DELLA MARRA, Ferrante
Scrittore napoletano vissuto tra la fine del sec. XVI e la prima metà del XVII, appartenne a nobile ed antica famiglia di origine normanna. Fu al servizio del granduca di Toscana Ferdinando I, come egli stesso dichiara, indicando nel 1600 la data di un suo soggiorno fiorentino. Nel 1607 acquistò dalla duchessa Francesca de Lannoy il feudo di Guardialombardi, per la somma di 49.000 ducati e nel 1611 ottenne dal sovrano di Spagna Filippo III il titolo di duca della Guarda, con cui venne poi generalmente indicato. Dai suoi scritti apprendiamo che sposò Beatrice della Tolfa, vedova di Giovanni Antonio Carbone, marchese di Padulo; nel 1629 donò la terra di Guardialombardi al figlio Luigi che cessò di vivere nel 1635.
Il D. è autore dei Discorsi delle famiglie estinte, forastiere, o non, comprese ne' Seggi di Napoli imparentate colla casa della Marra, una ponderosa opera di araldica, che ricostruisce le genealogie di numerosi e illustri casati, che ebbero con i suoi avi rapporti di parentela, ma che risultano ormai estinti, almeno nel loro ramo napoletano. L'opera è dedicata al "serenissimo principe Ferdinando II granduca di Toscana", del cui "avolo" Ferdinando I il D. riconoscente sembra ancora ricordare i benefici.
I Discorsi furono pubblicati da Camillo Tutini nel 1641; ma lo stesso curatore ci informa che essi risalgono alla "prima gioventù" del D., che li compose "nell'otio della Guardia e del castel di Marano". Orgoglio familiare e rimpianto per un tempo, in cui la casa Della Marra "fu più ch'al presente non è in buona fortuna, e stato", animano il libro, che è teso a rivendicare l'appartenenza della famiglia al più alto rango della nobiltà e a smentire in un certo senso la diffusa opinione che la vera aristocrazia è quella compresa "in Capoana, in Nido, o in altro de' Napolitani Seggi". Ma al di là di queste intenzioni celebrative, il D. rivela una grande serietà nel condurre le sue ricerche e non poca attitudine e competenza nell'illustrare la storia delle varie genealogie. Egli infittisce la sua documentazione segnando in margine al testo "i luoghi cavati dagli Archivi pubblici e segreti e d'altri autori e codici manoscritti" (Tutini), mostrandosi a suo agio nel rintracciare scrupolosamente le trame di tante storie familiari, che costituiscono lo sfondo di vicende storiche, anche decisive, del Regno di Napoli nei secoli precedenti.
Tra il 1624 e il 1631 il D. scrisse poi la Ruina di case napoletane del suo tempo, opera che costituisce la naturale continuazione dei Discorsi ed è animata da un così forte sentimento della decadenza di tanti grandi casati, da costituire quasi il necrologio di una classe sociale votata allo sterminio e all'autodistruzione.
Invece che su fonti archivistiche, nella Ruina il D. fonda la documentazione quasi esclusivamente sulla sua memoria o sull'osservazione diretta dello sfacelo di un inondo; manca infatti quell'intento celebrativo, che scaturiva dalla ricostruzione di una prestigiosa araldica e la storia delle più nobili famiglie si limita ai loro più recenti e rovinosi trascorsi. Il tema dell'estinzione di tanti rami senza linfa, il tema della fin de la race immette nel libretto un tono funerario o, almeno, pateticamente elegiaco, allorché si sfiorano le sorti della casa Della Marra, non meno di altre assottigliata di beni e di uomini. Il fascino della Ruina risiede proprio in questo sapore di morte e di polvere, che accompagna il declino inarrestabile di un patriziato senescente, che non sa difendersi dall'esproprio sistematico attuato dai funzionari spagnoli, né sa reagire alla sua fisiologica decrepitezza. Il libro è una galleria di ritratti allucinanti: ci sono vecchi, dal sangue estenuato, alla ricerca disperata di un impossibile erede; ci sono dame che riparano nei conventi per procurarsi l'oblio o una stentata sussistenza; ci sono duchi ridotti alla mendicità (il duca di Amalfi), che raccattano le scarpe "tralasciate" da un "criato"; ci sono principi della prima nobiltà nella prigione di Castel Nuovo (Giovanni Berardino Sanseverino) ed altri, come l'omicida Carlo di Venosa, che scontano in vita le loro colpe, assediati da incubi religiosi e da inquietanti presenze demoniache. Il D. tenta di far rientrare questo stupefacente collasso del suo ceto entro valutazioni morafistiche, attribuendo al "lusso", alla "prodigalità", alla "gola" lo sperpero di patrimoni, come quello del duca di Termoli, che aveva provocato "una voragine così grande" nei suoi beni, che "bisognava ch'ogni anno si vendesse una terra"; talvolta anzi egli si spinge fino a ritenere una giusta nemesi l'irreversibile prostrazione di un casato: "Raro esempio è stato ai tempi nostri quello di Gio. Battista Caracciolo Rosso marchese di S. Elmo, per vedere come Dio benedetto non sempre ritarda dopo la morte la pena della malignità et invidia degli uomini". Ma dal libro emerge soprattutto l'incapacità di una vecchia classe, che pure ancora nel Cinquecento aveva dato testimonianza di vigore e di virtù militare, di assumere ruoli sociali compatibili con le sue tradizioni e che perciò precipita nella follia di spese sconsiderate tra vanità ed apparati, tra dissanguanti dispute ereditarie e maniacali e costosi loisirs, tra pratiche alchemiche e devozioni raccomandate dai gesuiti. Di questa finis il D. è testimone tanto più sconsolato quanto più essa lambisce, e talora inghiotte, gli stessi congiunti, che non sono solo i parenti prossimi, ma i componenti di un intero sistema sociale, che si fondava ancora su una rigida selezione dei matrimoni ma che proprio per questo era diventato una casta senza ingressi e senza rinnovamento. Nel descrivere i caratteri di questa "ruina", certo favorita dall'amministrazione spagnola che osteggiava fortemente la nobiltà indigena e cercava di annientarla "con liti interminabili e con confische di feudi" (Rodolico, p. 90), il D. dà risposte da moralista e non da storico; ma egli è come annichilito da questo schianto inspiegabile e perciò sa solo rievocare l'opulenza di un tempo o piangere sulla sorte di qualche aristocratico che non dispone più nemmeno di un "ferraiolo".
Il D. morì dopo il 1641.
L'edizione dei Discorsi delle famiglie estinte, forastiere, o non comprese ne' Seggi di Napoli imparentate colla casa della Marra, curata da Camillo Tutini, è stata pubblicata a Napoli nel 1641; la Ruina di case napoletane del suo tempo, a cura di G. De Blasiis, in Archivio stor. per le provincie napoletane, XXV (1900), pp. 355-386.
Fonti e Bibl.: S. Volpicella, G. B. Del Tufo illustratore di Napoli del sec. XVI, Napoli 1880, p. 162; N. Rodolico, Alla vigilia della Repubblica napoletana del 1799, in Arch. stor. italiano, LXXX (1922), pp. 87-92; R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1647), Bari 1967, p. 162; E. Ricca, La nobiltà delle due Sicilie, Napoli 1862, II, pp. 56 s., 62.