exercitationes de rebus naturalibus praefatio (ibid. 1720). Entrambe le edizioni delle Rime, assolutamente gemelle per quanto riguarda i componimenti, contengono solo le poesie che il G. autorizzò negli ultimi anni di vita; le altre, rintracciabili in qualche miscellanea, vennero soppresse dall'editore. Discorso a parte meritano le Lettere familiari, 144 epistole a vari destinatari inserite nell'anonima Raccolta delle lettere familiari di alcuni bolognesi (ibid. 1744), particolarmente felici per eleganza di lingua e naturalezza, tanto da essere segnalate in più di un'occasione come modello di amena e onesta corrispondenza, soprattutto per i giovani: alcune di queste lettere sono riprodotte nella raccolta di Corrispondenza familiare femminile (ibid. 1871), compilazione curata da S. Muzzi e, come recita il sottotitolo, "fatta su buoni scrittori italiani per esercizio epistolare delle giovanette".
Lasciò manoscritte una versione dell'Eneide, additata da qualche suo troppo acceso sostenitore come superiore alla cinquecentesca versione in endecasillabi sciolti di A. Caro, e un'orazione in morte del Manfredi.
Nel 1718 fu eletto principe della bolognese Accademia dei Difettuosi e nel 1719 nominato dal Senato professore di storia naturale all'Istituto delle scienze. Chiamato a Napoli dal principe di Bisignano come precettore di suo figlio, vi rimase per venti mesi e sempre con il cuore rivolto verso la sua città natia, nella quale riuscì a fare ritorno solo dopo altri due anni di residenza a Roma.
Grazie all'interessamento del Manfredi, fu nominato professore di eloquenza nel collegio Sinibaldo nella sua città e mantenne la cattedra, oppresso dai debiti ereditati dal padre, fino al 1767.
Morì a Bologna il 28 genn. 1768.
Fonti e Bibl.: De vita F.A. Ghedini. Commentarius cum testimoniis, Bologna 1771; G.B. Grilli Rossi, Delle lodi di F.A. G. poeta lirico bolognese, Bologna 1820; E. De Tipaldo, Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti, I, Venezia 1834, pp. 399 s.; D. Provenzal, I riformatori della bella letteratura italiana: Eustachio Manfredi, Giampiero Zanotti, F.A. G. e Francesco Maria Zanotti. Studio di storia letteraria bolognese del sec. XVIII, Rocca San Casciano 1900, pp. 193-205, 317 s. e passim; C. Calcaterra, Alma Mater Studiorum. L'Università di Bologna nella storia della cultura e della civiltà, Bologna 1948, p. 260 e passim; C. Musumarra, Poeti del Settecento nella Crestomazia leopardiana, in Siculorum Gymnasium, XVI (1963), p. 26; G. Natali, Il Settecento, Milano 1973, I, pp. 182, 203; II, pp. 14 s., 23.