IMPERATO, Ferrante
Nacque, probabilmente a Napoli, intorno al 1525, come si ricava da un'affermazione del figlio Francesco, che in una opera scritta nel 1605 (Lettera composta in verso sdrucciolo intorno alle procelle, et esalationi occorse in Napoli, nel dì 14 del mese d'ottobre, l'anno 1605, Napoli 1606, p. 25; citata in Stendardo, 2001, p. 12) lo dice "vecchio ottuagenario".
Forse il padre si chiamava Luca. La congettura si basa sull'esistenza, nel secolo XVII, di una lapide nella chiesa partenopea dello Spirito Santo, sulla quale era inciso il nome di tale Luca Imperato (segnalata da D'Engenio Caracciolo, e sul rinvenimento di un documento (Arch. di Stato di Napoli, Archivi notarili, Notai del Cinquecento, prot. 1254, c. 164) che in data 1° genn. 1589 concedeva all'I. un suolo da adibire a sepoltura nella stessa chiesa. Di certo la famiglia apparteneva ai ceti produttivi napoletani.
Sulla giovinezza dell'I. e sui primi anni della sua professione non si hanno notizie. Lo si conosce già speziale e naturalista affermato, di solidissima posizione economica, sposato e padre di tre figli: oltre a Francesco, Andrea e una femmina, della quale non è noto il nome e che morì verso la fine del 1612. Nello stesso anno venne a mancare anche la moglie dell'Imperato. L'inizio della sua attività professionale va comunque fatto risalire perlomeno agli anni intorno al 1554, come attesta B. Maranta, che nel suo Della theriaca et del mithridato libri due (Venezia 1572, p. 35), così scrisse: "Et io mi ricordo, che quando l'Imperato la fece la prima volta [scil. la teriaca] stentò poco meno di tre anni, per potere avere tutte le cose; […] nella prima […] la quale egli fece nell'anno 1557". La bottega dell'I. era situata in piazza S. Chiara, come locale annesso alla sua abitazione (Filangieri). In quest'ultima era invece accolto, in una sala e sul terrazzo, adibito a giardino pensile, il suo famoso "museo" naturalistico.
Nato, oltre che dalla passione, da esigenze pratiche collegate alla sua attività di speziale, il museo raccoglieva un grande numero di oggetti appartenenti ai tre regni, animale, vegetale e minerale (animali imbalsamati, mirabilia, fossili, pietre e gemme, terre, succhi, essenze, profumi, oli, inchiostri, piante ed erbe secche, semi e altro), una certa quantità di artificialia, collezionati in quanto in relazione con il mondo della natura, la corrispondenza scientifica dell'I. e, infine, una galleria di ritratti di scienziati illustri. Sappiamo inoltre, da alcune fonti, che nel museo furono accolti anche animali vivi (almeno un icneumone e una tartaruga). Il contenuto di un contratto stipulato il 25 sett. 1566 tra l'I. e due maestri intagliatori del legno, F. e B. Canosa (ibid.), ha avvalorato la convinzione che le raccolte ebbero una loro prima sistemazione verso il 1566-67; sicuramente furono poi riordinate e ampliate nel 1586, come attesta una lettera indirizzata dall'I. a G.V. Pinelli e datata 28 ag. 1586 (Stendardo, 1991, p. 67).
Una parziale rappresentazione dell'allestimento con il quale furono esposte le collezioni dopo quella data la si ritrova nell'unica opera data alle stampe con il nome dell'I., Dell'historia naturale (1599), e in particolare nell'elegante xilografia di autore ignoto che apre il libro: la disposizione, che rispondeva al tipico canone estetico dei musei tardorinascimentali, prevedeva scaffali e armadi lungo le pareti e pezzi d'ingombro, soprattutto grossi animali imbalsamati, sul soffitto. I materiali esposti provenivano da campagne naturalistiche condotte personalmente o commissionate dall'I., da acquisti, doni e scambi con altri studiosi di tutta Europa, molti dei quali conosciuti a Francoforte, durante l'annuale fiera-mercato del libro che, a quanto risulta, fu frequentata dall'I. con una certa regolarità.
Parte integrante delle collezioni era poi un copioso e celebre erbario secco, che l'incisione dell'Historia mostra come collocato su una scaffalatura sulla sinistra dell'area espositiva. Composto secondo le fonti da un numero di volumi variabile (Bartholin; Celano) tra i dieci e gli ottanta, in folio di carta di lino imperiale e rilegati in pergamena, l'erbario subì - già prima della dispersione delle raccolte, compiutasi nella seconda metà del XVII secolo - un ridimensionamento. Sopravvissero solo nove volumi, acquistati insieme con altri reperti nei primi anni del XVIII secolo da N. Cirillo. Da costui, attraverso il figlio Sante, i volumi passarono al nipote Domenico. La maggior parte di essi fu poi distrutta nell'incendio dell'abitazione di Cirillo, procurato, nel giugno 1799, dai sanfedisti, che non gli perdonarono la partecipazione alla Repubblica napoletana. Dalla rovina si salvò un solo volume che, acquistato da C. Minieri Riccio, fu poi donato alla Biblioteca nazionale di Napoli, dove è oggi conservato (Mss. e rari, XIV.D.43).
Nella sua professione l'I. godette di una notevole autorità e stima, tanto che già prima del 1572 fu eletto (lo si ricava dalla dedica del Della theriaca et del mithridato libri due di B. Maranta) dai suoi colleghi partenopei membro del Consiglio di ispezione e sorveglianza dell'arte degli speziali, il Consiglio degli otto, che, oltre a controllare la correttezza dell'attività dei membri della corporazione, aveva anche il compito di sovrintendere alla preparazione dei composti farmaceutici più delicati. D'altronde, era ben nota la sua tempra non solo di "prattico", ma anche di studioso e ricercatore. Anzi, le tre figure in lui coincidevano, potenziandosi a vicenda, tanto che, quando vide la luce a Venezia, nel 1572, per i tipi di M. Olmo, l'opera Della theriaca et del mithridato libri due… ne' quali s'insegna il vero modo di comporre i sudetti antidoti, et s'esaminano con diligenza tutti i medicamenti che v'entrano (terminata nell'ottobre 1570), apparve evidente ai contemporanei che, sebbene firmata solo da B. Maranta, essa fosse il frutto di un sodalizio teorico e sperimentale tra questo e l'Imperato.
Il libro era una sorta di prontuario per la realizzazione dei due rimedi, che sfruttava l'esperienza professionale dell'I. e puntava sul suo rigore nell'applicazione delle modalità di preparazione originali. Le ricette indicate erano quelle codificate dalla tradizione, integrate - lì dove il testo originale risultava lacunoso - con il metodo filologico. Conosciuto dal pubblico europeo nella traduzione latina curata da J. Camerarius (Libri duo de theriaca et mithridatio a Bartolomeo Maranta… Italico sermone scripti…, Francoforti ad Moenum 1576), il Della theriaca innescò un'aspra polemica con il Collegio dei medici patavini, che dissentivano su componenti, dosi e modalità di preparazione dei due composti. Nelle Meditationes doctissimae in theriacam et mithridaticam antidotum a clarissimis philosophis et medicis Iunio Paulo Crasso, Bernardino Taurisano, Marco Oddo ex inclyto Patavinorum Medicorum Collegio ad id selectis accuratissime elucubratae et ab eodem Collegio confirmatae: per quas verissima methodus conficiendarum antidotorum perhibetur et multi medicorum et pharmacopaeorum errores confutantur (Venezia 1576) i padovani attaccarono duramente il pharmacopola I. (Maranta era deceduto nel 1572), pur senza mai apertamente nominarlo, e, al di là dei singoli motivi di dissenso, misero in discussione quella che era l'idea di fondo dell'opera, che medicina e farmacopea fossero strettamente legate tra loro, e medici e speziali fossero colleghi alla pari.
La replica partenopea non si fece attendere, ed ebbe carattere collettivo. Infatti il Theriace et mithridatia libellus, in quo harum antidotorum apparatus atque usus monstratur. Marantae, ac Patavini Collegii controversiae perpenduntur. Praeterea de plurimis haud satis cognitis medicamentis disseritur (Napoli 1577), oltre al lungo scritto di pugno di N.A. Stigliola che dà il titolo all'opera e confuta sistematicamente le asserzioni dei medici padovani, contiene anche una lettera dell'I., in apertura del libro, di tono assai pungente, rivolta contro la superbia e la slealtà di chi non accettava il confronto delle idee. Con orgoglio, in essa l'I. rivendicava il diritto di uno speziale a trattare di argomenti di materia medica, sulla scia della competenza maturata in anni di lavoro e di ricerca.
Peraltro, non è azzardato considerare la bottega e il museo dell'I. come veri e propri laboratori di ricerca. Furono perciò frequentati, oltre che dal Maranta e dallo Stigliola, anche da G.B. Della Porta, da G. Donzelli, F. Colonna, M.A. Severino e, forse, da T. Campanella. L'I. vi conduceva osservazioni sperimentali, tra cui una sul parto delle vipere, sulla quale nel 1572 inviò, per il tramite di G.V. Pinelli, una relazione a P.A. Mattioli, da questo inserita nei suoi Discorsi…nelli sei libri di Pedacio Dioscoride anazarbeo della materia medicinalehora di nuovo… ricorretti et in più di mille luoghi aumentati (Venezia 1573, p. 245).
Le attività di studioso, di naturalista e di speziale non furono sufficienti a soddisfare le poliedriche attitudini di cui si nutriva lo spirito dell'Imperato. Dal nono decennio del XVI secolo, infatti, a esse venne ad affiancarsi un nuovo ruolo, assunto in campo politico-amministrativo e sociale. Tale impegno è documentato già a partire dalla metà degli anni Ottanta (cfr. Fr. Imperato, Privilegi capituli e grazie concesse al fidelissimo populo napolitano et alla sua Piazza, Napoli 1624, p. 76): nel 1585, infatti, fu capitano del Popolo dell'ottina di Nido, e in questa veste fu assiduo frequentatore di G.L. Pisano, capitano della piazza della Selleria, ritenuto dagli Spagnoli il suggeritore di una sommossa verificatasi nel maggio di quell'anno, nella quale le rivendicazioni di maggiore peso politico della componente popolare nel governo della città venarono un moto plebeo ed essenzialmente economico nelle sue origini. A quanto sembra, comunque, le posizioni dell'I. sono riconducibili a un ambito di assoluto lealismo spagnolo e monarchico, fatto che non escludeva però la richiesta di riconoscimento di antichi privilegi per la propria parte, in evidente funzione antiaristocratica. Due anni dopo, nel 1587, l'I. fu eletto a un importante incarico di carattere assistenziale: governatore popolare della Gran Casa dell'Annunziata, complesso che comprendeva un collegio, cinque ospedali, una spezieria, un Monte di pietà e un organo preposto all'elemosina e che amministrava un ingente patrimonio anche in feudi (Fr. Imperato, Discorsi intorno all'origine, regimento e stato della Gran Casa della Santissima Annunziata di Napoli, Napoli 1629, pp. 60 s.). A tale carica fu rieletto nel 1594. Infine, nel 1597, fu protettore del Sacro Monte di pietà, per il quale, insieme con altri cinque benefattori, comperò una nuova sede in contrada Nilo, il palazzo Carafa (Tortora).
A due anni da questa ultima data videro la luce, editi a nome dell'I. e per le cure del figlio Francesco, i Dell'historia naturalelibri XXVIII. Nella quale ordinatamente si tratta della diversa condition di miniere, e pietre. Con alcune historie di piante, et animali sin hora non date in luce (Napoli, C. Vitale, 1599).
Sebbene da un passo di un'opera di F. Colonna (Minus cognitarum rariorumque nostro coelo orientium stirpium ekphrasis…, Romae 1616, lettera al lettore) si possa desumere che, prima di questo, l'I. avesse scritto altri commentari intorno alle cose naturali, e benché da una lettera dell'I. a I. Agostini del 1° genn. 1601 (Nannizzi, p. 10) parrebbe che la citata edizione del volume non sia la prima, allo stato degli studi, non essendo emerso altro, la si deve considerare l'editio princeps dell'unica opera data alle stampe dall'Imperato. Bisogna aggiungere che, poco dopo la sua pubblicazione, iniziarono a circolare dubbi sulla paternità. Voci sostenevano che il volume sarebbe stato di pugno dello Stigliola, da lui venduto all'I. per una somma utilizzata come cauzione per la sua libertà, ai tempi del processo subito per irreligiosità. Oggi si è concordi nel ritenere il libro sostanzialmente dell'I., pur se si reputa probabile un intervento, soprattutto sul piano della stesura, dello Stigliola. Chi, invece, sembra destinato a rimanere ignoto è l'autore - o gli autori - delle 119 notevoli tavole naturalistiche che illustrano il testo: le congetture avanzate (M. Cartaro, un ignoto fiammingo) sono state tutte rifiutate, per le troppe difficoltà che sollevano.
L'opera si configura come un trattato di storia naturale, la cui caratteristica più significativa sta forse nella volontà da parte dell'autore di integrare e verificare le notizie fornite dalla fonti ritenute più attendibili, scelte in maniera appropriata e filologicamente sorvegliata, con i dati risultanti dalle sue personali ricerche. È così manifestata un'intima adesione al punto di vista dei novatori e al loro metodo sperimentale, peraltro annunciata a chiare lettere con tutta una serie di dichiarazioni a tutela della libertas investigandi. Da tale adesione discende quel ruolo primario assunto nel testo dalla categoria dell'utile: terre, piante, erbe, animali, minerali e metalli sono tutti studiati in funzione della farmacopea, la trattazione sull'aria è in relazione al rapporto tra clima e salute dell'uomo, le trasmutazioni iatrochimiche rivestono interesse al fine di individuare il processo da seguire per produrre il "rimedio universale". Non che manchino disquisizioni più strettamente teorico-scientifiche. Anzi, esse sono storicamente molto rilevanti in quanto costellate da molteplici intuizioni, in aperto dissenso con la cultura allora corrente, che spaziano dalle affermazioni sulla natura dei fossili a quelle sulle maree e sulla salinità del mare, dalle ipotesi avanzate a proposito di vulcanismo e di sismicità a quelle fatte per i fenomeni ottici e per le comete, così come a quelle su tematiche inerenti la botanica e la zoologia. Ma ciò da cui il libro è alieno è l'intento enciclopedico-classificatorio, ancora prevalente in tante altre trattazioni naturalistiche contemporanee, e da questo trae quell'aspetto che gli è proprio e che lo pone in linea con le esigenze di specializzazione negli studi scientifici che andavano allora emergendo.
L'ultimo scorcio della vita dell'I. fu caratterizzato, a giudicare dalle fonti, dal gran numero di visite di viaggiatori che lui, e il suo museo, ricevettero. Tra queste di notevole rilievo è quella di F. Cesi, giunto a Napoli nel 1604 per valutare la possibilità d'insediarvi una colonia dell'Accademia dei Lincei. Tra i due si stabilirono cordialissimi rapporti (Gabrieli, 1996, p. 41). Colpisce, quindi, che quando nel 1612 venne fondata la colonia napoletana dell'Accademia romana, nell'elenco dei suo membri non figurò il nome dell'I. (così almeno secondo il Lynceographo, pur se un'altra fonte, le schede che M. Fogel redasse tra il 1662 e il 1666 in previsione di una storia dell'Accademia dei Lincei, annovera anche l'I. tra gli accademici: si veda Gabrieli, 1989, p. 288). È stato detto che a sconsigliare l'ascrizione fu probabilmente sia l'impegno politico attivo dell'I., sia la sua non piena rispondenza ai requisiti del candidato linceo (Olmi, pp. 43-45), anche se è da rilevare che tali caratteristiche non rappresentarono un ostacolo all'associazione dell'I., negli anni intorno al 1611, alla napoletana Accademia degli Oziosi. Di fatto, l'I. continuò a tenere corrispondenza e a essere frequentato da personaggi legati ai Lincei, in particolare J. Faber, con il quale entrò in contatto nel 1608, quando costui si recò a Napoli alla ricerca di vie per aiutare T. Campanella.
Quando, e dove, l'I. morì, non è noto. La fonte più tarda che lo cita in vita è in un passo dell'Additio apologetica ad suam de opobalsamo orientali synopsim (Neapoli 1640), di G. Donzelli, dove si racconta di una certa quantità di liquore di opobalsamo che l'I. ricevette da Padova nel 1615. Tutte le date successive proposte sono, allo stato degli studi, frutto di mere congetture.
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