PALLAVICINO, Ferrante
PALLAVICINO (Pallavicini), Ferrante. – Nacque, settimo di 8 figli, a Parma il 23 marzo 1615 da Giangirolamo, marchese di Scipione, e da Chiara Cavalca, figlia del conte Pompeo.
Il padre, che aveva avuto incarichi alla corte del duca Ranuccio Farnese, morì nel 1628. Destinato al chiostro dagli usi del tempo e dalle condizioni familiari, nel 1631 Ferrante entrò nel monastero milanese di S. Maria della Passione della Congregazione dei canonici regolari lateranensi, dove prese i voti con il nome di Marcantonio da Parma. Al contempo rinunciò a ogni diritto ereditario a favore del fratello Pompeo, ufficiale alla corte di Odoardo Farnese, il quale gli riconobbe una pensione annua di 50 ducatoni milanesi. Nel 1634 passò al monastero di S. Giovanni da Verdara di Padova. Entrò quindi in contatto con il vivace ambiente dello studio locale, dove era ancora fresca l’impronta lasciata da Cesare Cremonini, celebre filosofo aristotelico eterodosso, sostenitore della mortalità dell’anima e punto di riferimento del libertinismo italiano. Fu in quel contesto che Pallavicino ebbe modo di allacciare rapporti con membri dell’accademia degli Incogniti, la principale accademia libertina d’Italia, dominata dal patrizio veneziano Giovanni Francesco Loredan. A Padova, appena ventenne, pubblicò il primo scritto a stampa, Il sole ne’ pianeti (1635), un ‘panegirico in lode’ di Venezia che gli fu utile per entrare nei favori della classe dirigente della Repubblica di S. Marco. Sul finire di quello stesso anno doveva già essersi trasferito al monastero veneziano della Carità e il 21 novembre 1635 ottenne il privilegio per la sua prima opera veneziana, la Susanna, che uscì nei primi mesi dell’anno successivo presso Giacomo Sarzina, tipografo ufficiale degli Incogniti.
Si strinsero intanto i rapporti con Loredan – che ebbe a definirlo «un altro me stesso» (1653, p. 6) – di cui divenne segretario, e con altri membri dell’accademia, primo tra tutti il coetaneo Girolamo Brusoni, come lui religioso contro volontà e scrittore di successo. Nello stesso periodo frequentò assiduamente l’accademia filarmonica degli Unisoni, fondata nel 1637 dal poeta Giulio Strozzi, con la cui figlia adottiva, la celebre cantante Barbara allora diciottenne, avrebbe avuto una relazione mal corrisposta (si veda la lettera A donna che rifiuta l’amante, in Panegirici, epitalami, discorsi accademici, novelle et lettere amorose, Venezia 1649, pp. 158 s.). In quegli anni il giovane Pallavicino avviò un’intensissima e regolare attività letteraria. Proverbiali divennero le sue capacità di lavoro. L’amico Brusoni narra che dedicava alla scrittura tutte le mattine, riservando il resto della giornata alla «conversazione con gli amici e con le donne» (Brusoni, 1654, p. 21).
Tra 1636 e 1639 pubblicò 18 titoli, misurandosi nei generi più disparati, romanzo, racconto biblico, attualità politica, encomiastica, racconto classico, devozione. Tra questi non mancarono le traduzioni. I Successi del mondo dell’anno MDCXXXVI (Venezia, Tomasini, 1638) – che lo misero in contrasto con il duca di Parma – sarebbero la versione italiana di un volume del celebre periodico Mercurius gallobelgicus e Il principe ermafrodito (Venezia 1640) si ispirò a un’opera spagnola non identificata. Il successo fu immediato e molte delle sue opere ebbero frequenti ristampe.
Più che l’invenzione egli teorizzò la necessità di scegliere storie note e di reinterpretarle secondo il gusto dei tempi, lavorando sui dettagli e sulle descrizioni. Pur non perdendo l’occasione per i dettagli osceni e gli spunti pornografici, prevalsero, almeno nelle opere di maggior successo, gli intenti politico-civili e l’anelito moralistico verso una giustizia consapevolmente misconosciuta dai potenti, del tutto disinteressati al senso etico del loro ruolo.
È stato notato che «la peculiarità dei romanzi di argomento sacro scritti da Pallavicino è data dal loro essere, rispetto alla coeva produzione di romanzi religiosi, strumento di un discorso dalle finalità strettamente politiche e morali e non come era negli altri di carattere devoto» (Piantoni, 2011, p. 46).
Così nella Susanna l’attenzione si rivolse in primo luogo verso l’incapacità dei giudici di essere giusti e nella Bersabee (1639) il grande contrasto è tra il re Davide che perde la ragione per la bella Betsabea e l’umile marito di lei Uria, capace di rimanere ligio ai propri doveri sino al sacrificio estremo.
Sino al 1639 i libri di Pallavicino non ebbero problemi con la censura; furono pubblicati con i regolari permessi delle autorità civili e religiose. Le cose cambiarono in quell’anno, quando la Pudicitia schernita (Venezia 1638), un romanzo che traeva spunto da una vicenda della Roma antica raccontata da Giuseppe Flavio, regolarmente licenziata a Venezia, cadde sotto l’attenzione del consultore della congregazione dell’Indice Leone Allacci, che vi ravvisò espressioni contra bonos mores e sistematici e impropri riferimenti alla divinità. Il 12 maggio 1639 ne venne pertanto decretata la condanna. Da allora l’attività di Pallavicino iniziò a cadere sistematicamente sotto lo sguardo dell’autorità ecclesiastica e del nunzio pontificio a Venezia Francesco Vitelli, singolarmente zelante nella lotta al libro libertino. Sino al 1669 successivi decreti misero all’Indice quasi tutta la sua produzione letteraria a stampa.
Nella primavera del 1639 si spostò a Genova, dove poté contare sull’ampia rete di relazioni assicuratagli dall’accademia degli Incogniti e dalla congregazione a cui apparteneva. Genovese e canonico regolare era Agostino Fusconi, accademico incognito e suo grande amico, come genovese era Anton Giulio Brignole Sale, patrizio e scrittore, in relazioni con Loredan. A Genova egli non interruppe la sua frenetica attività di scrittura. Vi pubblicò le Bellezze dell’anima (1639), la cui prima edizione dovette però circolare pochissimo, e l’Eolo dolente per l’edificio del nuovo molo di Genova (1639), una composizione d’occasione dedicata ad Ansaldo Mari.
Non è noto sino a quando si protrasse il soggiorno genovese e soprattutto cosa fece prima di rientrare a Venezia, probabilmente verso il febbraio 1640.
Esiste infatti la possibilità di un soggiorno di pochi mesi a Parigi, sulla base di una lettera diretta a Loredan, pubblicata a stampa solo in alcune edizioni dell’Adamo di Loredan con data Parigi, 24 novembre 1639 (Antonini, 1990). Un ulteriore dubbio è indotto da una lettera di Loredan senza data rivolta a Gabriel Lazari (1653, p. 6), segretario dell’ambasciatore veneziano presso la corte di Francia Angelo Correr, in cui si annunciava l’imminente arrivo di Pallavicino. Smentisce invece risolutamente questo viaggio la Biografia (1654) di Girolamo Brusoni, per il quale il viaggio in Francia non sarebbe mai avvenuto, poiché, invaghitosi di una ragazza, Pallavicino si sarebbe nascosto a Venezia da dove avrebbe scritto lettere agli amici come se vi fosse realmente andato. La questione non è di marginale importanza, poiché se vi si fosse effettivamente recato, sarebbe possibile ipotizzare qualche relazione con la corte di Francia che renderebbe più comprensibile l’inganno in cui cadde due anni dopo a opera di Charles de Bresche. Egli manteneva del resto rapporti molto buoni con l’ambasciatore, il quale a sua volta aveva strettissimi legami con la corte francese e con Mazzarino che proprio nel gennaio 1640 aveva raggiunto Parigi.
In quei mesi iniziò a scrivere il Corriero svaligiato, che costituì un deciso salto di qualità nella sua produzione letteraria e che secondo Brusoni fu la «sola cagione di tutte le sue disgrazie» (Brusoni, 1654, p. 8).
In quest’opera abbandonava i soggetti di ambientazione storica e si occupava con taglio fortemente satirico di vicende contemporanee. Nel febbraio 1640 lo scritto fu presentato agli uffici della censura veneziana per la consueta revisione. L’opera non ebbe obiezioni da parte dell’inquisitore del S. Uffizio, ma fu invece bloccata dal revisore laico, verosimilmente per motivazioni di carattere politico concernenti il rispetto dei sovrani stranieri. Non appare peraltro verosimile quanto Pallavicino sostenne nel corso del processo di Avignone, ovvero che il diniego sarebbe stato dettato da motivazioni private del censore a causa di ‘alcuni scherzi’ contro non meglio precisati musicisti.
In quelle stesse settimane la sua attività di scrittura proseguì incessantemente. Il 3 marzo 1640 firmò la dedica della Scena retorica (Venezia 1640), in cui peraltro continuava a promettere ai suoi lettori il Corriero, e il 15 maggio indirizzò a Loredan il Principe Hermafrodito (Venezia 1640). Fu nella dedica a quest’ultima opera che annunciò pubblicamente la censura del Corriero e la sua decisione di intraprendere «longhissimi viaggi» «non compatibili con lo scrivere». Subito dopo partì per la Germania, dove sarebbe rimasto sino al giugno-luglio dell’anno successivo.
Molto poco si conosce circa questo viaggio che dovette avere notevoli conseguenze nella sua vicenda umana. Egli ne accenna a poca distanza dal ritorno nella prefazione al lettore delle Due Agrippine (Venezia 1642). dove afferma di aver passato il tempo assistendo «di continuo alle operazioni del vino», come «s’usa colà, per non udire lo strepito delle armi». A distanza di oltre dieci anni Brusoni (1654, p. 9) scrisse che avrebbe seguito per «occulti suoi fini», in veste di cappellano, il marchese Ottavio Piccolomini, duca di Amalfi, importante generale al servizio dell’imperatore Ferdinando III di Asburgo. Sinora tuttavia non sono emersi altri documenti sicuri, neppure nel cospicuo archivio di Ottavio Piccolomini (conservato nello Statni Oblasti Archiv di Zámrsk, Repubblica Ceca).
L’esperienza tedesca dovette trasformarlo in profondità. Secondo Brusoni la «libertà di quella provincia» (1654, p. 10) e il contatto diretto con l’asprezza dei conflitti di religione lo cambiarono a fondo e quando, nell’estate 1641, fu di ritorno a Venezia apparve, anche fisicamente, un uomo del tutto differente da quello che era partito: «quasi deformato di viso, com’era cangiato d’animo», «per alquante scrofole nel collo e nella fronte, prese da lui nel caldo inusitato delle stuffe e forse nella dimestichezza delle femmine tedesche (delle quali portò a gli amici ridicolissime narrazioni)» (ibid.), «trasfigurato in guisa che pareva portasse fin d’allora la morte» (ibid. p. 18). La malinconia gli rendeva ormai anche difficili i rapporti personali con gli amici di un tempo che stentavano a sostenere «la sua conversazione» (ibid.).
Pallavicino riprese a scrivere, decidendo di dare alle stampe il Corriero svaligiato in una versione diversa da quella presentata l’anno prima alla censura veneziana, riscritta e arricchita da alcune lettere in più che nessuna censura del tempo avrebbe mai osato autorizzare (secondo Brusoni la censura veneziana non gli aveva più restituito il manoscritto). Tra queste spiccava una lettera contro ‘chi proibisce i libri’ nella quale difendeva con intensa passione le ragioni di chi scrive dalle prevaricazioni dei censori.
La struttura dell’opera era semplice: un principe d’Italia, sospettando trame ai suoi danni da parte degli spagnoli, aveva deciso di intercettare le lettere del governatore di Milano dirette a Roma e Napoli svaligiando il corriere che le portava a destinazione. Trattenute per sé quelle rivolte al viceré di Napoli e all’ambasciatore spagnolo a Roma, consegnò le altre a 4 gentiluomini della sua corte che iniziarono una pubblica lettura, creando l’occasione di un piacevole intrattenimento. Le lettere, quindi, e i commenti dei 4 cavalieri costituiscono un ottimo ed efficace pretesto per rappresentare una serie di situazioni diverse, ma accomunate dall’occasione di poter attaccare la politica spagnola, la corte pontificia, la famiglia del papa regnante, i gesuiti e più in generale usi e costumi dei tempi. Per la stampa questa volta si affidò direttamente ai servigi di chi a Venezia aveva diretta esperienza col mercato librario clandestino, i due fratelli Giovanni Francesco e Agostino Piccenini. Il Corriero uscì dunque a Venezia sul finire dell’agosto 1641, coperto dallo pseudonimo di Ginifacio Spironcini e dalla falsa indicazione di stampa di «Norimberga, per Hans Iacob Stoer». Poche settimane prima, il 9 luglio, anche la Rete di Vulcano (Venezia 1640) era stata posta all’Indice.
Contro di lui si levò allora l’energica voce del nunzio Francesco Vitelli, il quale era stato tempestivamente avvisato dell’operazione dallo storico Vittorio Siri, suo informatore in quegli ambienti. Il 21 settembre chiese alle autorità veneziane il sequestro dell’opera e l’arresto dell’autore. Due giorni dopo Pallavicino fu condotto nelle prigioni di palazzo Ducale. Nel frattempo in città si animarono vivaci discussioni tra i suoi potenti protettori e l’ala più moderata del patriziato. Si era peraltro alla vigilia di momenti di forte tensione tra Roma e Venezia, impegnata a sostenere le ragioni della famiglia Farnese a difesa del feudo di Castro contro Urbano VIII che intendeva inglobarlo nello stato pontificio. Nell’occasione Venezia, Firenze e Modena con l’appoggio della Francia costituirono una lega che avrebbe presto condotto alla guerra contro il papa. In tale contesto lo spirito antiromano e antispagnolo che emergeva dagli scritti di Pallavicino riscosse non pochi appoggi. Come ebbe modo di scrivere Fulgenzio Micanzio, consultore della Repubblica, il Corriero, pur essendo «pieno di licenze contro l’honestà, contro buoni costumi e contro quel rispetto che la Serenità Vostra ordina che nelle stampe s’habbi alli principi» (Coci, 1988, pp. 255-262), trovava giustificazione nel clima di forte e ingiustificata avversione maturato dalla corte di Roma verso le prerogative dei principi secolari.
Nei mesi di prigione lavorò alla Rettorica delle puttane e ottenne licenza e privilegio per le Due Agrippine, dedicato ad Angelo Correr, che molto si diede da fare per la sua liberazione. Fu scarcerato il 28 febbraio 1642 senza alcun processo. Attorno a lui si era scatenata una feroce battaglia, nella quale i suoi difensori ebbero sistematicamente la meglio. Sicché, malgrado più di una volta in Senato venisse proposta una delibera di bando, questa venne regolarmente rigettata, prevalendo i sentimenti antipontifici alimentati dalle tensioni per il ducato di Castro. Venezia non andò oltre uno scontato decreto di proibizione del Corriero, palesemente pubblicato contro tutte le leggi dello Stato.
Il nunzio Vitelli, mentre insisteva nel denunciare a Roma e al governo veneziano le protezioni garantite a Pallavicino, comprese tuttavia che la situazione generale gli era sfavorevole e che non sarebbe mai riuscito a ottenerne la consegna o la condanna, tanto più che altri libri stavano uscendo. Venne pubblicato allora con i regolari permessi il romanzo le Due Agrippine (Venezia 1642) mentre altri si annunciavano. Vitelli temeva inoltre che Pallavicino potesse fuggire, avendo avuto voci circa personaggi disponibili ad assicurargli protezione anche fuori dello Stato. Si parlò di Giovanni Soranzo, eletto bailo a Costantinopoli, in grado di condurlo con sé nella capitale ottomana, o di Francesco Bibboni, residente di Polonia, che pare gli avesse proposto ricovero nel paese che rappresentava. Di concerto, quindi, con il cardinale Francesco Barberini, iniziò a operare per proprio conto al fine di sottoporlo finalmente a processo. Si diffusero in quelle settimane minacce di morte nei riguardi dello scrittore a cui il nunzio non doveva essere estraneo. L’effetto immediato fu di non rendergli più sicura la permanenza nello stesso Stato veneto. Non appena liberato tornò in convento, da dove tuttavia venne presto sollecitato ad andarsene. Per qualche settimana trovò ricovero presso Loredan. Ritornò quindi in convento, ma ulteriori minacce di morte lo indussero nuovamente a cambiare aria. Si mosse quindi tra il Friuli, Parma e Piacenza. Tornato in estate a Venezia trovò ospitalità presso il patrizio Niccolò Venier. In tali complicati frangenti non smise di scrivere. Il 25 agosto 1642 firmò la dedica della Rettorica delle puttane, uscito anonimo quasi sicuramente a Venezia attraverso la solita rete di librai compiacenti, con il falso luogo di Cambrai.
Vivacissima satira dei metodi di insegnamento dei gesuiti, l’opera illustrava in 15 lezioni gli insegnamenti di una vecchia ruffiana a una giovane per avviarla all’esercizio della professione della cortigiana ed era costruita sulla struttura del celebre trattato De arte retorica di Cipriano Suarez, uscito per la prima volta nel 1562 e punto di riferimento educativo per secoli dei collegi gesuitici. Come ha scritto Laura Coci, «le quindici lezioni traducono quasi alla lettera i precetti gesuitici e persino ne riproducono la disposizione interna» (Coci, 1992, p. XXXIX).
Pochi giorni dopo fu la volta della Baccinata (nella stamperia di Pasquino a spese di Marforio), pesante attacco personale allo stesso Vitelli con riferimenti espliciti alle vicende di Castro. Al quel punto, Vitelli, probabilmente su suggerimento del cardinale Barberini, entrò in contatto con Charles de Bresche, sedicente cavaliere francese, ma figlio di un libraio parigino che si celava sotto il nome di Charles de Morfi, nella speranza di riuscire a sottrarre Pallavicino alle protezioni di cui godeva, inducendolo ad abbandonare la repubblica. Il francese riuscì a avvicinarlo in una delle librerie che era solito frequentare e, pare grazie ad alcune false lettere di Richelieu, a proporgli di mettersi in viaggio per Parigi assieme a lui, con l’assicurazione di un incarico a corte. Fortemente inquieto per le minacce che continuava a ricevere, egli accettò la proposta. Malgrado i pareri contrari degli amici, negli ultimi giorni del settembre 1642 lasciò definitivamente Venezia, diretto a Bergamo presso la casa del cugino Bartolomeo Albani che lo ospitò in attesa che lo raggiungesse Morfi. Insieme l’11 novembre si avviarono in direzione della Francia.
Sotto il falso nome di Jean Raymondi, via Ginevra, Grenoble e Orange, Pallavicino venne quindi attirato con l’inganno a Pont de Sorgue, punto di confine con l’enclave pontificia di Avignone, il cui vicelegato apostolico Francesco Sforza era stato preventivamente avvisato. Il 12 gennaio 1643 fu arrestato dai gendarmi pontifici e rinchiuso nelle carceri. Portava con sé una valigia zeppa di libri a stampa e di compromettenti scritture inedite in buona parte autografe, alcune pronte per la stampa. A marzo la notizia della cattura era pervenuta in Italia, giusto nel momento in cui le tensioni per Castro stavano entrando nella fase più critica. Gli amici più stretti, il cugino Albani, Agostino Fusconi, e i fratelli Ottavio e Ruggero Tassis non risparmiarono energie per trovare il modo di sottrarlo ai Barberini, tentando anche di coinvolgere la famiglia a Parma che tuttavia parve mostrarsi piuttosto tiepida nei riguardi del congiunto.
Furono mesi molto convulsi, agitati anche da false voci e da momenti di speranza. Tra le notizie che girarono allora vi fu quella della sua morte o del suo passaggio a Roma nelle mani dell’Inquisizione, il che alimentò l’illusione di riuscire a rapirlo nel corso del trasferimento. Per coordinare la difesa Albani partì per la Francia.
Nel marzo 1643 uscì anonimo quasi sicuramente a Venezia il Divorzio celeste cagionato dalle dissolutezze della sposa romana.
Nello stesso anno risultano due edizioni, entrambe con falso luogo di stampa, una «in Ingelstatt per Ioseff Arlstrozz» e un’altra in «Villafranca 1643», ma molte di più sono le tirature effettuate in tempi successivi che riprendono i medesimi dati bibliografici. È probabile che la princeps possa essere una delle edizioni di Ingelstat, poiché il luogo di stampa di Villafranca e il marchio ad essa associato caratterizzava in genere le edizioni di Ginevra. L’opera, la cui paternità è correntemente attribuita a Pallavicino, ebbe grandissima diffusione e rapidissime traduzioni in francese, tedesco, olandese e svedese, probabilmente a causa dei contenuti decisamente anticattolici.
Il libro immaginava che Cristo, constatate le deprecabili condizioni in cui si era ridotta la Chiesa di Roma «prostituita alle libidini di molti sommi pontefici e particolarmente di Urbano VIII» (ed. Ingelstatt, p. 9), decideva di chiedere divorzio da essa. Inizialmente inviava però S. Paolo sulla terra al fine di constatare direttamente i «costumi dissoluti dell’adultera». La trama offriva dunque ogni pretesto per affrontare satiricamente una serie di situazioni legate alle vicende politiche italiane contemporanee. Esistono tuttavia fondati dubbi attorno all’attribuzione a Pallavicino di tale opera, la cui fonte principale deriva soprattutto dallo scritto anonimo L’anima di Ferrante Pallavicino (1645), attribuito a Loredan o ai suoi ambienti. Assieme ad altri contemporanei Brusoni si oppose con decisione all’attribuzione, ritenendola una «menzogna» (1654, p. 20) dell’autore dell’Anima. Per il nunzio Vitelli – il quale aveva raccolto informazioni che riteneva attendibili dallo scrittore Tomaso Tomasi, suo infiltrato all’interno degli Incogniti – il libro era costruito su spunti di Frédéric de la Tremouille, conte de Laval, un calvinista francese che risiedeva a Venezia ucciso in duello nel gennaio 1642, ripresi e riscritti da Loredan. Qualche anno dopo Nicolò Guasconi, residente di Toscana a Venezia, ne attribuì la responsabilità a un «un nobile di casa Dandolo», uno dei fratelli Giovanni e Matteo, entrambi incogniti ( Parma, Bibl. Palatina, ms. parmense 1178, 17 maggio 1651). Del Divorzio inoltre non si fece menzione neppure nel processo di Avignone, anche se il libro aveva iniziato a circolare proprio in quei mesi (ipotesi indiziarie diverse sulla possibile paternità del Divorzio sono tuttavia in Carminati, 2011, p. 184).
Il processo si aprì ad Avignone alla fine di agosto 1643. L’accusa chiese conto a Pallavicino dell’enorme mole di scritture che portava con sé. Egli ammise di essere l’autore solo dei libri che recavano palesemente sul frontespizio il suo nome.
Affermò tra l’altro che il Corriero era stato posto a stampa a sua insaputa e che il testo non aveva nulla a che fare con quello che aveva presentato all’approvazione nel 1640. Per quanto riguarda i molti autografi, ammise solo di averli copiati per conto di altri. A proprio discarico, tuttavia, fece pochissimi nomi, quello di Celso Avogadro, compagno di prigionia a Venezia che sarebbe stato l’autore di alcuni degli scritti che portava con sé e quello di Loredan. Sarebbe stato lui a dettargli la Bucata universale, violentissima pasquinata contro i Barberini. Caratteristiche non diverse aveva la Bottega d’occhiali fini, altra satira che affermava di aver solo copiato e che avrebbe dovuto consegnare a Parigi al segretario dell’ambasciatore veneto per conto del patrizio Pietro Michiel, poeta e accademico incognito.
Egli sino all’ultimo sperò di riuscire a evitare la condanna. Nella sua ultima lettera conosciuta del 12 gennaio 1644 (Carminati, 2011), appare ancora fiducioso di riuscire a trovare testimonianze in grado di alleggerire la sua posizione, confermando che buona parte degli scritti che aveva con sé erano stati da lui solo copiati e non concepiti. Il tribunale però non gli credette e, ritenutolo responsabile del crimine di libelli famosi, lo condannò a morte mediante decapitazione. Il 4 marzo 1644 fu degradato dal vescovo di Vaison, il giorno successivo la sentenza fu eseguita pubblicamente nella piazza del palazzo apostolico di Avignone.
Secondo quanto riferisce Gabriel Naudé, sulla base di un manoscritto da lui rinvenuto in una biblioteca parigina, ma di cui non esistono altri riscontri, nel giugno 1646, un italiano di nome Ganducci lo avrebbe vendicato uccidendo il de Bresche nella sua abitazione di place Maubert a Parigi. Imprigionato, sarebbe stato liberato su disposizione del cardinale Mazzarino.
La drammatica morte rilanciò la fama di Pallavicino in Italia e Europa. Le proibizioni e i frequenti sequestri da parte dell’Inquisizione non fermarono sino alla fine del XVII secolo la circolazione delle sue opere e la diffusione delle ristampe. Nel 1654-55 a Venezia lo stampatore Turrini pubblicò una raccolta delle Opere permesse (quelle non condannate all’Indice), ma più richieste furono tutte le altre raccolte nelle Opere scelte (1660, 1671, 1673) che furono ripubblicate fuori d’Italia col falso luogo d’impressione di Villafranca, che nascondeva editori di Ginevra o Amsterdam. La Baccinata, il Corriero svaligiato, e il Divorzio celeste ebbero traduzioni anche in altre lingue europee, in francese, inglese, tedesco, olandese e svedese. Sulla scia della vicenda biografica di Pallavicino e della diffusione delle sue opere nella seconda metà del XVII secolo fu vivace una letteratura variamente ispirata ai suoi scritti. Lo scritto più celebre – uscito a Venezia, a pochissima distanza dall’esecuzione – fu la già citata Anima di Ferrante Pallavicino che proponeva un dialogo tra l’anima dello scrittore decapitato e l’amico Henrico Giblet, sotto cui notoriamente si celava Loredan. Dopodiché per alcuni decenni seguirono molti altri titoli che riprendevano o proseguivano più o meno liberamente i temi di Pallavicino, diffondendo in Europa la polemica anticlericale e anticattolica che aveva animato la sua opera.
Opere: Ed. contemporanee: Il corriere svaligiato con la Lettera dalla prigionia..., a cura di A. Marchi, Parma 1984; La retorica delle puttane, a cura di L. Coci, Parma 1992; Il principe ermafrodito, a cura di R. Colombi, Roma 2005; Romanzi e parodie, a cura di A.M. Pedullà, Torino 2009; Libelli antipapali. la Baccinata, Il divorzio celeste, a cura di A. Metlica, Alessandria 2011.
Fonti e Bibl.: Città del Vaticano, Arch. segreto Vaticano, Nunziatura di Venezia, filze 59-67; Arch. della Congregazione per la Dottrina della Fede, Congregazione dell’Indice, protocolli EE, KK; Bibl. apostolica Vaticana, Barb. lat. 7720, 7722, 7723, 7726, 7729 [le lettere su Pallavicino sono pubblicate in S. Adorni - A. N. Mancini, Stampa e censura ecclesiastica a Venezia: il caso del ‘Corriero svaligiato’, in Esperienze letterarie, X (1985), 4, pp. 3-36]; Bergamo, Bibl. civica Angelo Maj, mss. MMB 595-598, carteggio Albani [le lettere su Pallavicino sono pubblicate in C. Carminati, Tra Bergamo e Avignone. L’ultima lettera di F. P., in Studi Secenteschi, LII (2011), pp. 159-191)]. I principali documenti veneziani sono stati pubblicati da L. Coci, F. a Venezia: nuovi documenti d’archivio, in Studi secenteschi, XXVII (1986), pp. 317-324; XXVIII (1987), pp. 295-314; XXIX (1988), pp. 235-266. Imprescindibile studio bibliografico è L. Coci, Bibliografia di F. P., in Studi secenteschi, XXIV (1983), pp. 221-306. Si veda anche L’ anima di F. P., Lione s.d. [ma Venezia 1645], Le glorie de gli Incogniti, Venezia 1647, pp. 136-139; G. Ghilini, Teatro d’huomini letterati, Venezia 1647, II, pp. 77 s.; P. de S. Romuald, Trésor chronologique et historique contenant ce qui s’est passé de plus remarquable et curieux dans l’Estat, tant civil qu’ecclésiastique, III, Paris 1647, p. 972; G.F. Loredan, Lettere, Venezia 1653, pp. 6, 240, 244; G. Brusoni, Vita di F. P., Venezia 1654; Vigneul-Marville (B. D’Argonne), Mélanges d’histoire et de littérature, Rotterdam 1702, pp. 6-10; Naudæana et Patiniana ou singularitez remarquables prises des conversations de mess. Naudé et Patin, Amsterdam 1703, pp. 110, 222-227; P. Marchand, Dictionnaire historique, ou Mémoires critiques et littéraires, concernant la vie et les ouvrages de divers personnages distingues particulièrement dans la république des lettres, La Haye 1758-59, II, pp. 125-133; C. Poggiali, Memorie per la storia letteraria di Piacenza, II, Piacenza 1789, pp. 170-194; Allgemeine Encyclopädie der Wissenschaften und Künste, III, 10, Leipzig 1838, pp. 134-136; P. Litta, Famiglie celebri d’Italia, V, tav. XXX, s. n. t. (1841); J. Lucas-Dubreton, F. P., ou L’Arétin manqué. Un libertin italien du XVII siècle, Paris 1923; G. Spini, Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano¸ Roma 1950 (II ed. riveduta e ampliata, Firenze 1983), passim; P. Getrevi, Dal picaro al gentiluomo. Scrittura e immaginario nel Seicento narrativo, Milano 1986, pp. 165-214; F. Antonini, La polemica sui romanzi religiosi: una lettera da Parigi di F. P., in Studi secenteschi, XXXI (1990), pp. 29-85; G.L. Bruzzone, L’amicizia tra due letterati secenteschi: Giovan Francesco Loredano e padre Angelico Aprosio, in Atti dell’Istituto veneto di Scienze, lettere ed arti, CLIII (1994-95), pp. 341-374; D. Riposio, Il laberinto della verità. Aspetti del romanzo libertino del ’600, Alessandria 1995, passim; M. Infelise, Ex ignoto notus? Note sul tipografo Sarzina e l’Accademia degli Incogniti, in Libri, tipografi, biblioteche. Ricerche storiche dedicate a Luigi Balsamo, a cura dell’Istituto di biblioteconomia e paleografia, Firenze 1997, pp. 207-223; Diz. biografico dei Parmigiani, a cura di R. Lasagni, Parma 1999, pp. 743-746; M. Infelise, Libri e politica nella Venezia di Arcangela Tarabotti, in Annali di Storia Moderna e Contemporanea, VIII (2002), pp. 31-45; J.-P. Cavaillé, Contre la censure des livres. Deux extraits d’œuvres italiennes traduites en 1644: Le courrier dévalisé de F. P. (Lettre contre ceux qui défendent les livres) et le Divorce céleste, in La lettre clandestine, n. 12, 2003, pp. 225-236 ; R. Urbinati, F. P. Il flagello dei Barberini, Roma 2004; C. Costantini, Fazione Urbana. Sbandamento e ricomposizione di una grande clientela a metà Seicento (2008), http://www.quaderni.net/WebFazione/ 000indexFazione.htm; E. Muir, Guerre culturali. Libertinismo e religione alla fine del Rinascimento, Roma-Bari 2008, pp. 59-97; L. Piantoni, “Per le sagre storie discorrendo”. Etica e politica nei romanzi religiosi di F. P., in Studi secenteschi, LII (2011), pp. 43-67; C. Carminati, Tra Bergamo e Avignone. L’ultima lettera di F. P., cit.; M. Infelise, La decapitazione di un libertino, in S. Luzzatto - G. Pedullà, Atlante della letteratura italiana, Torino 2011, II, pp. 486-492; C. Carminati, Pubblico e privato. Lettere dalla prigione di Giovan Battista Marino e F. P., in L’exemplarité épistolaire, a cura di C. Panzera, Bordeaux 2013, pp. 85-99.